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Quando e perché il nostro popolo ha perso la fede?

francesco lamendola Jul 24, 2022

di Francesco Lamendola

Quando e perché il popolo italiano, cattolico praticante nella sua stragrande maggioranza, si è allontanato da se stesso, ha smarrito la fede e ha incominciato a vivere come se la religione dei padri non avesse mai contato nulla?

Riportiamo una pagina dal bel libro di ricordi Dentro il paesaggio di Sergio De Stefani, un signore novantenne che ha fatto molto per il suo paese, di cui è stato sindaco, Pieve di Soligo, nonché per quarant’anni maestro elementare di stimata memoria (stampato in proprio, 2018, pp. 107-109):

Non so se per vera convinzione, consolidata abitudine o per consumata tradizione, ma è un fatto che la nostra gente [del Quartier del Piave], come del resto i Veneti in generale, avesse, un tempo, un profondo e innato sentimento religioso. Esso era tutt’uno con il costume adottato dalle nostre genti al quale avevano contribuito anche il prestigio e l’autorità dei pastori, l’obbedienza quasi passiva nei loro confronti, considerati, a torto o a ragione, i pochi depositari del sapere e della verità. Nelle famiglie, specie in quelle patriarcali, i figli venivano guidati alla preghiera fin da piccoli da mamme e ninne zelanti e pazienti. Più tardi, da ragazzi, si imparava a memoria il catechismo di san Pio X, tutto improntato su domande e risposte semplici, brevi, facili da memorizzare. Queste nozioni, una volta assorbite e fatte proprie con ripetizioni continue, erano destinate a far parte del bagaglio religioso di ciascuno. Così, a Solighetto, come credo in tutto il Quartiere, il catechismo o dottrina cristiana veniva impartito ogni mattina prima dell’inizio della scuola, presso l’asilo, e ogni domenica avanti le funzioni vespertine da suore e catechisti. Era insegnato in modo persuasivo ai ragazzi, che rispondevano a voce alta tanto da farsi sentire a notevole distanza. Per i più anziani, uomini e donne, al fine di richiamare alla loro memoria quanto appreso in gioventù, dopo il canto dei vespri domenicali, il sacerdote, dall’alto del suo pulpito mobile, cercava di spiegare a approfondire il contenuto degli argomenti prescelti, mentre i ragazzi, un po’ annoiati, risentivano la lezione. Qualcuno dei più anziani, specie d’estate, si abbandonava a un leggero pisolino, risvegliato soltanto dalla ripresa del suono dell’organo. La domenica era veramente considerata il giorno del riposo e dell’astensione dalle “opere servili proprie degli artigiani e degli operai” – come recitava il resto. Erano esenti le categorie la cui attività non poteva essere rinviata o sospesa, come fornai, lattai, addetti alla sanità, ecc. Anche il lavoro nella stalla per i contadini non poteva essere rinviati e, in caso di interventi di urgenza che non potevano aspettare (ad esempio i bachi da seta, la raccolta del fieno o altro), molti di loro si recavano dal parroco per avvisarlo di quanto stava succedendo e ottenere la sua approvazione in deroga al precetto domenicale. La prima messa della domenica, alle 5.30-6.00 del mattino. La più frequentata, vedeva la partecipazione quasi totale degli uomini  e delle donne del ceto agricolo e periferico, debitamente separate: la prima metà della chiesa era occupata dagli uomini, la seconda, dietro, solo dalle donne. Pure l’accesso alla chiesa presentava due gradinate e due entrate riservate a ciascun genere.

La celebrazione della messa durava oltre un’ora, incentrata soprattutto sull’omelia del celebrante o chi per lui. Come per esempio un predicatore straordinario, venuto da fuori. Naturalmente, in tutte e funzioni, la lingua usata era il latino ecclesiale, più facile di quello classico, ma non da tutti compreso, tant’è vero che veniva masticato in maniere del tutto personali…

La rapida e malefica penetrazione della civiltà moderna nel tessuto vivo della civiltà pre-moderna – vale a dire cristiana - è stato riassunto in poche righe dallo scrittore friulano Carlo Sgorlon (Cassacco, 26 luglio 1930-Udine, 25 dicembre 2009), un po’ in tutti i suoi libri, ma in particolare nel romanzo La poltrona, pubblicato da Mondadori  nel 1968, come da lui stesso raccontato nell’autobiografia La penna d’oro (Treviso, Morganti, 2008):

Il mio romanzo “La poltrona”, scritto nel 1968, è fortemente intriso di sostanza friulana. ‘è la vecchia Udine delle case cinquecentesche, dei cortili, con l’impiantito di sassi, dei vecchi portoni e dei litigi insignificanti che si verificano tra inquilini per assoluti nonnulla. Ogni cosa, ambiente o personaggio, è invaso e permeato di vecchiezza, che emana da ogni cosa. Come dire che anche le antiche case della Udine veneziana, gli ambienti, le persone, tutto ciò che sembra appartenere ancora alla civiltà contadina e artigianale è penetrato del malessere esistenziale del nostro tempo, dall’ansia dell’impotenza, dalla impossibilità di fare e di comunicare con equilibrio, di possedere la vita e di agire in modi armoniosi all’interno di essa.

L’avvento della modernità visto come la forma specifica del malessere esistenziale, del senso di frustrazione e della disarmonia che diviene la cifra di tale malessere e di tale frustrazione: non si poteva sintetizzare in maniera più lapidaria ed efficace la cosiddetta civiltà moderna, paragonabile ad una malattia che aggredisce un organismo ancora sano, lo parassita e lo conduce alla morte nel giro di neppure una generazione.

Eppure, se la modernità è una malattia, da dove viene questa malattia? Non si può fare come Benedetto Croce che, a proposito del fascismo, parla enfaticamente di una invasione degli Hyksos: sarebbe disonesto e, soprattutto, non spiegherebbe un bel nulla. Anche gli Hyksos venivano da qualche parte, dopotutto: non sono piombati sull’Egitto arrivando dal pianeta Marte. E allora, qual è la patria o, per meglio dire, qual è la cella d’incubazione di quella malattia che è la modernità? La risposta è abbastanza semplice: il luogo d’incubazione delle malattie è l’organismo che poi esse aggrediscono; non necessariamente dello stesso individuo, ma di quella specie, o comunque di una specie compatibile con le sue caratteristiche. Vi sono malattie, cioè vi sono virus, che non producono alcun danno a certe specie viventi, mentre sono mortali per altre; di più: vi sono virus che risultano innocui a un certo individuo, con il quale convivono per un tempo magari piuttosto lungo; e poi, chi sa per quale ragione, si risvegliano e diventano aggressivi e maligni. Perciò possiamo anche dire così: la modernità, da principio, è teoricamente innocua per un certo tipo di società o una certa fase storica di una data società; ma ha la capacità di degenerare in maniera repentina e di trasformarsi in una minaccia mortale, se quella tale società le offre le condizioni idonee al suo proliferare maligno.

A questo punto, per non restare nel vago, dobbiamo indicare quali sono i caratteri essenziali della modernità: solo così capiremo quali sono le condizioni idonee alla sua malefica proliferazione. Una modernità assunta in dosi omeopatiche, infatti, non reca alcun danno alla società che la ospita: perché possa fare dei danni, espandendosi in maniera incontrollabile, è necessario che vengano a mancare i fattori che la limitano e la mantengono innocua, poiché le fanno da contrappeso e da antidoto. Potremmo indicare parecchi di tali caratteri: dalla religione del progresso all’onnipotenza della tecnica; dal predominio della ragione strumentale all’indifferenza per i suoi esiti, purché utili nel senso più immediato ed esteriore; ma sono tutti riconducibili ad uno solo: il rancore, il disprezzo e il rifiuto di tutto quanto è tradizione e l’idolatria nei confronti di ciò che è nuovo, comodo, veloce e in movimento (attivismo frenetico ed esasperato). Questo è il carattere essenziale della modernità; questo è il discrimine fra ciò che è moderno, si pone e si auto-percepisce come tale e ciò che invece, a dispetto di certe apparenze, non lo è.

La fede dei padri è la quintessenza della tradizione di un popolo; logico, quindi, che sia anche il primo bersaglio della modernità. La Chiesa cattolica e il clero, secolare e regolare, furono il primo bersaglio della Rivoluzione francese: la religione cristiana era la prima cosa che i rivoluzionari, cresciuti nelle idee dell’Illuminismo volevano sradicare dal popolo francese. Ci hanno messo più tempo del previsto: bisogna arrivare alla seconda metà del XX secolo per vedere l’opera compiuta anche nelle campagne (a Parigi, invece, la città cresciuta come un fungo mostruoso e moralmente parassita sul corpo della nazione, il risultato era stato raggiunto cento anni prima); ma ci sono infine arrivati. Anzi, meraviglie della globalizzazione, verso la metà del XX secolo è stato il clero francese, sono stati i teologi francesi, solidali in questo coi loro colleghi, ex nemici, tedeschi, a spargere il virus della modernità dentro il corpo ancora nel complesso sano della Chiesa cattolica, fino al Concilio Vaticano II ed oltre (De Chardin, De Lubac, Congar, lo stesso Maritain, forse più in là delle sue stesse intenzioni; e i preti operai, e tutto il resto): l’eresia viene sempre a lì, dalla valle del Reno e dalle sue adiacenze.

E adesso di nuovo la domanda: quando e perché il nostro popolo ha perso la fede? Quando e perché ha sostituito alla religione dei padri la nuova religione del progresso e della tecnica? Il quando si colloca fra il Rinascimento e il XX secolo; ma il Rinascimento è stato un fenomeno di élite, non di popolo; e l’evento decisivo del XX secolo è stato la guerra mondiale 1914-45, e dunque gli anni cruciali sono stati quelli subito dopo il 1945, cioè dopo la vittoria del progresso e della tecnica. Il perché trova la sua risposta non tanto nelle particolari condizioni dell’Italia, ma in un dato di natura generale, che vale per gli individui così come per i popoli, gli Stati e le civiltà. La modernità è incompatibile col cristianesimo: e chi afferma il contrario mente o s’inganna. Dunque, gli italiani hanno sostituito alla fede dei padri la fede nel progresso e nella tecnica, con tutti i suoi risvolti (il consumismo, l’edonismo, il materialismo e il relativismo etico), perché in loro si era abbassato il livello degli anticorpi: vale a dire che non trovavano più in se stessi, nella propria storia e civiltà, nella propria tradizione, ragioni sufficienti, com’era stato in passato, per preferire ciò che è giusto a ciò che è comodo, ciò che è bello a ciò che è conveniente, e ciò che è vero e buono a ciò che fanno tutti. Ma quest’ultima osservazione sposta semplicemente il problema: perché, a un dato momento,  fanno “tutti” ciò che prima non si faceva? Perché le giovani ragazze scelgono di essere sempre provocanti, mentre prima sceglievamo di essere modeste? Perché i padri di famiglia antepongono l’amore per l’automobile, per l’orologio di marca, per le cose, all’amore per la sposa e per i figli? E perché i preti ritengono più importante piacere agli uomini, anche assecondandone i vizi e i peccati, piuttosto che piacere a Dio?

Naturalmente c’è una centrale malefica, a livello mondiale, la quale vuole imporre il disordine e l’immoralità, e ai nostri giorni si manifesta specialmente nell’odio implacabile contro la famiglia e nell’esaltazione sistematica della pratica omosessuale, innalzata al rango di ideologia specifica della cultura moderna. In tutti i Paesi sottoposti massicciamente a tale propaganda, fra i quali l’Italia, la modernità è stata supportata in ogni modo, specie a livello finanziario, da tale centrale, nemica della legge morale e della ragione naturale. In ultima analisi, infatti, dire modernità vuol dire relativismo, soggettivismo, nichilismo e libertinismo: non è un caso che oggetto degli attacchi incessanti dei campioni della modernità, sia sul versante politico che su quello culturale, siano quelle forze sociali, quegli intellettuali, quei soggetti statali, che si tengono aggrappati alla legge morale, alla sana ragione naturale, al senso del vero, del buono e del bello, all’ideale della famiglia come espressione più alta della vita sociale, senza il divorzio e senza l’aborto. Essere moderni significa odiare tutte queste cose e desiderare di vederle distrutte, e adoperarsi attivamente affinché ci avvenga. E chi, in particolare, è all’origine di tanto odio, è capace di organizzarlo e da lunghissimo tempo sta attuando sistematicamente e implacabilmente un piano di totale distruzione della tradizione, quindi sia della religione cristiana, sia della sana ragione naturale? Chi è capace di odiare così tanto, e con una tale lucidità e tenacia?

Storicamente, non vediamo che due forze capaci di ciò: la massoneria e l’ebraismo talmudico. Entrambe hanno un conto aperto con la religione cattolica ed entrambe mirano a distrugge la ragione aristotelica e tomista, perché solo in un paesaggio intellettuale “liquido”, instabile, privo di ogni certezza e punto di riferimento, e scettico nei confronti del vero, possono perseguire con buone prospettive di successo il loro disegno di egemonia globale: che da qualche anno è entrato nella piena fase operativa e si chiama Nuovo Ordine Mondiale. Ciò detto, si comprende anche quale può e deve essere la risposta di una società che non voglia essere condotta al macello: recuperare la sana ragione naturale e tornare alla fede dei padri. Abbandonare l’orgoglio, causa di tanti mali, e gettarsi in ginocchio, supplicando: Padre, abbiamo peccato contro il cielo e contro di Te. Non siamo più degni di essere chiamati figli: trattaci come i tuoi servi. E Lui, che è la Misericordia, ci accoglierà...

 

 

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