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TRUTH

UOMO E ANIMA – OCCHIO ALL’INGANNO

andrea di napoli Mar 13, 2024

di Andrea di Napoli

Decidere di voler dissertare sulla spiritualità e la sua fenomenologia, oggi giorno, non è un’iniziativa facile; e, soprattutto, appare essere un’esigenza decontestualizzata ed atipica. Non è facile perché sono davvero pochi coloro che ancora credano di possedere un elemento intimisticamente trascendente; ed è paradossalmente inconsueto giacché l’uomo contemporaneo sia portato a considerare soltanto ciò che è sensibilmente interessante e manifesto. A questo si aggiunga, poi, l’annosa piaga del relativismo etico, che col tempo ha svuotato qualsiasi riferimento identitario e valoriale. Per cui, se per secoli si è ritenuto che la complessità dell’essere umano si sostanziasse nel binomio sistemico animus et corpus, oggi quello stesso binomio si è purtroppo involuto in un inautentico monomio, tutto unicamente proteso alla sola dimensione fenomenica dell’uomo (corpus). Già il filosofo stagirita si esprimeva in termini di forma (anima) e materia (corpo); ed il teologo aquinate parlava di un’anima informante il corpo.

Oggi, invece, l’uomo del terzo millennio si preoccupa esclusivamente del proprio aspetto somatico, della propria salute cinestetica, ma della propria anima e del proprio percorso spirituale non vuole saperne nulla. Dunque, la vera crisi della spiritualità è da intendersi non già la deiezione tout court dello spirito, ma la sistematica presunzione con cui taluni credono di poter negare una realtà insensibile (cioè, metafisica, non sperimentabile con i sensi). La crisi della spiritualità alla quale oggigiorno assistiamo presenta, così, una sintomatologia ben definita: una totale assenza della potenzialità trascendente e, contestualmente, un immotivato affanno per il dato immanente. Le dinamiche procedurali che hanno cagionato (e continuano purtroppo a cagionare) un evidentissimo annichilimento della sfera noumenica (spirito) dell’uomo sono assai chiare e del tutto tangibili. Una di queste risiede nell’abusiva alterazione semantica che di alcuni termini chiave è stata proposta e propagandata. Si consideri il significato imprepensabile da qualche tempo attribuito al sostantivo/aggettivo laico. Prima di entrare nel merito della trattazione, pongo alcuni quesiti eziologici. Una confessione religiosa è da ritenersi elemento inibente delle libertà personali o, invece, è da interiorizzare come esigenza totalizzante per una sana ontologia umana? Oggi è comune l’espressione “lo Stato è laico, la Costituzione è laica”. La validità grammaticale di questa espressione può essere accompagnata da un’altrettanto validità antropologica? Voglio dire che, se sotto un profilo meramente linguistico è possibile dire “Lo Stato è laico, la Costituzione è laica”, si è sicuri che lo si possa ugualmente affermare anche sotto un profilo storico-culturale, dove l’unica preoccupazione però non è già la sintassi, ma l’onestà di non auto-contraddirsi?

Considerando il passato, cioè il mondo classico (la genesi della nostra storia), risulta che a quei tempi andasse di moda credere in entità (divinità) che superassero i comuni limiti mortali umani e che (le entità divine) guidassero a loro piacimento le sorti di chiunque. Dunque, una buona parte della storia umana si è mossa in quella direzione, costruendo così basi sociali e strutture morali. Procedendo temporalmente, giungiamo agli albori del cristianesimo che, inspiegabilmente si diffonde proprio nell’ambiente più pagano del tempo, ovvero nell’Impero romano. Inspiegabilmente perché i romani accettarono di abbandonare la propria dottrina politeista (gli dei) per abbracciarne una monoteista (Gesù Cristo), che si presentava oltremodo essere sostanzialmente antitetica a quella d’origine. I latini sono noti per il loro raziocinio procedurale e per la loro capacità critica di affrontare gli eventi. Eppure, se questo evoluzionismo confessionale è avvenuto, deve essersi verificato qualcosa di straordinario, qualcosa cioè che ha avuto l’efficacia di superare l’ordinario. Avanzando ancora nella storia, ecco che giungiamo alla Rivoluzione francese. Ma perché proprio la Rivoluzione francese?

Perché essa ha avuto l’apodittica pretesa di ritenere obsolescenti tutte quelle altre realtà che fino al quel momento avevano gerarchicamente e giustamente strutturato ogni aspetto della vita. La Rivoluzione francese ha creduto che la prassi della ragione potesse superare ogni atto dogmaticamente speculativo. Ma nei fatti, la ragione illuminista non ha qualitativamente mutato la sostanza impositiva (cioè non positiva) della fede, anzi ad essa si è paradossalmente sostituita; la dea ragione, per l’appunto. De facto, non è più la fides a godere di quella “insopportabile” trascendenza, ma la stessa ratio. È nei disordinati paradossi di questa rivoluzione (i disordini sono propri di tutte le rivoluzioni) che si trovano le cause di ciò che oggi viene ideologicamente propagandato. Una propaganda che, come adesso vedremo, tradisce la memoria storica e culturale dell’uomo, oltre che contraddire quella garanzia che ci consente di pensarci come popolo. La definizione di popolo, difatti, è la prima incoerentemente a cadere, dopo il sostanziale (cioè relativo alla sostanza, ai contenuti) corto circuito rivoluzionario del 1789. Incoerentemente perché il desiderio di potersi definire popolo era stato rivalutato e rilanciato proprio attraverso quelle timidissime e sane consapevolezze Sette-Ottocentesche (le operazionalizzazioni post-umaniste), le quali avevano avuto il merito di riscoprire nell’uomo un suo specifico status (homo faber. L’uomo, tuttavia, è uomo se accetta l’esistenza di Dio). È in virtù dell’impeto rivoluzionario (pratico-illuministico e sentimentale-romantico) che le masse iniziarono a concepirsi popolo.

Il popolo è l’evoluzione auto-coscienziosa della massa, la quale invece è tale perché smembrata dei suoi elementi ontologicamente caratterizzanti. Il popolo, o meglio lo spirito di popolo nasce da una perfetta e completa commistione di elementi necessari: grammatica, letteratura, lingua, tradizione, storia e religione. Queste realtà sono tra loro interdipendenti e collaborano sinallagmaticamente al concetto di popolo. Senza anche uno solo di questi elementi non può esserci popolo, non può esserci cioè consapevolezza di se stessi. Avremmo solamente un’idea confusa di una massa, a sua volta incosciente. Ribadisco, tutte queste realtà hanno un carattere identitario e ci consentono di poterci riconoscere; sono la nostra carta d’identità. Oggi, tra l’altro, c’è una frenesia nel farsi volere riconoscere. Oggi vogliamo farci riconoscere! Ci facciamo personalizzare le cover degli smartphone, le scarpe, le borse, siamo attenti ai dettagli, agli accessori, siamo disposti a pagare diverse migliaia di euro in più pur di vedere la nostra auto verniciata della tinta più estroversa. Invece, sugli aspetti che contano, cioè sui nostri valori tradizionali, facciamo i vigliacchi, assumiamo una condotta “tiepida”, per cui decidiamo di tollerare quell’eventuale fastidio che potrebbe nascerci nel vedere la nostra storia e la nostra cultura annichilite e tradite. È chiaro che siamo di fronte ad una schizofrenia comportamentale o, peggio ancora, ad un imperdonabile disimpegno morale. Il corto circuito, di cui ho iniziato a dire prima, risiede nel significato assurdo e illegittimo che è stato dato al termine laico (in tutto l’articolo, con il termine laico non si vuole intendere chi non appartenga allo stato ecclesiastico. Rimane, giustamente, la differenza sostanziale tra presbitero/ecclesiastico e laico/non ecclesiastico).

Oggi laico indica una realtà asettica di principi confessionali. Ma laico deriva dal sostantivo greco λαός (laòs), che significa solo e soltanto popolo. Dunque, l’espressione “Lo Stato è laico, la Costituzione è laica” significa di fatto “Lo Stato è del popolo, la Costituzione è del popolo”. Il termine laico, dunque, non fa a cazzotti con la fede religiosa, anzi conserva dentro di sé il necessario rimando trascendente. Il popolo è popolo, cioè propriamente laico, se rispetta uno di quei suoi caratteri identitari: la fede. Non esiste popolo senza religione, così come non esiste Nazione senza tradizioni. Popolo sta a Nazione come massa sta a Stato.

Il concetto di Nazione altro non è che la sublimazione della mera realtà dello Stato, geograficamente inteso. Nasce a questo punto spontanea la seguente domanda: se laico significa popolo, come mai si è cercato di privare il popolo solo di uno specifico elemento identitario, cioè la fede, e non di altri? Perché con laico non si intende uno Stato che neghi la propria letteratura, o la propria lingua? Perché questo immotivato ed infondato accanimento verso la religione cattolica, la quale ci consente, insieme a tutti gli altri elementi, di definirci popolo italiano? Vista l’unidirezionalità della dinamica delle cose, è difficile pensare che si sia trattato di un mero caso. Piuttosto, credo si tratti di una condotta specifica, ben studiata, avente come obiettivo quello di deindividualizzare i popoli e di sdoganare un ideologismo sempre più incontrollato, che mira capziosamente ad includere l’Altro, calpestando il Noi. Non può esserci autentica inclusione senza una seria identità ad intra. La Rivoluzione francese non si è preoccupata di eliminare in toto l’elemento religioso, ma esclusivamente di rendere avversi gli insegnamenti della dottrina cristiana (cattolica). La Rivoluzione francese ha degradato nell’uomo la percezione del dato confessionale. Motivo per cui, è più opportuno esprimersi in termini di ἀντίθεος (contro Dio – degradazione) che ἄθεος (senza Dio – negazione). I moti rivoluzionari del 1789 hanno prodotto un’immotivata (cioè, impossibile ontologicamente) scristianizzazione, per cui oggi gente battezzata, ma che si professa capricciosamente atea, coltiva ipocritamente discipline come lo yoga o si reca assiduamente in Cina, India, Tibet, sperando di riuscire a cogliere quella stessa trascendenza che la Rivoluzione francese ha però negato (degradandola) in Occidente. Dunque, si è arrivati alla negazione di principi antropologici elementari: Gesù Cristo no, Buddha sì. Ciò che, invece, è effettivamente atipico e motivo di pubblico ludibrio è vedere gente che, nel Duemilaventitrè, si ritenga emancipata e progredita nel dire: “io non credo, non sono credente, per me Dio non esiste”. Questa gente, purtroppo, non ha ancora inteso di essere stata vittima di un raggiro clamoroso, depotenziante, manifesto. A questa gente è stata sottratta una realtà (dal latino res, cioè, fatto concreto.

Non ci si confonda tra la realtà di Dio e la trascendenza di Dio. Dio è reale perché esiste; Dio è trascendente a causa della Sua perfetta ontologia e a causa della nostra caducità empirico/intellettiva) identitaria e valoriale. A queste masse, ergo, così intellettualmente avanzate si consiglia un repentino ritorno tra i banchi di scuola. Ovviamente, capito l’inganno, sforziamoci di adeguare le nostre condotte all’unico ed autentico salvifico insegnamento trascendente: il Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo.

 

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