Su chi o cosa si può contare per trovare la verità?
Aug 25, 2022di Francesco Lamendola
Il nostro corpo è votato alla morte, è un corpo di morte (Rm 7,24); la nostra ragione cerca la verità, e sente, intuisce che il senso della nostra breve vita consiste proprio nella ricerca e nell’acquisizione del vero. Ma in quel precario arco di tempo, essa possiede i mezzi necessari a raggiungere il suo scopo, e a far sì che l’anima se ne vada in pace incontro al suo destino, senza rimpianti né rimorsi? Anzi, diremo di più: possiede gli strumenti per rendersi conto che tale è lo scopo della vita umana: cercare la verità e, una vola trovatala, amarla incondizionatamente e fare tutto ciò che ad essa è conforme, non vivendo più la vita di prima, quando si era immersi nell’ignoranza, ma come uomini nuovi?
Sì: noi tutti possediamo quei mezzi, i mezzi logici che si offrono alla ragione naturale. Inoltre, a quelli che non s’inorgogliscono della ragione naturale e non se ne appagano interamente (poiché è essa stessa, ad un certo punto della ricerca, a far vedere il proprio limite) e che sono aperti ad accogliere la Verità tutta intera, non questa o quella verità, ma proprio la Verità in se stessa, che è Dio, e non ovviamente un dio qualsiasi, ma il solo vero Dio, si manifesta anche il dono della Rivelazione soprannaturale, che integra la ragione naturale e le dà ciò che ad essa manca per appagare interamente il desiderio umano, che è un desiderio di assoluto e d’infinito. Infatti la Grazia completa la natura, non l’abolisce.
Ma facciamo un passo alla volta. La prima domanda che ci si deve fare è se il mondo, il mondo reale, il mondo degli enti che sono tutto intorno a noi, sia intelligibile o no. La cultura moderna tende a rispondere di no; e questo pensiero, assolutamente pazzesco e contrario alla vita, perché è impossibile vivere in un mondo incomprensibile, si è diffuso tacitamente in maniera così capillare, da aver di fatto abbandonato i tentativi di dimostrare la propria veridicità, e si limita a darla per scontata. È chi la impugna, chi la nega, che deve assumersi l’onore della dimostrazione: senza contare che costui deve sfidare l’intera cultura dominante ed esporsi, in ogni caso, a recitare una parte considerata ridicola, perché del tutto irrealistica e anacronistica, più o meno come lo sarebbe voler dimostrare che la Terra è piatta e che tutte le sue raffigurazioni come una sfera sono degli errori. Di più: dopo Kant è divenuto quasi impossibile parlare ancora di metafisica; dopo Marx e Nietzsche, di una verità obiettiva; dopo Freud, di un io che dirige senz’altro la coscienza; dopo lo strutturalismo, di una cosa in se stessa (ritorno a Kant); e dopo Wittgenstein, dire quello che non si dovrebbe dire, ossia qualunque enunciato veritativo che vada oltre la pura e semplice correttezza logica e formale.
D’altra parte, sarà appena il caso di ricordare che la nozione della intelligibilità del reale non è un’invenzione del cristianesimo: è antica quanto la filosofia stessa, e la troviamo al centro di tutto il filone principale della filosofia greca, da Socrate a Platone e da Aristotele a Plotino. Sarebbe perciò il caso di domandarsi se sia saggio buttare nel cestino una tradizione filosofica che ha dietro a sé ventiquattro secoli di storia, per abbracciare incondizionatamente un’idea che, oltre a ripugnare al senso comune, si pone in contrasto frontale e irrimediabile con tale veneranda tradizione. Da parte sua, Étienne Gilson non aveva dubbi: per lui è semplicemente cosa saggia tener conto di quel che i più grandi pensatori della nostra civiltà hanno sempre tenuto per certo a proposito di Dio, che è la verità suprema.
E ciò per la buona ragione che solo in Dio, come ha mostrato superbamente san Tommaso d’Aquino, essenza ed esistenza coincidono, mentre nell’uomo sono separate: e perciò è da Dio che l’uomo può ricevere la luce della conoscenza, e non da se stesso; mentre l’uomo moderno è giunto alla conclusione che il reale è inintelligibile, e quindi assurdo, proprio per aver preteso di trovare da sé quella luce, anzi d’averla in se stesso, come insegnano le filosofie di origine gnostica e cabalistica fondate sull’emanazionismo (le cose sono emanazioni e non creazione di Dio, quindi anche l‘uomo è già di natura divina ed eterna, deve solo comprenderlo per potersi auto-divinizzare pienamente). Oltre a ciò, gli enti sono buoni perché partecipano dell’essenza divina, senza però identificarsi con essa: esistere è bene; il male non è altro che un difetto o una mancanza di quella bontà originaria che è l’essere.
Scriveva Gilson nel suo capolavoro La filosofia del Medioevo:
Ogni essere è qualcosa che è, e qualunque sia la natura o essenza della cosa che si considera, essa non include mi la sua esistenza. Un uomo, un cavallo, un albero, sono esseri reali, cioè delle sostanze, nessuno dei quali è l’esistenza stessa, ma soltanto un uomo che esiste, un cavallo che esiste o un albero che esiste. Si può dire quindi che l’essenza di ogni essere reale è distinta dalla sua esistenza e, a meno di supporre che ciò che non è per sé possa dare a se stesso l’esistenza, il che è assurdo, bisogna ammettere che tutto ciò di cui l’esistenza è diversa dalla sua natura riceve da altro la sua esistenza.
Per il filosofo francese, nella prospettiva dei primi esponenti della Scolastica (cit. in Cioffi, Luppi e altri, I filosofi e le idee, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2004, vol. 1, L’età antica e medievale, p. 638):
… conoscere e spiegare una cosa significava dimostrare che essa non era ciò che appariva, ma il simbolo e il segno di una realtà più profonda, che essa annunciava o significava.
Questa è una posizione anti-realistica: le cose non sono quel che appaiono. In seguito, da Cartesio in poi, e in un certo senso già da Giovanni Duns Scoto e soprattutto da Guglielmo di Ockham, la filosofia moderna è caduta in una qualche forma di iper-realismo materialista e/o immanentista: le cose sono esclusivamente quel che appaiono, quel che di esse si manifesta sensibilmente, e ad ogni modo si può conoscere solo la loro apparenza, il fenomeno e non l’essenza (Kant); e non c’è niente altro da indagare.
La posizione più saggia ed equilibrata che sia mai stata elaborata a livello gnoseologico è quella del realismo moderato di san Tommaso d’Aquino. Le cose sono innanzitutto ciò che appaiono (la mela è una mela: principio d’identità e quindi principio di non contraddizione), ma ciò non implica che esse siano solo ciò che si rivela ai sensi. Così come ricevono l’essere da Dio, per partecipazione e non quale dato originario, e così come il loro esistere si articola nei due livelli dell’essere reale e dell’essere logico (la cosa in atto e la cosa intelligibile), il loro essere non si esaurisce interamente nell’esistere in quella data forma: l’ente possibile è tutto nella mente che lo pensa, ma l’ente reale non è tutto nei sensi che lo colgono. In altre parole, questa mela è prima di tutto una mela, e non un’altra mela, né, tanto meno, la mela in sé; in secondo luogo, non è una pera, né un’arancia, e neppure un pomodoro; in terzo luogo, oltre ad essere una mela è anche qualcos’altro, ad esempio un frutto, poiché appartiene a una categoria più ampia. Allo stesso modo Socrate è quell’individuo e, in quanto membro della specie umana, è anche uomo; ma un l’uomo in quanto tale non è Socrate, né alcun altro individuo particolare.
E tuttavia, assolutamente reali (di un’assolutezza pur sempre relativa, in quanto enti che hanno l’esistenza, ma potrebbero anche non averla) sono solo gl’individui, mentre i generi e le specie (gli alberi, i frutti, gli animali, ecc.) esistono in quanto esistono gli individui. Infatti gli individui esistono comunque, mentre i generi e le specie esistono solo in quanto esistono gli individui, e non viceversa.
Nel pensiero di sant’Agostino è più accentuata la gnoseologia idealista, e infatti la prima Scolastica si rifà ad essa e al platonismo, specie nella elaborazione neoplatonica; mentre san Tommaso d’Aquino, come il suo maestro Alberto Magno, appartiene già alla Bassa Scolastica, che si avvale della riscoperta di Aristotele per mezzo degli arabi, e precede di poco la tarda Scolastica di Duns Scoto e di Ockham, con la quale si affermerà sempre più una concezione empirista che, a sua volta, preparerà la strada a Cartesio, al soggettivismo del pensiero moderno e al suo inevitabile compagno, il dualismo.
Come osservano, a proposito del pensiero di Sant’Agostino, Andrea Zanette e Amedeo Vigorelli (in I filosofi e le idee, di Cioffi, p. cit., 2004, vol. 1, L’età antica e medievale, p. 535):
È la luce divina che rende intelligibile il mondo e che quindi permette l’ascesa dell’anima, come aveva insegnato Plotino, nella ricerca di Dio.
E come in Plotino, l’anima deve in primo luogo squarciare IL VELO DELLE APPARENZE in cui è avvolta. Tuttavia, con la ricerca agostiniana ci troviamo in un quadro diverso da quello neoplatonico, dove vi è continuità ontologica tra le diverse ipostasi dell’Uno, una continuità garantita dal concetto steso di emanazione. Con Agostino, invece, ci muoviamo all’interno della nozione giudeo-cristiana di creazione: l’uomo è stato creato “ex nihilo”, non generato, a somiglianza di Dio. La sua natura, quindi, non è identica a quella divina. Queste cesura ontologica produce una conseguenza decisiva: «l’anima plotiniana – scrive un grande studioso di Agostino, Étienne Gilson – conta solo su se stessa per scoprire in sé la luce, perché in effetti la possiede; l’anima agostiniana invece non può fare affidamento che su Dio per ricevere da lui la luce che da sé non può possedere». Ecco allora che la vera filosofia, per Agostino, coincide con la vera religione e la conoscenza della verità è tutt’uno con la salvezza dell’anima. Quello che Agostino non ha trovato, e non poteva trovare, nei «libri dei platonici» è il Verbo incarnato, Cristo, che solo potrà liberare l’uomo dal «corpo che porta questa morte» (“Confessioni”, VII), dalla schiavitù del peccato. Lo trova invece in san Paolo, nella “sapientia” cristiana come dono di Dio.
L’ultimo riferimento è alla Epistola ai Romani, 7, 14-25, e più specificamente a 7,24:
14 Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. 15 Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. 16 Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; 17 quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 18 Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; 19 infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. 20 Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 21 Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. 22 Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, 23 ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. 24 Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? 25 Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato.
Concludendo. Il realismo integrale ci mostra degli enti, dei corpi, delle sostanze. Ma ciascun ente è destinato a scomparire, a eclissarsi, proprio perché non possiede l’essere, né se lo è dato da sé, bensì lo ha ricevuto e si mantiene nell’esistenza fintanto che continua a riceverlo, e non oltre. L’idealismo, che solo in apparenza è il suo contrario, mentre di fatto è semplicemente l’altra faccia della medaglia, nega che questi enti siano reali, perché non fa distinzione fra ente reale ed ente logico, o possibile: tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale, come dice Hegel e come ripete Croce. Tale razionalismo estremo coincide con l’immanentismo radicale; ma, essendo incapace di distinguere fra essena ed esistenza, fraintende la natura del reale e di ciò che è intelligibile fa una realtà effettuale.
Solo il cristianesimo ha un approccio sano alla realtà, in pieno accordo con la ragione naturale; e solo la filosofia di san Tommaso d’Aquino (non qualsiasi tomismo: non quello di Francisco Suarez, per esempio, né quello di Jacques Maritain), distinguendo essenza ed esistenza, possiede la chiave per offrire una comprensione logica del mondo, che sia nello stesso tempo anche aderente alle cose.
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