VIDEO. Il Cantico di Frate Sole ci insegna a combattere
Nov 29, 2021A chi volesse approfondire l'importanza anche drammatica della battaglia delle idee, propongo una mia riflessione sul fatto che i libri uccidono. Nientemeno:
Egregio Direttore,
Lei, in quanto giornalista (sebbene Nessun Giornale La veda impegnato in redazione), conoscerà senz’altro il cosiddetto “effetto Werther”. I miei alunni no. Non sanno che con questa espressione si indica l’influenza esercitata dai mass media sui comportamenti suicidi (si veda qui). Più si parla di un suicidio, magari di quello di un personaggio famoso, più si indugia sulle modalità con cui è stato messo in atto, e più si rischia di suscitare l’emulazione, fino a creare involontariamente una vera e propria epidemia di suicidi. Il suicidio è una brutta malattia, una malattia mortale e contagiosa. Ma perché “effetto Werther”? Werther è il protagonista di un classico di J.W. Goethe, pubblicato nel 1774: I dolori del giovane Werther. Credo sia il romanzo più antico che propino ai miei studenti. Inutile dire che nel finale il protagonista si ammazza. All’uscita del libro, il successo editoriale generò una vera e propria moda: i giovani vestivano alla Werther, indossando come lui frac blu, panciotto e pantaloni gialli, ne imitavano gli atteggiamenti, si toglievano allegramente la vita.
Ai miei studenti un libro appare nient’altro che un mazzetto di fogli di carta incollati insieme, un cumulo di parole stampate, un compito, una fatica, più raramente un piacere. Sembra loro incredibile che un tale oggetto possa indurre qualcuno a un gesto estremo. Eppure è così: i libri uccidono, come del resto certi giochi (pensiamo al fenomeno Blue Whale). I libri uccidono, e prenderne atto aiuta i ragazzi a intuirne l’influenza sulla vita di ciascuno di noi, anche di coloro che non leggono. Naturalmente spero sempre che ne capiscano le valenze positive, oltre che quelle negative, ma partire da un caso limite è didatticamente utile a smuoverli dall’indifferenza, a colpire la loro immaginazione e a richiamarne così l’attenzione. Le parole per loro sono ectoplasmi. Non sanno che le parole sono pietre, che possono essere scagliate contro qualcuno, e a volte diventano macigni e valanghe, che provocano danni impensati molto a valle, quando sono rotolate fuori dal campo visivo di chi le ha lanciate. Apprenderlo li aiuta a riformulare il loro rapporto con la parola scritta, con la lingua scritta, ed è così che cominciano a coglierne le straordinarie possibilità: cominciano a farsi toccare in profondità dal testo, a lasciarsene affascinare. È un grande inizio, per loro, quando prendono in mano quell’oggetto un po’ démodé, analogico e non digitale, fatto di carta marchiata di inchiostro, e non di plastica farcita di metalli come uno smartphone, e gli permettono finalmente di commuoverli o di divertirli, di trasmettere loro il brivido della tensione narrativa, della suspense, in una parola di emozionarli. Sì, certo, esistono gli eBook, ma non mi sembra possibile muovere i primi passi nel mondo della lettura con un eBook. Il primo amore è ancora un libro cartaceo. Occorre la fisicità dell’oggetto, il fruscio delle pagine, la grafica della copertina. Per i principianti la copertina è fondamentale! I docenti che insegnano che un buon libro non si giudica dalla copertina sbagliano: il discorso vale solo se si rivolgono a lettori già esperti (e in tal caso risulta superfluo farlo: i lettori esperti lo sanno già). I lettori principianti hanno bisogno di una bella copertina, di una grafica accattivante, del valore estetico dell’oggetto libro. E i giovani sono sempre dei principianti, per ragioni anagrafiche. I giovani di oggi, poi, lo sono ancora di più rispetto a quelli di ieri, perché davvero non hanno mai letto niente, nemmeno Topolino. Sa, Direttore, cosa fanno i miei studenti quando prendono in mano un libro nuovo? Lo sniffano… pardon, lo annusano. E hanno ragione. Meglio un libro di una pista di cocaina. D’altronde uno dei mantra che ripeto al professionale è proprio questo: “Meno droga e più libri!” Se riducano il consumo di droga non saprei dire, ma i libri li leggono (li costringo, pena un 2 sul registro). E se il libro è nuovo, ci fanno conoscenza con l’odorato. Nessun eBook offrirà mai il profumo di certi libri.
Quindi, se si vuole appassionare qualcuno alla lettura, magari un giovane apatico, dipendente dal cellulare, istupidito da trasmissioni come L’Isola dei Famosi o Uomini che erano Donne, bisogna utilizzare i metodi dei maniaci incrociati con quelli di Bud Spencer: regalare loro dei libri colorati come le caramelle (gli insegnanti oggi possono comprare trenta copie di un romanzo, per fornirlo gratis a tutta una classe, utilizzando la Carta del Docente), e partire da concetti semplici e dirompenti come un cazzotto nello stomaco. Per esempio dal fatto che il libro dato di compito per le vacanze di Natale ha ucciso.
Qualcuno potrebbe obiettare che far leggere a dei giovani un libro che ha spinto altri giovani al suicidio sia pericoloso. Gli rispondo in tre modi.
Innanzitutto teniamo presente che la cultura in cui siamo immersi, dalla musica al cinema, dalla letteratura alle arti figurative, non fa altro che bombardare i nostri ragazzi di messaggi di morte. Sarebbe ingenuo volerli preservare dal lato oscuro del mondo in cui vivono, da quel maledettismo che li affascina tanto.
Dunque diventa necessario affrontare tali messaggi a scuola e in questo modo – e qui vengo al secondo motivo per cui ritengo questa metodologia non solo efficace, ma anche importante e salutare – analizzarli, smontarli, depotenziarli. Perché a scuola i ragazzi non sono soli di fronte al nichilismo rovesciato su di loro a piene mani da tutti i media, come avviene invece quando si trovano davanti agli schermi lampeggianti di casa, ma hanno nel professore una figura di riferimento, un mediatore in carne e ossa, un negoziatore capace, se ne è capace, di smascherare i mostri e allenare gli alunni a combatterli, a sconfiggerli, fornendo armi ed equipaggiamento, e indicando qualche meta un po’ più elevata che vivacchiare in bilico tra edonismo e horror vacui.
In terzo luogo, è difficile che i ragazzi si identifichino con un personaggio del Settecento, che veste di blu e giallo (!), e anziché stordirsi con le cuffiette e la musica a palla passa ore a leggere Omero e I Canti di Ossian.
Mi si dirà allora che I dolori del giovane Werther è troppo complesso per un lettore principiante. Verissimo. Meglio assegnarne la lettura a un liceale, quando in letteratura sta per accingersi a studiare il Preromanticismo. Il che non toglie che si può da subito parlare di “effetto Werther” e di questa verità (“i libri uccidono”) che vellica l’interesse dell’uditorio col fascino del proibito.
C’è un altro romanzo da sfruttare, nel cui protagonista i giovani si identificano più facilmente, e che quindi funziona meglio come pifferaio di Hamelin. Non ha la copertina colorata, perché l’autore era di quelli che un libro non si giudica etc., ma cattura gli adolescenti lo stesso: Il giovane Holden, scritto da J.D. Salinger, e pubblicato nel 1951. Un altro giovane, un altro intellettuale, un altro ribelle. Ma soprattutto un altro libro che ha ucciso o ci è andato vicino.
Holden Caulfield è un giovane newyorkese, di famiglia ricca, snob quanto basta, ribelle contro una società che gli ha dato tutto. Ricorda centinaia di alunni che affollano le nostre aule. Ah, si è fatto espellere dal college ed è un bugiardo compulsivo, il che arricchisce il romanzo di episodi umoristici. Ma soprattutto, per la sua carica eversiva contro la società e le sue ipocrisie, Holden piace a killer e mitomani. Ci sono anche un paio di frasi non proprio innocue, che sarà meglio sottolineare da subito ai ragazzi: “Preferirei scaraventare uno dalla finestra o mozzargli la testa con un’ascia, piuttosto che dargli un cazzotto sul grugno”, e soprattutto “Questo è un berretto per sparare alla gente. Io ci sparo alla gente, con questo berretto”. Sono solo esempi dell’estremismo verbale tipico di un giovane di sedici, diciassette anni, che Salinger sa riprodurre con grande talento. Il linguaggio di Holden è costellato di iperboli e giudizi taglienti (per le prime, ad esempio: “Da quando avevo quella dannata fotografia, doveva averla presa in mano e guardata almeno cinquemila volte”, “Per poco non cascavo morto, accidenti”; per le seconde: “Ecco una parola che detesto con tutta l’anima. È fasulla. Roba che vomiterei ogni volta che la sento”, “Suo figlio era indiscutibilmente il più emerito bastardo che fosse mai stato a Pencey in tutta la sporca storia dell’istituto”). È un modo di esprimersi aggressivo, tipico degli adolescenti. Gli adolescenti sono estremisti per natura: per loro è tutto bianco o tutto nero.
Ma le parole pesano come macigni, e quando un libro diventa un grande successo editoriale, non si possono conoscere in anticipo tutte le persone che lo leggeranno. Tra loro potrebbe esserci uno squilibrato. Come Mark David Chapman, che nel 1980, tre ore dopo aver ucciso John Lennon, dichiarò alla polizia: “Sono sicuro che la parte più grande di me sia Holden Caulfield”. Chapman, dopo l’omicidio, si era messo a leggere proprio questo libro, attendendo l’arrivo degli agenti.
Un anno dopo un uomo esplode sei colpi all’indirizzo del presidente Ronald Reagan, colpendolo al polmone sinistro. Si chiama John Warnock Hinckley Jr., e dichiara alle forze dell’ordine: “Se volete una spiegazione, tutto quello che dovete fare è leggere Il giovane Holden”. A differenza di Reagan, che se la caverà, nel 1989 una giovane attrice, Rebecca Schaeffer, viene uccisa da uno stalker, Robert John Bardo, che aveva con sé una copia del best seller di Salinger.
Ma c’è ancora un altro libro, caro Direttore, di cui gli studenti italiani dovrebbero leggere almeno alcuni brani. È un testo venerato da oltre un miliardo di persone. Insegnato e studiato in apposite scuole, imparato a memoria dai credenti. Sto parlando del Corano. In questo libro le esortazioni alla violenza sono numerose. Per esempio: nella Sura II, versetto 191, chiunque può leggere: “Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la fitna è peggiore dell’omicidio”. Fitna è un termine molto ampio, intraducibile, che indica tutta una serie di comportamenti colpevoli verso Allah e le Sue leggi. E ancora, sempre nello stesso versetto: “Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti”. Passiamo alla Sura IV, versetto 89: “Ma se vi volgono le spalle, allora afferrateli e uccideteli ovunque li troviate”. Sura VIII, versetto 17: “Non siete certo voi che li avete uccisi: è Allah che li ha uccisi”. E potrei continuare (chi fosse interessato all’argomento può leggere qui). Mi chiedo: nella sua storia ultramillenaria, quanti uomini sono stati spinti a uccidere da questo libro considerato sacro?
I libri non sono noiosi. E non sono innocui. I libri uccidono. Per questo vanno letti.
Cordiali saluti
Emanuele Gavi
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