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Video. L'errore di Leopardi di Emanuele Gavi

emanuele gavi letteratura Oct 07, 2021
 
Egregio Direttore,
 
non pochi di noi avranno studiato a scuola le Operette morali di Leopardi, e non è improbabile che, tra queste, ci sia stata proposta la lettura del celebre Dialogo della Natura e di un Islandese, testo nichilista quant’altri mai. In due parole: il protagonista del dialogo, un Islandese che è il portavoce di Leopardi stesso, incontra in Africa un donnone gigantesco, ovvero la Natura in persona, che lui ha sempre fuggito (un po’ come il soldato della canzone Samarcanda di Vecchioni fugge la morte fino ad incontrarla). Può così rivolgerle direttamente una serie di lamentazioni: la vita è vana, mai un giorno di pace, ma quante malattie, che orrore la vecchiaia, hai fatto il mondo per tormentarci?, t’ho chiesto io di farmi nascere?, a chi giova questo universo così infelice? Per poi finire sbranato da due leoni, oppure, secondo un’altra testimonianza, venire sepolto da una tempesta di sabbia e diventare una mummia. Il succo è che il destino dell’uomo è costituito da sofferenze, altre sofferenze, e infine la morte. Non c’è alcun senso, alcun significato nell’universo. L’opposto della visione cristiana di Dante.
 
Ora, non vorrei aver dato l’impressione di voler banalizzare questo testo. A mio avviso il dialogo in classe va letto, e seriamente. Però un bravo insegnante non può limitarsi a una lettura acritica, magari accompagnata dall’ammirazione per il genio leopardiano (che se uno lo segue fino in fondo finisce depresso, drogato o suicida). Bisogna trovare un antidoto al nichilismo. Lo dobbiamo ai nostri giovani.
 
Proviamo allora a rispondere noi alla domanda di senso dell’Islandese, visto che la Natura, indifferente fino al cinismo alla sorte dell’uomo, rimane muta e imperturbabile. Le chiede lo sventurato viaggiatore: “A chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo?”.
 
La domanda è radicale, e di questa radicalità va dato merito a Leopardi: cui prodest? che senso ha il mondo, l’esistente? Per rispondere, torniamo indietro e cerchiamo di capire che tipo è questo Islandese (dietro cui si nasconde il Recanatese).
 
L’Islandese è un viaggiatore. Non un viaggiatore per divertimento, ma un uomo in fuga: poiché si è convinto che tutti i piaceri sono illusori, il suo unico scopo è divenuto quello di fuggire le sofferenze. E per questo si è messo a girare il mondo, alla ricerca di un posto dove non si soffre. Un’utopia dunque (u-topia, in greco “non luogo”). Ecco un primo errore dell’Islandese: un simile posto non esiste. Sarebbe come dire: fermate il mondo, che voglio scendere. Hai voglia a percorrere il pianeta in lungo e in largo.
 
Ma la ricerca dell’Islandese è viziata da un secondo errore. Non solo non esiste un luogo (una vita) che non conosca il patire. Le parole dell’Islandese mettono in luce anche una contraddizione profonda. Lui sostiene di non essere come gli altri uomini, che si affannano invano per migliorare la loro condizione (“tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano”). E rivendica: “Non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti”. A ben vedere, però, anche questo è un progetto di vita. Solo che è squallido. Anche l’Islandese cerca la felicità, come fa chiunque, soltanto che per lui essa coincide con l’atarassia decantata dai filosofi antichi, cioè l’assenza di turbamento. E per raggiungere questo stato di “divina Indifferenza”, come lo chiamerebbe Montale, si mette in moto pure lui, esattamente come tutti i suoi simili. I suoi viaggi stanno lì a dimostrarlo. Si crede diverso, ma non lo è.
 
Da simili premesse erronee, dunque, non può che derivare una conclusione amara, una sonora batosta. È davvero colpa della Natura, se l’Islandese è infelice? Come potrebbe mai essere felice un uomo tutto concentrato su sé stesso, rinchiuso in sé stesso (come racconta proprio lui, “io mi ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso”). Come può essere contento un uomo che tiene costantemente l’attenzione sul bicchiere mezzo vuoto, sui propri malanni? È chiaro che così non se ne libererà mai.
 
L’errore principale dell’Islandese (e del nichilista Leopardi) è appunto questo: soffre perché ha fatto dell’eliminazione della sofferenza lo scopo della sua vita, e in questo modo non vede altro che sé stesso e la sua sofferenza. È un egocentrico, una persona tutta concentrata su sé stessa, rannicchiata in sé. Viaggia per mari e per monti ma non esce mai da sé, non distoglie mai l’attenzione dai suoi problemi.
 
E qui veniamo alla domanda a cui ci siamo proposti di rispondere. Non è che l’universo abbia “vita infelicissima”, come a torto si è messo in testa l’Islandese: è che il suo universo è lui stesso, i confini di questo suo personalissimo universo sono le avversità che lo affliggono.
 
La possibile soluzione, invece, a cui l’Islandese non approderà mai, è decentrarsi. Cioè uscire da sé stessi, per un momento dimenticare i propri problemi e provare a concentrarsi su quelli altrui, per alleviarli: provare a vivere per gli altri. L’Islandese, al contrario, si è allontanato da tutti, per paura. Temeva il male che gli altri avrebbero potuto fargli. Così si è rinchiuso in sé stesso, e non ha conosciuto il bene che gli altri gli avrebbero donato, e il bene di cui lui avrebbe fatto dono agli altri, e che nello stesso tempo gli avrebbe illuminato l’anima. “È dando che si riceve” recita una preghiera famosa, attribuita a san Francesco ma in realtà scritta circa un secolo fa. L’Islandese non l’ha mai capito, ed è vissuto nella prigione in cui lui stesso si è rinchiuso. Per forza che ha fatto vita grama. La Natura (Dio) non ne ha colpa.
 
Ecco quello che dobbiamo spiegare ai giovani: chi si concentra sugli altri, chi vive per la felicità di sua moglie, o di suo marito, dei suoi genitori o dei suoi figli, sarà felice. E perché mai succede questo? Perché chi vive così scopre l’amore. E chi scopre l’amore ha dato un senso all’universo. Ecco il significato che l’Islandese cercava tanto disperatamente: è l’amore “che move il sole e l’altre stelle”, come dichiara Dante nel verso con cui conclude la Divina Commedia, consegnando proprio questo messaggio al lettore che ha avuto la costanza di seguirlo nel suo lungo viaggio.
 
Bisognerebbe far scontrare tra loro gli autori della letteratura. Dante versus Leopardi, e risulta chiaro come è diviso il mondo. Si badi, non diviso tra ottimisti e pessimisti (Leopardi non era pessimista, ma nichilista, il che forse è molto peggio). O tra buoni e cattivi. Il mondo si divide in nichilisti e uomini di fede. Fede in Dio ma anche fede nella vita, nella bontà della vita. Certo, a chi crede in Dio viene oggettivamente più facile anche nutrire questa fiducia nell’esistenza.
 
E l’ateo Leopardi? Il bello è che il cattivo maestro Leopardi (nelle Operette morali) resta un grandissimo poeta (nei Canti). E quindi anni dopo la stesura del Dialogo della Natura e di un Islandese, che risale al 1824, scriverà Il passero solitario (non sappiamo di preciso quando: probabilmente negli anni Trenta):
 
D’in su la vetta della torre antica,
passero solitario, alla campagna
cantando vai finché non more il giorno;
ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
brilla nell’aria, e per li campi esulta,
sì ch’a mirarla intenerisce il core.
 
Primavera, tenerezza, armonia: anche Leopardi, da sommo poeta qual è, non può non vedere, e cantare, la bellezza del mondo. Potremmo dire che la sua poesia disconosce la sua filosofia. E forse se ne era reso conto lui stesso, quando scriveva, in chiusura di questa lirica:
 
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.
 
Chissà che in questi versi non si celi un Islandese che ha cambiato idea. Dopo tutto colpevole non era la Natura, o la vita. Forse era lui che aveva sbagliato a “fuggire lontano” dai divertimenti, dall’amore, dagli altri. La vita, sì, la vita poteva, può essere bella.
 
Cordiali saluti
 
Emanuele Gavi
 

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