“VIVA L’ITALIA!” – Il grido dei patrioti infoibati, morti per essere italiani
Feb 10, 2023di Alessia Battini
Camminavano in fila, nei boschi. Le urla in croato dei soldati di Tito che gli intimavano di andare avanti senza fermarsi. Uomini e donne di tutte le età, venivano poi legati ai polsi con un lungo filo di ferro, disposti in fila di fronte a un cratere profondo centinaia di metri. Uno dei soldati alzava il fucile. Mirava al primo della fila. Sparava. Il corpo cadeva in avanti, trascinando con sé tutti quelli che erano legati a lui. Qualcuno, nell’impatto, si feriva e moriva sul colpo, o dopo alcuni minuti di agonia. Gli altri, magari caduti sui corpi esanimi, sopravvivevano per qualche giorno, fino a morire di fame o di freddo.
Leggere commenti di giornalisti che gridano alla libertà del negazionismo mi fa piangere dalla rabbia. Ovviamente esiste la libertà di pensiero e ognuno può esprimere il suo parere, ma non penso di aver mai osservato un popolo che osasse negare la morte, lo strazio e le violenze a cui sono stati condannati dei suoi connazionali. Dei patrioti. Solo perché erano italiani.
Non perché fascisti, come si permette di accusarli qualcuno. Lo dimostrano i racconti di chi c’era, i documenti che ci sono pervenuti, i dati che sono stati esaminati.
Quel popolo che dalla fine del “700 era dominato dagli Austriaci, ma che da sempre sentiva forti le sue radici e il suo animo italiano: allo scoppio della Prima Guerra Mondiale i friulani e gli istriani si arruolarono nell’Esercito Italiano, e dopo il 1918 Trieste, l’Istria e alcune città e isole dalmate entrarono ufficialmente ad essere parte del Regno d’Italia. In seguito alla presa di potere di Mussolini, si applicarono politiche di italianizzazione che furono mal viste da tutti, a prescindere dall’etnia. Infatti, le azioni di violenza del regime fascista colpivano indiscriminatamente gli abitanti di quelle zone, chiamate in modo sprezzante i “Regnicoli”, e nella resistenza erano impegnati sia partigiani slavi sia italiani. Quando, nel 1943, il regime crollò, i partigiani jugoslavi presero il potere e, spinti da un profondo sentimento anti-italiano, iniziarono una serie di esecuzioni, a seguito di processi sommari, contro coloro che erano etichettati “fascisti”. Tali erano, secondo loro, i rappresentanti del partito, i funzionari pubblici (dai poliziotti agli insegnanti), i preti, ma anche quelli che avevano partecipato attivamente alla resistenza e appartenevano al Comitato di Liberazione Nazionale. Spesso gli italiani venivano prelevati dal luogo di lavoro o dalle loro case e torturati, con ogni forma di sevizia, prima di essere uccisi. Emblematico è il caso di Norma Cossetto, giovane insegnante che, dopo essere stata violentata per una notte intera da diciassette partigiani titini, fu condotta nel bosco e gettata, nuda, con le mani legate e i seni pugnalati, in una foiba dove fu ritrovata insieme a decine di altri corpi. Altro orrore si è consumato nei confronti del sacerdote Don Angelo Tarticchio, ritrovato in un’altra foiba ricoperto di ematomi per le botte subite, con i genitali tagliati e messi in bocca e una corona di spine sul capo. In territori costieri, come Zara, le esecuzioni consistevano spesso nel legare un masso al collo e gettare le vittime in mare; la fine di Nicolò Luxardo, famoso imprenditore, insieme alla moglie Bianca. E questi sono solo quattro delle migliaia di nomi che potrebbero essere elencati.
Ma queste esecuzioni, seppur abominevoli, erano mirate a determinati soggetti considerati scomodi. Fu nel 1945, a guerra finita, che le truppe di Tito occuparono l’intero territorio, dalla Dalmazia fino a Trieste, e iniziarono una vera e propria persecuzione razziale nei confronti degli italiani che non si sentivano più sicuri a vivere a casa propria. Diventarono sempre più frequenti gli arresti e le sparizioni, anche di jugoslavi che si opponevano al regime comunista. Molti italiani decisero di andarsene per cercare rifugio nella madrepatria, purtroppo inutilmente. L’onorevole Togliatti, si schierò dalla parte di Tito e scatenò i suoi prodi compagni, criticando aspramente tutti coloro che osavano scappare dal “paradiso comunista titino”: erano fascisti che non meritavano salvezza. Spero che ci saranno sempre più persone nel tempo a conoscere l’episodio del 1947 del “treno della vergogna”: un convoglio partito da Ancona gremito di uomini, donne, bambini e anziani dalle terre adriatiche. Era previsto che sostassero a Bologna per rifocillarsi e avere un momento di riposo, ma il personale ferroviario della città più rossa d’Italia reagì, dichiarando che se si fosse fermato il treno dei fascisti avrebbero tutti scioperato. Poi, con un vergognoso gesto di sdegno, rovesciarono i barili di latte, destinati ai bambini che sarebbero arrivati stanchi e affamati, e buttarono il cibo preparato per gli altri.
Capitò poi che molti militanti del PCI decidessero di recarsi nelle terre irredente per costruire il mondo perfetto a mezzo di falce e martello, solo per scoprire, con inevitabile sorpresa, che il paradiso annunciato da Togliatti non esisteva e non sarebbe mai esistito. Dopo la rottura tra Tito e Stalin nel 1948, i comunisti nostrani si schierarono convintamente dalla parte dell’URSS e allora, non solo proseguirono le solite persecuzioni contro gli italiani, ma cominciarono anche le deportazioni di tutti gli oppositori politici (non più perché “fascisti”, ma perché “staliniani”) in campi di concentramento, come quello di Goli Otok, il più conosciuto. Ancora oggi, sull’isola dove si trovava questo luogo di prigionia, resistono le mura dove erano costretti a vivere di stenti, patendo la fame, il freddo e la fatica dei lavori forzati, quelli che non si piegavano al regime titino.
Tante le testimonianze degli esuli che ancora ricordano l’eco dei martelli che si allargava nelle strade delle città, dove le porte e le finestre delle case venivano chiuse con grandi assi di legno. Partivano, traumatizzati dalle persecuzioni e addolorati dai lutti continui di famigliari arrestati e poi spariti, cercando accoglienza e conforto in Italia, dove trovavano invece diffidenza e rancore. Molto spesso rinchiusi in campi come quello di Mantova, dove potevano vivere tranquilli, ma pur sempre isolati dal resto della comunità che ancora faticava ad integrarli.
Alcuni decisero di restare, o perché troppo legati alla loro terra d’origine o perché non erano riusciti a ottenere il visto italiano, vivendo per anni con la paura che nella notte arrivasse una squadra dell’OZNA, i servizi segreti del regime, a prelevarli per umiliarli, interrogarli o ammazzarli. Guardati in malo modo, insultati e minacciati in strada per il semplice fatto di parlare italiano. Tutt’oggi l’astio che ha causato le atrocità di quegli anni permane, seppur in maniera più sottile, come raccontano gli italiani che ancora abitano quelle terre, trattati come stranieri a casa propria.
I più sfortunati non possono darci testimonianza: i loro corpi giacciono nei fondali del Mar Adriatico, nei punti più profondi delle foibe, nei cimiteri dove sono stati pianti per anni senza mai poter essere vendicati. Gridavano “Viva l’Italia!”. Quell’Italia che li aveva abbandonati, denigrati, insultati. Quell’Italia che ha preferito mantenere una terra popolata da persone che ogni giorno rinnegano la loro cittadinanza e la loro appartenenza allo Stivale. Quando il governo americano infatti, dopo la guerra, propose a De Gasperi un referendum plebiscitario per decidere definitivamente la cessione dei territori dell’Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia, il Presidente rifiutò, pur consapevole che il risultato del voto avrebbe permesso di riannetterli all’Italia e interrompere le persecuzioni. Egli temeva però, di dover necessariamente riprodurre la stessa proposta anche all’Alto Adige, dove avrebbero al contrario scelto di tornare nel territorio austriaco.
Abbiamo dunque permesso che venissero ammazzati brutalmente uomini e donne che, all’orlo di un burrone, con le mani legate e un fucile puntato alla tempia, gridavano “Viva l’Italia!”. Nonostante tutto ancora ci permettiamo di negare questi fatti, di giustificare le azioni degli slavi e, ancora peggio, dei politici italiani che le hanno assecondate.
Evitiamo di insegnare questi avvenimenti nelle scuole, come se nella Storia ci fossero vittime più importanti da ricordare di altre.
Ci permettiamo di dedicare nomi di strade delle nostre città al nostro persecutore, al responsabile della pulizia etnica del nostro popolo. Nel 1980 il “Presidente più amato dagli italiani” accarezzò la bandiera deposta sulla tomba di questo carnefice dopo essersi asciugato le lacrime. Ogni anno schiere di giornalisti si prodigano nel giustificare l’odio degli slavi contro il regime fascista, accusando chiunque altro di guardare solo una faccia della medaglia mentre loro stessi raccontano una mezza verità.
Il negazionismo è lecito, ma è doveroso diffondere la verità storica in ogni momento. Eccetto il 10 febbraio, perché in questo giorno ci vogliono silenzio e rispetto: ciò che si meritano gli italiani che hanno subito quest’odio a causa della nostra indifferenza. Niente polemiche, niente discussioni. Vergogniamoci di non essere stati capaci di difendere chi moriva in nostro nome. Solo silenzio e rispetto, da parte di tutti.
[Riferimenti al libro “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”, di Jan Bernas. Vivamente consigliato.]
FONTE : Redazione Blog di Sabino Paciolla
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