Quando la morte era di casa
Nov 16, 2024di Marcello Veneziani
Fino a pochi anni fa il giorno della memoria era il due novembre. Memoria universale, senza distinzione di popoli e di razze né evocazioni di conflitti, che raccoglieva nella pietà del ricordo tutti i defunti. Il giorno precedente era di tutti i santi, il giorno seguente di tutti i morti; in segno di rispettosa familiarità con la morte. Soprattutto in provincia, e in particolare al sud, non era però il camposanto il punto di ritrovo dei vivi coi morti. C’era una presenza quotidiana, domestica, dei loro ricordi che si raccoglieva nell’altarino domestico, in un angolo della casa c’erano i ritratti dei famigliari più cari. Il ruolo antico dei lari o penati era affidato alle fotografie degli avi protettori defunti che spesso si accompagnavano alle immagini dei santi protettori. Un’edicola votiva, a volte sul comò o sul comodino accanto al letto, era dedicata a loro. Due, tre foto, ma anche più, dei cari scomparsi; i nonni, poi i padri e le madri, talvolta anche fratelli e figli morti prematuramente. A volte i ritratti più grandi, del patriarca o della mater, ospitavano ai bordi della loro cornice foto più piccole di altri cari defunti in una specie di simbiosi degli affetti, disposti in non casuale gerarchia. Un tempo al fianco di quelle icone si conservavano reliquie, ciocche di capelli, pagelline o piccole tracce del loro transito terreno.
L’immagine dei defunti sul comodino segnava il loro passaggio a spiriti protettori della casa. Non a caso lari deriva dal latino lares che indica il focolare, e più indietro si risale all’etrusco lar che vuol dire padre. Insomma spiriti domestici e patriarcali. Per Apuleio gli uomini dopo la morte diventano lari se la loro vita fu rivolta al bene; diventano spettri se invece fu un’esistenza malefica e tormentata, che genera ancora tormento. I penati avevano una funziona analoga, ma a differenza dei lari, legati a quella casa, quel focolare, sono spiriti protettori che accompagnano gli uomini anche quando si allontanano dai loro domicili. La celebre immagine di Enea, scolpita da Gianlorenzo Bernini, che conduce in salvo da Troia in fiamme suo padre Anchise e lo carica sulle sue spalle mentre a suo fianco è il piccolo figlio Ascanio; a sua volta il vecchio genitore stringe tra le mani i penati, gli spiriti protettori del genus, della loro stirpe e famiglia. Il quadro ritrae il senso vivente della tradizione, che si trasmette di padre in figlio, di generazione in generazione: il figlio Ascanio, il padre Enea, il nonno Anchise e i simboli degli avi. In quell’angolo di casa sopravviveva la stessa aura domestica e familiare, seppure tradotta in chiave cristiana; attraverso quei ritratti riviveva il filo della tradizione. L’immagine di un santo o del santo patrono spesso accompagnava l’altarino domestico; mentre l’immagine della Madonna o di Gesù Cristo campeggiava più in alto, al centro della parete, oltre la testata del letto, e si sporgeva a benedire il sonno e l’unione matrimoniale.
La luce di una lampada votiva illuminava nel buio quei ritratti, a perenne memoria, presidio del giorno e della notte. Un memorandum quotidiano a cui dedicare pensieri e preghiere, ma col sottinteso che i loro sguardi benevoli vegliassero sulla casa, sull’unità e sulla sorte famigliare. La frequente vicinanza dell’altarino ai letti invocava che entrassero nel sonno e nei sogni dei loro cari, per visitarli e guidarli nel mistero dell’abbandono notturno, fino a sancire un’alleanza tra vivi e morti. Se la tomba è sacra nella sua distanza dalla vita terrena e dall’abitato, la fotografia sul comodino era santa nella sua vicinanza alla vita e nella casa, nella reciproca premura: il nostro ricordo, la vostra protezione. La morte sorella della vita.
La festa dei morti coltivava una sacra e profana ambiguità: da un verso salutava il loro ritorno in terra; dall’altro delimitava il loro ritorno, per dar pace alle loro anime e alla nostra vita terrena. Il rito serviva a entrambe le premure, evitando che si aggirassero inquiete sulla terra. Era comunque attesa nei primi due giorni di novembre una loro gita speciale sulla terra, in cui tornavano a visitare le loro case antiche e i loro famigliari. In alcune zone del sud era prevista fino a qualche anno fa anche l’ipotesi inversa, dei famigliari che organizzavano una scampagnata presso la tomba del caro estinto, mangiando e bevendo alla loro salute. Eterna, naturalmente.
Il dolce più classico, anche per origini elleniche, era la colva, poi c’erano i dolci bianchi, di ostie e mandorle, chiamati ossa dei morti. Il grano e la cioccolata erano i classici conforti mortuari. Era in uso la calza dei morti, una specie di befana necrofora che destava più timore che gratitudine nei bambini più sensibili; ma alla fine vinceva la golosità. Quel cibarsi del cibo venuto dai morti istituiva familiarità coi defunti, ripristinava il circuito affettivo della loro prossimità. Aiutava ad addomesticare la morte, per dirla con Philippe Ariès. La morte era di casa, vicina, anche se terribile, abitata da gente cara e non solo da spettri paurosi. I nonni assumevano il due novembre il ruolo di mediatori tra i due mondi: erano loro il ponte dei morti. Vivente.“Vita, morte, la vita nella morte; morte, vita, la morte nella vita. E più forte è il sogno della vita – se la morte a vivere ci aita” (Carlo Michelstaedter Il canto delle crisalidi).
La notte dei morti, a differenza di Halloween, si preferiva non far tardi la notte un po’ per rispetto un po’ paura d’incontrarli. Nelle strade, secondo la fantasia popolare, sciamavano le anime del purgatorio a volte salendo nelle case della loro vita. C’erano riti per accoglierli e altri per respingerli. C’era chi versava acqua insaponata tra le scale per impedire che salissero gli spettri. E chi invece lasciava pietanze sulla tavola nella speranza di ritrovare i segni del loro assaggio e passaggio notturno. I marinai non uscivano con le loro barche perché temevano di pescare teschi e tibie di defunti annegati. Gli animali quel giorno erano più inquieti del solito, come se avvertissero altre invisibili presenze. Insomma l’Halloween nostrana era piena di pregiudizi arcaici, di paure e speranze puerili, ma era anche un modo incantato per vivere un rapporto naturale e soprannaturale, non grottesco e artificiale, con Sorella Morte. Il culto dei morti non era un carnevale dell’horror. Dar vita agli assenti è la suprema forma d’amore.
La Verità – 2 novembre 2024
FONTE : Marcello Veneziani
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