Se Dio è relazione, come può l’uomo relazionarsi a Lui?
Sep 23, 2022di Francesco Lamendola
A giudizio di alcuni teologi, è possibile parlare di Dio solo in termini di relazione, non di essenza: perché l’essenza di Dio nessuno la conosce. Si può dire, allora, che cosa è Dio per noi; più difficile, e tuttavia necessario, cercar di capire cosa siamo noi per Lui. Relazione, dunque: non un essere statico e chiuso in se stesso, nella propria perfezione e autosufficienza, ma aperto alla relazione con gli altri enti, pur nella precisa distinzione del rispettivo statuto ontologico: il Creatore e le creature, la Sostanza in senso proprio e le sostanze in senso derivato e accidentale. Dio non può che essere, ed essendo, rende possibile l’esistenza di ogni altra cosa; gli uomini, invece, come tutti gli altri enti, potrebbero non esserci: perché, diversamente, bisognerebbe concludere, come per i sistemi gnostici e cabalistici, che Dio ha bisogno di noi, e che senza di noi Dio non sarebbe più Dio. Un Dio in divenire, dunque, e non l’Essere perfettissimo che si pone quale causa prima, ma anche come causa finale, di tutti gli enti.
Anche la concezione teologica di San’Agostino si pone all’interno di questa prospettiva generale, e per una ragione molto semplice: sant’Agostino è imbevuto di platonismo e quando pensa Dio, beninteso da un punto di vista strettamente logico-razionale (e non soltanto con un atto di fede, reso possibile dalla Rivelazione che opera per mezzo della grazia), lo pensa attraverso le categorie platoniche, dunque come il vertice di un’ascesa che conduce l’anima, dalla contemplazione del bello sensibile, alla conquista di verità sempre più pure e staccate dal mondo sensibile, cioè fino al Vero, al Bello e al Bene in se stessi. Si tratta dunque di una scala che porta l’ente fino alla sorgente ultima degli esistenti, l’Essere sussistente in quanto essere: in Platone, l’Idea del Bene, del Vero e del Bello; mentre in S. Agostino l’Idea coincide con la realtà divina che si pone non solo come il modello originario di tutte le cose buone, vere e belle, ma come causa efficiente della loro esistenza e fonte inesauribile di tutto l’esistente.
Che questo, ossia la difficoltà di definire Dio, nella sua relazione con gli enti, in modo da evitare tanto il dualismo, che rende il mondo incomprensibile e insuperabile, cioè simile a una prigione per gli enti (così come Platone vedeva il corpo come la prigione dell’anima), quanto il monismo, che farebbe “sparire” la differenza fra Dio e gli enti: che proprio questo sia in definitiva il nodo della questione, se ci si pone da un punto di vista relazionale, lo aveva ben visto uno dei massimi interpreti di una siffatta definizione della natura divina, Emanuele Samek Lodovici (Messina, 28 dicembre 1942-Milano, 5 maggio 1981), grande studioso sia del neoplatonismo che del pensiero agostiniano, il quale scriveva, in Dio e mondo. Relazione, causa, spazio in S. Agostino (Roma Edizioni Studium, 1979, pp. 223-225):
Se con Dio e mondo noi non ci troviamo di fronte a due sostanze ma abbiamo una SCALARITÀ ontologica, come salvaguardare, in questa continuità tra “summum esse” e “minus esse”, il momento di eccezionalità costituito da Dio? Come salvaguardare la concezione agostiniana del reale, in cui nulla si oppone all’essere, e dove l’essere stesso si dispone gradatamente, dalla minaccia di un “monismo d’essere”? E come negare il monismo senza cadere nel dualismo, con i suoi rischi intrinseci di ipostatizzazione dei termini, di modello tecnomorfo, di oggettivazione?
In effetti, conosciamo una quantità di testi in cui Agostino afferma esplicitamente la supereminenza di Dio sul mondo e la totale irrilevanza del mondo rispetto a Dio, ma abbiamo visto che una linea di demarcazione troppo netta tra Dio e mondo finisce per favorire lo schema tecnomorfo di una creazione o SOTTO o comunque estrinsecamente collegata a Dio. L’eccessiva alterità divina, la spinta ad una pura e isolante trascendentalizzazione favoriscono, appunto, il momento dell’intenzione verso un “aliud”(il mondo) molto vicino al dato presupposto. D’altro canto, ancora, il concetto del “magis et minus” sostanziali, o della diversa intensità ontologica, se escludono la contrapposizione fissista, non sembrano ovviare all’accusa di una insufficiente accentuazione del momento dell’”ipsum esse” rispetto a quello dell’”utcumque esse”, all’accusa di una differenza SOLO DI GRADO tra Dio e la sfera mondana.
La domanda, allora, si precisa: come è possibile, all’interno di UNA CONCEZIONE SCALARE della realtà (concezione che ha il vantaggio inestimabile di evitare la fissazioni ipostatizzanti), come è possibile affermare una differenza NON SCALARE? In altri termini, come è possibile all’interno della dottrina del “magis et minus” sostanziali che non comporti dualismo, ma neppure si riveli come una forma più sottile di monismo? (…)
Noi sappiamo che la continuità sostanziale contenuta nella tesi del ”magis et minus esse” pone la differenza tra i termini della sala come differenza MODALE, QALITATIVA. Ora la relazione irreciproca tra il grado più alto intellegibile e tutti gli altri fa vedere, invece, da parte sua che lì la differenza modale, pur rimanendo tale, e cioè senza trasformarsi in differenza tra sostanze, è tuttavia infinitamente più grande della differenza che corre tra gli altri livelli. L’irreciprocità della relazione, si vuole dire, insomma, è l’unico modo di conservare una DISTINZIONE particolare tra Dio e mondo senza per questo dover rinunciare al contenuto essenziale della dottrina della continuità della sostanza. E infatti, anche solo stando a guardare ai termini che sono in gioco, è possibile individuare il contributo della RELAZIONE IRRECIPROCA. Come RELAZIONE tra Dio e mondo, ovvero mantenendo il discorso nell’ambito della CORRELAZIONE, essa afferma la continuità ed evita l’atomizzazione sostanziale; ma, essendo IRRECIPROCA, pone tra il vertice sostanziale e il plesso degli altri enti una DISTINZIONE che questi non hanno tra loro. Se lo si vuole, lo si può dire con un enunciato: posto che tra Dio e mondo non vi sia una distinzione fisica, come tra cose, e dunque posto che non vi sia un dualismo; e posto che tra Dio e mondo non vi sia una distinzione puramente logica, e dunque posto che non vi sia monismo; e posto che questa distinzione non sia neppure numerica, né spaziale, né come tra sostanza e accidenti; posto tutto questo, la relazione irreciproca è il mezzo per cogliere il FATTO della differenza, il FATTO della distinzione tra due termini che non si vuole sostanzializzare, ma neppure far confluire in uno solo.
Se da un lato, pertanto, in Agostino non viene scalfito il guadagno teoretico costituito dall’attacco alla”solidificazione” della sostanza, e permane una concezione della scalarità entitativa dal “summum esse” al “non vere esse”, dall’altro, tuttavia, in questa continuità la distinzione è salvaguardata dal tema della relazione irreciproca tra il grado massimo di essere, da una parte, e tutti gli altri gradi, dall’altra.
Il problema di concepire la divinità come una relazione, e precisamente come una relazione scalare, cioè ascendente dall’uomo verso Dio, e discendente da Dio verso l’uomo, rischia di attenuare o addirittura di erodere la differenza ontologica e di porre il rapporto fra l’Essere e gli enti in termini puramente quantitativi e non qualitativi: come se in Dio vi fosse più sostanza, e nelle creature meno sostanza, ma in un quadro generale che ammette una sostanza diffusa, che non prevede “salti” dal vertice alla base, ma un passaggio graduale. Un po’ come i biologi evoluzionisti e materialisti – se ci è lecito il paragone – concepiscono il passaggio dalla più semplice molecola inorganica all’estrema complessità delle molecole organiche: qualcosa di molto improbabile e sostanzialmente casuale, ma che ha il vantaggio di non porre “salti” evolutivi che renderebbero ardua una spiegazione meccanicista, ossia senza fare ricorso ad un principio qualitativo (spirituale) di ordine superiore. Naturalmente, se si concepisce Dio e il suo rapporto con gli enti in tale maniera, bisogna chiarire – come fa, appunto, S. Agostino – che la relazione non è reciproca, bensì irreciproca (univoca) che fluisce liberamente solo in un senso, da Dio all’uomo; mentre nell’altro, dall’uomo a Dio, essa risulta possibile solo a determinate condizioni, la prima delle quali è che Dio lo voglia e lo permetta
Il vantaggio, s’intende da un punto di vista meramente speculativo, di una siffatta concezione del divino, è di evitare sia il dualismo, che deriverebbe da una radicale distinzione e separazione qualitativa fra Dio egli enti, sia il monismo, che deriverebbe da una distinzione e una separazione che fossero tali sono nell’ordine logico ma non in quello concreto e fattuale. A quanto pare, i teologi cristiani hanno molte remore ad ammettere che la realtà, dopotutto, potrebbe anche essere davvero duale, pur senza essere dualista: cioè formata da uno “strato” inferiore, imperfetto e provvisorio, ed uno superiore, perfetto e necessario. Non si sa perché, sono e sono sempre stati assai esitanti a considerare la realtà in questi termini: probabilmente perché non si sono preoccupati di distinguere un dualismo contingente, cioè formulato dagli uomini, menti finite, che si pone, evidentemente, in una prospettiva parziale e consapevolmente limitata, dalla realtà ultima, Di, che non può essere concepita in tali termini, perché ciò equivarrebbe a porre una barriera invalicabile fra spirito e materia, fra soggetto e oggetto, fra parziale, e perciò limitato, e totale, che è di necessità illimitato (assoluto). Allo stesso modo, pare che il timore dei teologi di scivolare verso il panteismo (o il suo gemello a contrario, l’immaterialismo, qualora adottassero un punto di vista monista, sia eccessivo e ingiustificato: per evitare un simile esito, infatti, è sufficiente distinguere il monismo come ipotesi di lavoro e come visione provvisoria del reale, e il monismo come punto d’arrivo e perciò come la presta di far coincidere Dio e mondo, assoluto e relativo, finito e infinito. In altre parole, una cosa è concepire il reale così come ci appare adesso, immersi in una condizione ambigua, con un corpo e dei sensi finiti; e una cosa ben diversa è concepire il reale nella prospettiva dell’assoluto, sciolto dai limiti spazio-temporali, come sarà quando il contingente verrà riassorbito dal necessario, e il relativo dal permanente, cioè dall’eterno presente, che è assenza (non estensione illimitata) di spazio e di tempo.
Detto in parole ancora più semplici: la visione metafisica, e specificamente la visione cristiana, del reale, non è dualista per il fatto di ammettere che, qui e ora, esistono due principi distinti e separati, uno temporale ed uno atemporale, uno contingente ed uno necessario, uno relativo ed uno assoluto: lo sarebbe se concepisse tale distinzione come un fatto permanente e assoluto. Per la stessa ragione, non è monismo riconoscere che tutto è Uno, a meno di non precisare che gli enti partecipano dell’Uno e non ne sono una emanazione; che l’unità perfetta è Dio, e Dio (misteriosamente) chiama a sé gli enti, senza con ciò abolire la differenza ontologica. Come dice san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (15,24-28):
24 poi verrà la fine, quando consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza. 25 Poiché bisogna che egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. 26 L'ultimo nemico che sarà distrutto sarà la morte. 27 Difatti, Dio ha posto ogni cosa sotto i suoi piedi; ma quando dice che ogni cosa gli è sottoposta, è chiaro che colui che gli ha sottoposto ogni cosa ne è eccettuato. 28 Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti.
E d’altra parte: è corretto, è realistico porre la questione di Dio solo in termini di relazione? Ciò non equivale a fare di Dio colui che è “costretto” a creare il mondo, perché senza la relazione con le creature, non sarebbe veramente Dio, o meglio non sarebbe ancora Dio? Non equivale a concepire Dio in termini dinamici, dialettici ed evolutivi, e ad affermare che Dio sarà, quando anche noi saremo; ma che fino a quando noi non siamo, cioè fino a quando siamo solo enti possibili e non necessari, anche Dio è un Dio possibile, un Dio in potenza, ma non ancora un Dio compiuto e realizzato? Il che significa ricadere in quella concezione gnostica e cabalistica di cui l‘hegelismo è il massimo esempio moderno.
Diciamola tutta: la definizione di relazione irreciproca, con tutto il dovuto rispetto, ha un po’ l’aria di un escamotage dialettico con il quale far passare a livello linguistico un concetto intrinsecamente contraddittorio: affermando, all’interno di una concezione scalare, una differenza non scalare, cioè la differenza ontologica. Ma un filosofo cristiano non dovrebbe avere tutta questa paura di essere frainteso né in senso dualista, né in senso monista. La differenza fra Dio e mondo è qualitativa, e dunque, di per sé, insuperabile: ma Egli stesso ha provveduto a oltrepassarla nel mistero della Incarnazione. Pertanto non c’è bisogno di respingere il sospetto di dualismo, né quello di monismo (nelle due versioni dell’idealismo o del panteismo): é Dio stesso a gettare un ponte fra Sé e il mondo.
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