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Perché e per chi S. Agostino scrisse la Città di Dio

francesco lamendola Nov 03, 2022

di Francesco Lamendola

È nozione comune che S. Agostino, nel comporre – fra il 413 e il 426 – la sua opera più vasta, più impegnative e più completa, la Città di Dio, intese dare una risposta alle accuse rivolte dai pagani al cristianesimo, di aver causato il sacco di Roma da parte di Alarico nel 410 come conseguenza dell’abbandono del culto degli antichi dèi, i quali, a loro volta, avevano abbandonato i Romani, mentre fino a quel momento, nel corso dei secoli, li avevano favoriti, protetti e condotti alla vittoria contro ogni nemico.

Questa “spiegazione” è sostanzialmente esatta, ma al tempo stesso è fortemente riduttiva rispetto alle reali motivazioni dell’autore e alla complessità del contesto culturale e spirituale entro il quale egli si muoveva. Nel corso del IV secolo, parallelamente all’irresistibile marcia ascensionale del Cristianesimo (passato dall’ultima e più dura,persecuzione, quella di Diocleziano e Galerio, alla “svolta” costantiniana e alla vittoria politica e giuridica, con Teodosio, culminata nell’editto di Tessalonica), si era verificata una vera e propria ”rinascenza pagana”, sia sotto il profilo filosofico che sotto quello poetico, letterario e filologico. Non si era trattato di un movimento “dal basso”, cioè di una reazione di origine popolare, ma, tutto al contrario, di un fenomeno decisamente colto e aristocratico, che traeva origine dallo “zoccolo duro” della nobiltà senatoria, per cui si erano mobilitati gli esponenti delle più antiche e prestigiose famiglie patrizie, alti funzionati dello Stato, grandi proprietari terrieri, membri dei collegi sacerdotali, accomunati sia da una fervidissima nostalgia del passato, sia da un’avversione, mista a disprezzo, verso la nuova religione “plebea” che aveva conquistato, in maniera per essi incomprensibile, i gangli vitali dello Stato e stava trascinando l’Impero verso la rovina a causa della sua irriverenza, dell’ingratitudine e dell’empietà nei confronti degli dèi dell’Urbe.

L’ansia di tornare alla devozione e ai costumi di vita di un tempo, di rimettere in auge antiche tradizioni ormai quasi dimenticate e di restaurare perfino il purismo linguistico, dopo una lunga fase di decadenza, nonché di purificare la società da quanto di basso, d’innaturale e, secondo loro, d’irreligioso, l’aveva contaminata (non si dimentichi che i cristiani erano stati accusati, per tre secoli, di “ateismo”) si univa, in questi esponenti dell’aristocrazia senatoria, alla totale chiusura nei confronti di ogni cosa nuova, a cominciare dal rifiuto di prendere atto dell’imbarbarimento dell’esercito e delle province, ossia di un processo in corso da molto tempo e che aveva consentito, bene o male, di ritardare le invasioni germaniche e di puntellare lo Stato vacillante. È da loro che era partita la campagna di delegittimazione contro il generale vandalo Stilicone, il più abile ministro di Onorio (odio implacabile anche post morte, di cui v’è un’eco nel De Reditu suo di Rutilio Namaziano), culminata nel suo repentino arresto e nel suo assassinio appena mascherato da un velo di giustizia formale.

Insomma era un “partito” nostalgico e reazionario, che non aveva imparato nulla dalla lezione della storia, né aveva alcuna “ricetta” per affrontare la crisi del mondo romano, se non quella di rifiutare ciecamente ogni mutamento avvenuto negli ultimi secoli, dal Cristianesimo alla progressiva germanizzazione (che poteva piacere o non piacere, ma alla quale, nonostante le apparenze, era legata la sopravivenza stessa dello Stato - come perfettamente aveva visto Stilicone - e quindi anche del potere della grande aristocrazia senatoria) e di arroccarsi irrealisticamente a difesa di un mondo sorpassato e di fatto già estinto, perché del tutto svuotato di sostanza vitale, la quale si esprime nella capacità di confrontarsi coi problemi presenti e non già nel fatto di evadere in mondi ideali tramontati per sempre.

Questa mancanza di realismo, di concretezza, di spirito positivo, è palese in tutte le opere espresse dagli esponenti della rinascenza pagana, non solo a livello politico (dalla restaurazione di Giuliano l’Apostata all’ultimo, disastroso e patetico tentativo di Eugenio e Arbogaste, naufragato nella battaglia del Frigido del 394) ma anche sul terreno ad essi più congeniale, quello strettamente intellettuale e culturale. Se si passano in rassegna le ultime opere degli scrittori pagani e le si confronta, una per una, con le corrispondenti opere degli scrittori cristiani, emerge impietosamente la congenita inadeguatezza dei primi rispetto i secondi, riflesso della loro complessiva incapacità di cogliere i fermenti vitali di un mondo che pure stava attraversando una profondissima crisi e di trovare le risorse spirituali per rinnovare il proprio patrimonio ideale, in un senso che non fosse di puro e semplice restauro filologico.

Si confronti, ad esempio, la forza, la persuasività, la serrata capacità di argomentare di sant’Ambrogio contro il prefetto Simmaco nella controversia sull’altare della Vittoria, nella curia del Senato; o si confronti il carteggio di san Paolino di Nola con quello, così frivolo e banale, del suo maestro Ausonio (l’autore della Mosella) che pure era un cristiano, ma talmente tiepido e imbevuto di mentalità pagana, che non lo si crederebbe tale se non si sapesse il contrario. Ancora, si confrontino la vivacità, la schiettezza, lo spirito costruttivo che animano i versi di Prudenzio nel Cathemerinon e nel Peristephanon con la sterile riproposizione di modelli obsoleti nella poesia di Claudiano, come nel pur grazioso De raptu Proserpinae, per non parlare dei versi cortigiani in lode di Stilicone.

Passando al campo dell’arte figurativa, si confronti la luminosità, l’equilibrio, l’armonia delle prime basiliche cristiane, come Santa Sabina sul colle Aventino, e la goffa, pesante, stanca riproposizione dell’arte celebrativa del passato, come l’arco di Costantino (inteso a celebrare il primo imperatore favorevole ai cristiani, ma realizzato secondo gli schemi della cultura pagana) che, osservato da vicino, mostra come non ci fossero più scultori capaci di svolgere decentemente il compito loro assegnato e fosse perciò necessario saccheggiare opere precedenti, asportandone i bassorilievi, per adornare i nuovi edifici.

Sul piano filosofico, poi, si confronti la ricchezza, la profondità e la vigorosa novità stilistica delle Confessioni di sant’Agostino con le opere di Ammonio Sacca, di Porfirio, di Proclo, di Giamblico, ossia dei massimi esponenti del pensiero neo-platonico: e se ne ricaverà la fortissima impressione che i cristiani sapevano capire l’ora presente perché sapevano andare al cuore delle cose e al cuore dell’uomo, cogliendone i lati più nascosti ed esplorandone, con spietata sincerità, le pieghe più intime, laddove i pagani cesellavano le idee e arzigogolavano su questioni teoriche lontanissime dalle gravi urgenze dell’ora presente, ritagliandosi una comoda nicchia culturale e scrivendo gli uni per gli altri, ma senza essere in grado di dire una sola parola che potesse significare qualcosa per le persone comuni.

E per quanto riguarda la visione esistenziale complessiva e il concreto rapporto fra società e individuo?

Qui il confronto va fatto fra i Saturnalia di Macrobio, vero e proprio monumento celebrativo, erudito e nostalgico insieme, dei mores del tempo antico e della cultura antica, riproposti quale panacea contro tutti i mali del presente; e quella che si può considerare come la più compiuta ed autorevole “risposta” di parte cristiana, ossia la Città di Dio di S. Agostino (seguiamo qui una notevole intuizione del latinista Gian Biagio Conte).

Osservava G. B. Conte (in: La letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’impero romano, Firenze, Le Monnier, 1987, pp. 541-543):

[Nella “Città di Dio”] la grandezza dell’idea di fondo, che la storia non deve essere più storia delle nazioni, ma storia dell’umanità e il fondamentale contributo che essa reca all’edificazione di un sistema ideologico del Cristianesimo, debbono fare i conti con problemi di inquadramento per noi ancora irrisolti, e resi più complessi dalla pubblicazione per gruppi di libri, via via che la stesura procedeva. Questo può spiegare le ripetizioni e qualche contraddizione, ma non basta a chiarire le difficoltà nello stabilire il rapporto fra Chiesa e città di Dio e quello fra città terrena e stato pagano-temporale, che a volte sembrano identificarsi, a volte invece avere ruoli ben distinti.

Certo, nella vasta produzione di Agostino, la “Città di Dio” è non solo l’opera più imponente per impegno e mole (l’autore stesso la definiva un grande e arduo lavoro, “magnum opus et arduum”) ma anche la più consapevole che egli abbia mai scritto: si trattava di contrastare definitivamente la forza della grande intellettualità pagana, di respingere la minaccia insita nel neopaganesimo letterario e filosofico ch ancora cercava di imporre il proprio primato culturale. Non si trattava solo di opporsi a conservatori intransigenti ma singolarmente isolati, quanto invece di impedire che l’aristocrazia intellettuale – coscientemente e coerentemente organizzata – temprasse contro la dissuasione del Cristianesimo la prestigiosa tradizione pagana. Vista in questa luce, la “Città di Dio” è l’ultimo atto di un lungo dramma: scritta da un antico protetto di Simmaco (l’autorevole campione del “partito” pagano), essa doveva sancire il definitivo ripudio del paganesimo da parte di un’aristocrazia che aveva preteso di dominare la vita intellettuale della sua epoca.

Basterà ripensare ai “Saturnali”di Macrobio per riconoscere chiaramente i gusti di questo ambiente di conservatori: un libero di conversazioni immaginarie che ritrae o grandi tradizionalisti romani al tempo del loro apogeo (intorno al 380). In queste conversazioni possiamo cogliere qualcosa di più che non l’aristocratico godimento di un grande passato: è tutta una cultura che lotta per sopravvivere. La Vecchia Tradizione, la ‘vetustas’, deve adesso essere «sempre venerata». Ci troviamo di fronte a un curioso fenomeno, quelli della conservazione nel presente di tutto un sistema di vita, che si cerca di salvare trasfondendo in esso l’inviolabile sicurezza di un passato venerato. Ma non era tutto: questi uomini erano anche profondamente religiosi; potevano gareggiare con i Cristiani nella loro solida credenza in premi e pene dopo la morte. Si può anzi ricordare che Macrobio aveva scritto anche un commento al “Sogno di Scipione” in cui si mostrava come  «le anime di coloro che hanno ben meritato dalla società umana lasciano il corpo per ritornare al Cielo a godervi una beatitudine eterna». A questi uomini il Cristianesimo appariva come una religione disgiunta dagli assunti naturali di tutta una cultura. A loro, anzi, i grandi platonici dell’epoca, Plotino e Porfirio, potevano offrire una visione profondamente religiosa del mondo, in cui confluiva del tutto naturalmente una tradizione antichissima e profondamente radicata. Le asserzioni dei Cristiani, all’opposto, mancavano dei fondamenti intellettuali, mancavano di conoscenze razionalmente conquistate.

È insomma a questa (anzi, contro questa) aristocrazia colta pagana che si rivolge Agostino nella “Città di Dio”: e mentre mira a costruire un fondamento intellettuale del Cristianesimo, non manca di demitizzare il grande passato dei Romani, rifugio idealizzato in cui la cultura pagana cercava scampo contro l’amara realtà del presente. Con ironia appassionata egli sa mostrare che la storia romana non è affatto piena di “exempla” morali; che disastri di ogni tipo erano gravi e frequenti nel passato come nel presente; che questi non erano se non i segni della peccaminosità umana; che nulla contavano vizi o virtù dei Romani; che i Romani, anzi, non erano né migliori né peggiori di altri popoli; che l’Impero romano, lungi dall’essere l’oggetto privilegiato della Provvidenza Divina, era del tutto inessenziale per la salvazione dell’umanità, era semmai un fenomeno storico destinato col tempo a scomparire. (…)

La sua filosofia della storia raggiunge orizzonti inusitati per ampiezza di tempi e di spazi; da sempre e in tutto l’universo la Divina Provvidenza guida e regge meravigliosamente tutte le cose e tutti gli eventi, preparando la salvezza dell’umanità. Agostino dichiara che gli uomini non sono sempre esistiti e non sono destinati a esistere sempre: che la giustizia sociale in questo mondo (nella “civitas mundi”) non è mai raggiunta e compiuta. Le due città (quella terrena e quella divina) hanno avuto il loro principio, avranno i loro progressi e la loro fine. Le due città hanno caratteri opposti anche se esse di fatto convivono intrecciate e mescolate in ogni uomo. Il futuro dell’umanità è che l’inseparabile mescolanza delle due realtà diventi alla fine separazione; con lo sguardo della sua speranza Agostino separava quello che egli ancora vedeva unito e mescolato nella realtà del mondo: al di là delle apparenze egli vedeva appunto due popoli, i fedeli e gli infedeli.

La grandezza di S. Agostino come pensatore è qui, nella sua filosofia della storia, che oltrepassa audacemente i limiti del mondo romano per abbracciare, in una sintesi grandiosa, di una vastità da mozzare il respinto, l’intera umanità, anzi, l’universo tutto; e più ancora perché egli dal riconoscimento delle due città non trae la conclusione che, dunque, tanto vale attendere che Dio alla fine le separi, e intanto i buoni si adattino ad attendere, meglio che possono, l’ora della liberazione finale: al contrario, ne deduce che bisogna formare un nuovo tipo umano, che si consideri pellegrino del mondo, e perciò “straniero”, ma proprio per questo un pellegrino cosciente del fatto che, per giungere alla meta, che è Dio, bisogna vivere nel modo giusto, cioè attraversare la valle della vita terrena con il giusto orientamento esistenziale.

Qui sta la grandezza incomparabile di S. Agostino, il quale ricapitola un’intera civiltà e indica la via per edificarne una nuova; e qui sta il vero universalismo del cristiano, il quale si sente cittadino del mondo non perché la patria gli sia indifferente, ma perché ha compreso che la vera patria è Dio, e che si serve adeguatamente la propria patria terrena, cioè la società degli uomini, quando lo si fa in accordo con Dio e non contro di Lui, cioè andando verso di Lui e la Sua città, e non lontano da Lui, verso la città dell’orgoglio umano.

Che cosa avevano da proporre, di contro, gli intellettuali pagani, all’umanità turbata e sofferente dei secoli IV e V dopo Cristo? La celebrazione dei Saturnali? Le dotte disquisizioni fra eruditi? Le precisazioni e le pignolerie filologiche? Oppure, magari, l’evasione nel paradiso dei sensi, ad esempio abbracciando una schiavetta germanica, come Ausonio nei tanto (troppo) celebrati versi della sua Bissula?

 

 

 

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