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Ucraina: Vaticano fuori gioco, è il fallimento dell'ecumenismo.

bux chiesa guerra russia ucraina Mar 14, 2022

di Nicola Bux

Il pubblico sostegno del patriarca ortodosso di Mosca, Kirill, alla "campagna" di Putin in Ucraina, ha fatto emergere con chiarezza l'insostenibile posizione della Santa Sede, che al dialogo con il patriarcato di Mosca ha sacrificato perfino la comunità greco-cattolica ucraina. Tutto nasce dall'aver perseguito una falsa idea di ecumenismo, mettendo in secondo piano il significato della Chiesa e del primato di Pietro.

La Santa Sede «è pronta a fare qualsiasi cosa per la pace», ha detto domenica scorsa papa Francesco, mettendosi a disposizione dei leader russi e ucraini. Ma tale disponibilità deve fare i conti con l'imbarazzo dimostrato sin dallo scoppio della crisi ucraina, che rischia di mandare in frantumi il dialogo ecumenico con il patriarcato ortodosso di Mosca su cui questo pontificato ha investito senza riserve, perfino sacrificando la Chiesa greco-cattolica ucraina. Ma ora che il patriarca Kirill, protagonista di uno storico incontro con papa Francesco nel 2016 con un bis atteso per la prossima estate, sostiene apertamente l'azione militare del presidente russo Putin, la Santa Sede si trova paralizzata, in un vicolo cieco: o salta il processo ecumenico con Kirill o si disintegra la credibilità vaticana come autorità morale promotrice di pace.

Abbiamo chiesto a don Nicola Bux, esperto di Chiese orientali, di chiarire l'origine di questa situazione imbarazzante.

Ha ragione il cardinal Hollerich oppure il patriarca Kirill circa la dottrina dell’omosessualità e le sue conseguenze sull’Europa? E che dire della differenza sulla dottrina della guerra tra il papa, che ha modificato un articolo del Catechismo, e il patriarca che giustifica con ragioni ‘metafisiche’ la guerra in corso? Un contrasto clamoroso. Kirill ha ragione dal lato dottrinale e ha detto quello che anche Francesco dovrebbe dire; ma in casa cattolica, si è persa la capacità di pensare la guerra. Dove invece il patriarca sbaglia, è nel giustificarla come mezzo per riportare l’ordine morale in Europa. Gesù ha chiamato a conversione il genere umano, ma non con le armi.

Così, sulla crisi ucraina, brilla l’irrilevanza delle Chiese europee, cattoliche e non, perché, dalla fine del Concilio Vaticano II, malgrado le numerose dichiarazioni comuni tra cattolici e ortodossi, non si è raggiunta l’unità. Si è voluto perseguire il fine dell’unione con la Chiesa cattolica di tutte le Chiese ortodosse insieme, e invece è successo che, ora l’una ora l’altra, si sono sfilate dal dialogo. Troppo in fretta, nel documento di Balamand - la località del Libano, dove cattolici e ortodossi si riunirono e lo sottoscrissero nel 1998 - si è definito “metodo del passato”, quello di fare l’unità con Roma di una singola Chiesa orientale o parte di essa.

Dopo il 1054, non tutti i cristiani orientali, greci e slavi, si separarono da Roma; anzi accadde che alcune consistenti comunità di quei popoli e nazioni, piuttosto che permettere che un’intera Chiesa locale, come quella di Kiev, quella di Antiochia o quella di Alessandria, rimanesse separata dall’unica Chiesa cattolica e apostolica professata nel Credo, preferirono tornare in comunione con Roma, anche se questo causò dolorose divisioni al loro interno. Ancora oggi, pertanto, l’esistenza nella Chiesa cattolica di Chiese particolari orientali insieme a Chiese latine, ambrosiane ecc., sta a dimostrare che l’essere cattolici non è in antitesi con l’essere orientali: cioè, che la diversità delle Chiese locali può convivere con l’unità della Chiesa universale, anzi che l’unità si configura proprio in e attraverso le diversità. Le Chiese orientali cattoliche, infatti, pur conservando la tradizione dell’Oriente cristiano, riconoscono il Vescovo di Roma, quale principio visibile dell’unità della Chiesa (cfr Lumen gentium, 23). Anche per questo il Concilio le ha invitate ad adoperarsi nel lavoro ecumenico con l’Ortodossia (cfr Orientalium Ecclesiarum, 24-29). La più grande è quella ucraina –  spregiativamente chiamata ‘uniata’ perché unita a Roma – che ha sofferto e versato il sangue sotto il comunismo sovietico, proprio per rimanere fedele al papa.

Invece agli ortodossi, i cattolici hanno concesso di prescindere dal “criterio” della comunione piena e visibile qual è il primato petrino. Peraltro gli ortodossi, a fasi alterne, si contrappongono e scomunicano, perché non ammettono che il patriarca di Costantinopoli debba prendere il posto del papa nel loro consesso. A prescindere dalle ragioni storiche, la separazione da Roma ha portato gli ortodossi ad una idea di Chiesa diversa, anche se ancora componibile, se si vuole, con quella cattolica. Essi ritengono che debba avvenire una unione corporativa di tutte le Chiese con una Chiesa già esistente, riconosciuta da tutti come la Chiesa di Cristo.

Siccome però ogni Chiesa è un tutto organico e gli elementi comuni non sono concepiti allo stesso modo in quanto intimamente legati alla professione di fede di ogni Chiesa, per loro non si può accedere ai sacramenti, in particolare al battesimo e all’eucaristia, se prima non si professa la stessa fede della Chiesa ortodossa. Ad esempio, la cosiddetta inter-comunione, caldeggiata da ecumenisti cattolici, è vista come una forma di proselitismo. Così russi e greci sono tornati a ribattezzare i cattolici che entrano da loro e a celebrare nuovamente i matrimoni delle coppie cattolico-ortodosse.

Ora, nell’ecumenismo, bisogna considerare gli elementi umani: il dialogo si fa con le gerarchie che sono una “organizzazione di potere” con l’esigenza innata di perpetuarsi; è una dinamica intrinseca contraria alla riunificazione. Non parliamo poi del fatto che le gerarchie ortodosse sono organizzazioni che non godono di molto credito nella base – quelle russe provengono dall’era sovietica – per il passato, ma anche per il presente, perché sostenitori del rinnovato autoritarismo dello Stato. Perciò saranno sempre contrarie ad una Chiesa unita transnazionale, allo stesso modo in cui si oppongono all’insorgenza di nuove chiese autocefale indipendenti.

Più fallimento ecumenico di questo! Ma al Pontificio Consiglio dell’Unità dei Cristiani sono impotenti. Di solito si sente dire che non ci sono grandi differenze tra cattolicesimo e ortodossia. In realtà, osservando da vicino, si può dire che tutto è simile e tutto nello stesso tempo è diverso tra questi due ‘cristianesimi’, a cominciare dalla differente denominazione per finire alla sproporzione numerica: un miliardo e passa di fedeli il primo, oltre duecento milioni il secondo. Ma la principale differenza è nel fatto che, per i cattolici, la Chiesa, formata da Chiese particolari con a capo i vescovi, è un corpo unico e universale con un principio visibile di unità, il Vescovo di Roma, che è la Chiesa madre e capo di tutte le Chiese particolari. Il Papa ha il ministero di supremo pastore, cioè esercita il primato che il Signore ha affidato a san Pietro e ai suoi successori.
Perciò la Santa Sede romana costituisce il centro di unità e di comunione della Chiesa. Invece, per gli ortodossi le Chiese locali sono in gran parte autocefale e autonome con i loro patriarchi, metropoliti e vescovi; di conseguenza, il papa è ritenuto soltanto il primo vescovo della cristianità; non è successore di Pietro, perché questi non avrebbe ricevuto alcun primato dal Signore; quindi Roma sarebbe ‘prima sede’ solo per motivi storici e politici.

Nonostante questa differenza basilare, la Chiesa cattolica ritiene che le Chiese ortodosse abbiano un battesimo valido e quindi siano incorporate a Cristo e si trovino in una certa comunione con lei, a motivo dei non pochi elementi dell’unica Chiesa di Cristo che in esse sono stati preservati (S.Scrittura, sacramenti, santi, ecc) (cfr Unitatis redintegratio, 23). Quindi di quelle comunità, sebbene separate e quindi non in piena comunione, lo Spirito se ne serve per spingere verso la pienezza che esiste nella Chiesa cattolica, “strumento universale di salvezza” (cfr Lumen gentium, 48) che ha sempre conservato l’unità affidata al collegio apostolico unito a Pietro.

Dunque, il movimento ecumenico odierno, non è solo una realtà complessa, ma confusa; è vero che tutte le confessioni cristiane si riferiscono a Gesù Cristo, ma non si è ancora d’accordo su “che cosa è di Cristo”: la Scrittura, i sacramenti… (cfr il discorso di Giovanni Paolo II a Colonia nel 1980). Il dramma della divisione ecclesiale e il problema ecumenico non si risolvono nascondendo che all’origine c’è un peccato. Pertanto, si può intendere il lavoro della teologia cattolica come un aiuto a risolvere le “vere e proprie divergenze che toccano la fede” e che “sono di ostacolo alla piena comunione dei cristiani tra loro”(Ut unum sint , 39 e 36).

In realtà è ancora valida l’osservazione di von Balthasar che nel dialogo ecumenico “l’interlocutore della Chiesa Cattolica non può essere mai ‘uno’ ma solo frammentato: E anche nell’ambito del mondo ortodosso, se singoli vescovi o ministri entrano in dialogo con Roma, nessuno di essi è in grado di parlare impegnativamente nemmeno per la sua sola Chiesa autocefala” (Piccola guida per i cristiani, Milano 1986, p 100).

Nel 1980, Giovanni Paolo II proclamando Cirillo e Metodio patroni d’Europa, aveva additato la soluzione al contrasto tra ortodossi e cattolici: tornare, come i primi discepoli di Cristo, ad andare in missione a due a due, riprendendo l’evangelizzazione del continente europeo: ciò risolverebbe pian piano i contenziosi dottrinali e canonici. Senonché, papa e vescovi sono presi dal nuovo slogan della “Chiesa sinodale”, ammaliati dalla struttura sinodale ortodossa, che consiste in un consiglio chiamato ‘santo sinodo’ attorno al patriarca, fatto di ecclesiastici e laici che lo eleggono e che di fatto ne condiziona il potere. Così, al fallimento dell’ecumenismo, si aggiungerebbe la destrutturazione ‘sinodale’ della Chiesa cattolica, che porta dritto a limitare il primato del papa nella Chiesa universale e quello del vescovo nella Chiesa particolare, entrambi di istituzione divina.

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