«Vi racconto la famiglia Ulma, martire per amore del prossimo»
Feb 14, 2023di Ermes Dovico
La famiglia culla della fede, l’infinita dignità del concepito, l’amore per Dio, fonte dell’amore per il prossimo. Il postulatore don Witold Burda racconta in un’intervista alla Bussola la storia dei coniugi Ulma e dei loro sette figli (uno nel grembo materno), uccisi dai nazisti per aver dato rifugio a otto ebrei. E spiega come si è giunti a riconoscere il martirio dell’intera famiglia.
A dicembre la Chiesa ha offerto un grande dono ai fedeli e al mondo intero, promulgando il decreto che riconosce il martirio dei coniugi polacchi Józef (Giuseppe) e Wiktoria (Vittoria) Ulma e dei loro sette figli uccisi a Markowa il 24 marzo 1944 - assieme agli otto ebrei cui offrivano rifugio nella propria casa - da una squadra di gendarmi nazisti. Ciò significa che presto verrà beatificata, per la prima volta nella storia, un’intera famiglia (già nota ai lettori della Nuova Bussola), oggetto di devozione fin dai primi giorni dopo la morte. E, sempre per la prima volta, sarà beatificato un bambino ancora nel grembo materno, visto che Wiktoria, quel 24 marzo, era incinta, nella fase finale della sua gravidanza. A questo piccolo mai nato, il cui nome è noto solo al Cielo, è stata dunque riconosciuta la palma del martirio, come ai fratellini Stanisława (nata nel 1936), Barbara (1937), Władysław (1938), Franciszek (1940), Antoni (1941), Maria (1942).
Ma come si è arrivati a comprovare il martirio in odium fidei? La Bussola lo ha chiesto al postulare della causa, don Witold Burda.
Don Burda, che cosa sappiamo della fede della famiglia Ulma?
Intanto, sia Józef che Wiktoria provenivano da due famiglie profondamente cristiane. I genitori di Józef Ulma erano contadini. Uno dei fratelli di Józef, Władysław, testimonia: «La nostra famiglia era semplice, con genitori credenti e una madre che negli ultimi anni della sua vita partecipava ogni giorno alla Santa Messa. Eravamo quattro fratelli. I nostri genitori pregavano in casa, e si cantava insieme una funzione dedicata alla Madonna (…). In questo clima spirituale fu educato anche Józef. Egli, come tutti noi, si accostava ai Sacramenti nei tempi stabiliti».
Abbiamo informazioni simili su Wiktoria e la sua famiglia d’origine, nella quale era abitudine che chiunque andasse da loro ricevesse un aiuto. Per le feste si preparava un pacco con del cibo e altro materiale per le persone bisognose.
Dunque, le rispettive famiglie furono la culla della fede per Józef e Wiktoria.
Sì. E da ragazzi vollero approfondire la loro fede cattolica, attraverso la preghiera personale, la partecipazione ai Sacramenti, soprattutto la Messa e la Confessione frequente. Inoltre, facevano parte di diverse comunità e confraternite religiose allora esistenti a Markowa, il loro paese natìo. Si sentivano responsabili per il bene della parrocchia e della Chiesa. Ed entrambi, per esempio, appartenevano alla confraternita del Rosario Vivente.
Erano quindi molto devoti alla Madonna. E il loro matrimonio?
Si sposarono il 7 luglio 1935 - lui aveva 35 anni, lei non ancora 23. Costruirono la loro famiglia sul fondamento della fede, con la fedeltà ai due comandamenti essenziali: il comandamento dell’amore di Dio e quello dell’amore del prossimo. I testimoni oculari affermano che i coniugi Ulma erano molto aperti e disponibili ad aiutare ogni persona che bussava a casa loro. Era un aiuto puro, non cercavano un tornaconto, ma si ispiravano al Vangelo. A proposito c’è un particolare importante.
Quale?
Dopo la loro morte, a casa Ulma fu trovata una Bibbia con due sottolineature in rosso, probabilmente fatte da Józef: una di queste sottolineature riguarda il titolo della parabola del Buon Samaritano. Per questo oggi i coniugi Ulma e i loro figli vengono chiamati «i samaritani di Markowa».
E l’altra sottolineatura?
L’altra riguarda un passo del Discorso della Montagna, precisamente quello dove Gesù dice: «Se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?» (Mt 5, 46).
Un passo sull’amare anche i nemici...
Esatto. Entrambe le sottolineature riguardano l'amore per il prossimo. Ciò fa capire quale clima si respirava in casa Ulma e come educavano i loro figli.
Józef e Wiktoria pregavano abitualmente insieme ai figli?
Abbiamo una testimonianza della madrina di Władysław, il terzo figlio di Józef e Wiktoria. La madrina afferma: «Più o meno per una settimana, dopo la nascita di Władysław [5 dicembre 1938], ho abitato a casa di Józef e Wiktoria. In quel periodo, Wiktoria stava a letto perché era ancora molto debole in conseguenza del parto. E, ogni giorno, vedevo Józef pregare inginocchiato insieme ai figli». C’è tutto in questa testimonianza.
Andiamo al martirio. La Chiesa prevede tre elementi per riconoscere il martirio in odio alla fede: 1) il martirio materiale; 2) il martirio formale ex parte persecutoris; 3) il martirio formale ex parte victimarum. Iniziamo dal primo punto.
L’uccisione della famiglia Ulma e degli otto ebrei da loro ospitati per circa un anno e mezzo è stata ricostruita in base agli atti processuali e istruttori conservati nella documentazione del processo contro uno dei responsabili della strage, il gendarme Joseph Kokott (1921-1980). Negli atti processuali si trova il protocollo di escussione di un testimone oculare dell’assassinio: si tratta del carrettiere Edward Nawojski, uno di coloro che trasportarono in piena notte i gendarmi tedeschi a Markowa, arrivandovi poco prima dell’alba del 24 marzo 1944. A capo della truppa c’era Eilert Dieken (1898-1960), che guidava altri cinque gendarmi, scortati da un gruppo di quattro-sei poliziotti blu. Prima furono uccisi gli otto ebrei nascosti dagli Ulma, con ultimo il più anziano di essi: Saul Goldmann.
Józef e Wiktoria furono trascinati fuori di casa e fucilati. Il testimone oculare, Nawojski, dà conto della «visione orrenda» cui dovette assistere. «Dopo l’uccisione dei genitori, tra le grida dei figli, i gendarmi cominciarono a discutere cosa fare con i bambini. Dopo averne parlato brevemente con gli altri, il comandante Eilert Dieken decise di fucilare anche tutti i bambini». Il carrettiere vide tre o quattro bambini fucilati per mano di Kokott, un giovane di 23 anni, che sul berretto aveva una “testa di morto”, un segno satanista, occulto, forse perché era vicino ai gruppi di Himmler. Le parole di Kokott rimasero profondamente incise nella memoria di Nawojski: «Guardate come muoiono i maiali polacchi che danno rifugio agli ebrei».
Questo è il martirio materiale. Riguardo ai persecutori, il riconoscimento del martirio formale significa che è stato dimostrato che, oltre a odiare gli ebrei, odiavano la fede cattolica.
Almeno tre aspetti ce lo confermano. Il primo, direi, generale. La spedizione della gendarmeria tedesca guidata da Dieken metteva in pratica gli obiettivi dell’ideologia nazionalsocialista che cercava di distruggere il cristianesimo. Per esempio, Martin Bormann, uno dei collaboratori più stretti di Hitler, affermava che «le idee nazionalsocialiste e quelle cristiane sono incompatibili». Questo è l’aspetto più generale, poi ce ne sono almeno due più specifici. Sappiamo in modo ampio e documentato che i gendarmi responsabili della strage degli otto ebrei e della famiglia Ulma partecipavano ogni mese e perfino ogni settimana a corsi che li istruivano nell’ideologia nazionalsocialista. Il comandante Dieken era un cristiano evangelico che nel 1941 partecipò a un corso basato sulla dottrina nazista, e proprio in quell’anno volle abbandonare la fede cristiana. Era deciso a combattere contro il cristianesimo. Lui e la sua squadra di gendarmi sapevano bene che gli Ulma erano cattolici praticanti e come la loro fede fosse alla base del dare rifugio agli ebrei. E Dieken volle nella sua squadra Kokott, conoscendo la sua ferocia.
Infine, il martirio formale ex parte victimarum (da parte delle vittime): esso è dimostrato proprio dalla comprovata fede degli Ulma, giusto?
Sì. Oltre a quanto già detto sulla loro fede, abbiamo varie testimonianze su come la decisione di ospitare i Goldmann fosse stata ponderata. Per esempio, Józef Ulma si sentì dire diverse volte: «Non nascondere gli ebrei, perché vi mettete nei guai». E lui rispondeva con fermezza: «Sono persone, non le caccerò via». Qui si coglie proprio la disponibilità al martirio.
Questa è la prima volta che si riconosce il martirio di un bambino ancora nel grembo materno. Può sintetizzarci gli argomenti teologici alla base di questo riconoscimento?
Sottolineo tre punti. Il primo riguarda l’educazione cattolica dei figli. Come abbiamo accennato, i figli crescevano in un clima di calore familiare e fedeltà al Vangelo, un fatto confermato dalle testimonianze. Pochi giorni dopo la nascita, Józef e Wiktoria battezzavano i loro figli, insieme a loro pregavano a casa, partecipavano alla Messa, eccetera. Ed è in questo stesso clima di fede che sarebbe stato cresciuto, se fosse nato, anche il settimo figlio. Il primo argomento è quindi la fede ricevuta a casa.
Gli altri due punti?
Possiamo richiamare la storia dei Santi Innocenti, i bambini fatti uccidere da Erode a caccia di Gesù. Erano bambini molto piccoli, sotto i due anni, che non erano coscienti di quel che stava succedendo. Eppure, fin dai primi secoli cristiani, la Chiesa ha riconosciuto che la loro uccisione era stata un vero e proprio martirio. Abbiamo delle bellissime omelie su di loro, anche di dottori della Chiesa, come sant’Agostino e san Pietro Crisologo. E al riguardo, è molto importante richiamare il concetto del battesimo di desiderio e di sangue. Altri due grandi dottori della Chiesa, come san Bernardo di Chiaravalle e san Tommaso d’Aquino, ci dicono poi che la grazia di Dio non è limitata a una sola via, quella sacramentale, che pure rimane la via principale, insegnata dallo stesso Gesù. Dio cerca anche altri modi, per darci la Sua grazia e costruire un rapporto personale con Lui. Questa verità trova conferma in un documento del 2007 della Commissione Teologica Internazionale, intitolato La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo.
In definitiva, il riconoscimento del martirio per il bambino nel grembo materno trova spiegazione nel primato della grazia?
Questo è proprio un argomento che abbiamo sottolineato per dimostrare che l’uccisione di quel bambino è stata un martirio per la fede.
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