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TRUTH

Ricordo di una madre

la veritĂ  marcello veneziani Apr 12, 2025

di Marcello Veneziani

Oggi nacque colei da cui sono nato. Notizia che non vi riguarda, lo so bene, anniversario così intimo e personale da essere però universale. Il ricordo di una madre è di tutti, evoca il sentimento primario, più elementare, più originario, più viscerale e intenso che ci sia. Non c’è natività senza maternità, perfino del figlio di Dio. L’amore materno è il primo amore che non si scorda mai, scrissi in un libro sull’amore. Ricordiamo con tenerezza il primo innamoramento ma l’amore per la madre dura tutta la vita, e oltre. Il suo amore è cura per eccellenza.
Tanti anni fa scrissi la cronaca della morte di una madre. Oggi vorrei invece partire dalla sua nascita. Si chiamava Mimì, al secolo Giacomina. Nacque al tempo della prima guerra mondiale. I suoi ricordi d’infanzia e poi di giovinezza erano allegri e solari, tanta gente in casa, tante feste, suo padre che raccontava alle bambine il film appena visto al cinematografo, la madre che suonava la chitarra e aveva bei boccoli d’oro. Le feste in casa, tra amici di famiglia, i balli, la radio, il grammofono, le frittelle, le prime occhiate amorose. Poi la storia vera d’amore, un arco della città vecchia sotto cui si vedevano e si baciavano di nascosto e che lei battezzò l’arco dell’amore (mio padre era reticente, pudico e sornione; ma sotto sotto aveva piacere che sua moglie lo raccontasse). Una foto al mare mentre una barca a vela passa alle loro spalle, e quell’attimo di perfezione è per sempre. Poi una foto nel palco del teatro locale, che con spirito e megalomania una loro didascalia spaccia per il palco della Scala dove gli innamorati ragazzi salutano il pubblico che applaude al loro amore.
La lontananza di lui che studia a Roma; quindi la seconda laurea di lui a Napoli, dove si laureò pure lei, ospite degli zii. Gli incontri furtivi, le scappatelle di mio padre, scoperte dall’implacabile investigarice; a volte in flagranza, mio padre si toglieva gli occhiali, come se il non vedere gli garantisse di non essere visto. E la fuitina d’amore, il matrimonio rapido e ristretto al tempo della seconda guerra mondiale, nel giorno dell’Immacolata. La guerra, la chiamata alle armi, l’età dell’oro in piena guerra a Monte Sant’Angelo, il paese di San Michele Arcangelo, dove lui non ancora trentenne faceva il preside e lei insegnava lettere nella stessa scuola pubblica a conduzione famigliare. Lo ricordavano come il loro paradiso, nel pieno vigore della vita, tra una nascita e un’altra, tra provviste di ogni bendidio al tempo della penuria e delle tessere del pane; viaggi avventurosi dal Gargano, su carri improvvisati; poi il bombardamento di Foggia mentre mia madre incinta veniva presa per mano da uno sconosciuto, per lei fu un angelo, e la salvezza. Lunghi anni insieme, la famiglia cresce, dopo tanti anni un figlio d’appendice, imprevisto e coccolato. Mia madre smette d’insegnare per accudire l’ultimo arrivato, non ci sono più nonne ausiliarie. Passano gli anni, l’amore si riversa soprattutto sui figli. Di mio padre, ormai, mia madre parlava bene solo alle spalle, o quando era distratto e assente; appena si voltava, tornava in presenza, lei lo criticava, era il babbo espiatorio. Lui la prendeva con filosofia, ricordando che pure Santippe tormentava Socrate, a cui aveva dedicato un saggio empatico. E si sfilava, si assentava, entrava nel suo mondo di libri, mare, cultura e natura, più frutta e cicorielle di campagna. Mia madre era l’asse portante della casa, praticava il familismo amorale e amorevole, per lei i figli venivano prima di tutto, anche di lei, non parliamo di mio padre. Negli ultimi anni, quando tornavamo a casa a trovarli, si sedeva su una sedia piccola, scomoda, per bambini, pur di lasciarci le poltrone e i divani, in un assurdo rito sacrificale. Quando si pranzava lei era sempre in piedi, ed erano vane le esortazioni di mettersi a sedere, doveva controllare tutto e tutti, a cominciare dalla sua ansia di sfamarci, a tambur battente. Viveva ormai barricata nel suo regno, negli ultimi suoi anni, quando cominciarono a farle brutti scherzi il cuore e il pancreas. Ma era piena d’energia, spiritosa in salotto e litigiosa in cucina con sua sorella, con cui scoppiavano risse verbali che poi finivano nel nulla o nella dolcezza e nella risata degli Amarcord di famiglia. Lo scontro avveniva sempre dopo pranzo e finiva quando si alzava dalla mitica controra mio padre e diceva: “non mi avete fatto dormire”; allora si coalizzavano contro di lui, il pappasonno con la pretesa della quiete in pieno giorno. Mia madre rifuggiva il sonno, lo considerava una piccola morte, comunque una resa; amava la luce, la parola, il giorno, il movimento. La sera viveva su una latitudine diversa da quello di mio padre, andava a dormire solo quando non ce la faceva più. E si addormentava quasi seduta, al letto, come se dovesse da un momento all’altro alzarsi e scappare. Il sonno del pronto intervento. Lei cercava spiragli di luce dalle tapparelle, che da noi si chiamano sgarrasse; lui invece si bendava gli occhi col fazzoletto, si metteva le mani sul viso, si rannicchiava, in posizione fetale, per rinascere nel mondo di Morfeo.
Era intelligente mia madre, intuitiva e un po’ sensitiva, capiva al volo. Devota, superstiziosa, di cui poi rideva, salvo praticarla. Mai di venerdì, mai in tredici a tavola, mai vestirsi di nero, mai croci e cappelli sopra il letto, mai in novembre (intero), mai tante cose. Mai parlare di morti, testamenti, cimiteri e funerali; alla larga da chi parlava sempre di chi era morto e di malattie. Con le donne di servizio aveva un rapporto strano: era contenta quando non venivano o si davano malate, e quando lavoravano d’estate lei andava appresso col ventaglio, per darle sollievo, mettendosi al servizio di chi era al suo servizio. Pregava, recitava il rosario e faceva volantinaggio di suppliche a noi figli, almeno nei giorni di Maria. Da quando ero partito, era convinta che vivessi di stenti lontano da lei, denutrito e patito e al mio rientro mi riempiva di sontuosi corsi di recupero; poi mi raccomandava di mettermi la maglia di lana, che avevo dismesso a tredici anni ma non ho mai osato dirglielo. Mio padre invece mi chiedeva in ogni viaggio se avevo incontrato qualcuno di Bisceglie, il nostro paese. Domanda assurda all’apparenza, soprattutto quando ero all’estero, ma sempre fondata, perché davvero lo incontravo sempre. Li vedo da lontano, mio padre alto e lungimirante come uno sherpa miope che va avanti, e dietro lei, a passi brevi e veloci, piccola e circospetta. Mia madre nacque in primavera e in primavera se ne andò. Di lei mi resta l’eco della voce, il suo amore implicito, senza effusioni; mai un bacio ai bambini per preservare la loro immunità. Pensaci Giacomina, come noi pensiamo te. E la gioia di vedermi quando tornavo a casa. Quella gioia mi manca, salvo che un giorno torni lei, per sempre.

La Verità – 9 aprile 2025

FONTE : Marcello Veneziani

 

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