Per la 194 l’aborto è, purtroppo, un diritto
May 11, 2024Nel dibattito recente sull’aborto è stata ribadita una tesi che da molto tempo permea il mondo pro-life odierno: la 194 non sancirebbe in alcun modo un “diritto all’aborto”. Cerchiamo di dimostrare per quale motivo non è così.
A prima vista, leggendo il testo della norma, potrebbe sembrare che la suddetta tesi sia corretta, essendovi presenti una serie di condizioni oggettive per limitare la volontà soggettiva della gestante. Ma si tratta di un inganno che la rende ancor più iniqua di quanto già non lo sia ad un primo sguardo.
Esiste il “diritto” di abortire, secondo la legge 194 ?
Primariamente, è necessario ribadire che un diritto non esiste se e soltanto se una legge lo riconosce esplicitamente. Leggiamo attentamente la 194 e cerchiamo di analizzare la tutela fornita in concreto dall’ordinamento giuridico alla pretesa del soggetto (in questo caso la donna) per verificare se ha la natura di diritto o meno. Per farlo ci si avvarrà dell’aiuto del magistrato Giacomo Rocchi, che ha trattato questo tema nel libro “L’aborto e i suoi retroscena: vite e maternità spezzate” (a cura di Alessia Affinito e Virginia Lalli, IF Press, 2010). I tondi sono dell’autore.
Il magistrato osserva che possiamo considerare tre indicatori della natura di diritto di una certa pretesa: «1) l’esercizio di un diritto non è sanzionato penalmente; 2) ad un diritto soggettivo corrisponde un obbligo, un dovere di soddisfarlo in capo ad altri; 3) questo dovere di attuarlo è tutelato dai Giudici, sia nel senso del potere di costringere i soggetti obbligati a mettere in atto la condotta doverosa, sia nel senso di condannare coloro che hanno impedito l’esercizio del diritto al titolare a condotte riparatorie e risarcitorie».
1) l’esercizio di un diritto non è sanzionato penalmente
Per il punto 1) si analizzi l’apparato sanzionatorio previsto dalla 194 per l’aborto volontario della donna: «multa massima di 51 € per il caso più frequente (aborto nei primi tre mesi di gravidanza); reclusione massima di sei mesi (quindi, con pena minima: quindici giorni) per l’aborto volontario nel periodo successivo (la pena della reclusione può essere sostituita a sua volta con una multa). Per le minorenni: nessuna sanzione, in nessun caso (articolo 19)».
Per farsi un’idea di come il legislatore si comporti di fronte a reati diversi, Rocchi mette a confronto queste sanzioni con quelle previste per altri reati: «attualmente rubare qualche prodotto in un supermercato è punito con la reclusione minima di sei mesi (articolo 624 codice penale); o cagionare senza necessità la morte di un cane è punito con la reclusione minima di tre mesi di reclusione e quella massima di 18 mesi di reclusione (articolo 544 bis codice penale)».
Si consideri l’ultimo esempio: la Corte Costituzionale, quando con la sentenza del 1975 che depenalizzava parzialmente l’aborto «affermava che era giustificato “l’intervento del legislatore volto a prevedere sanzioni penali”, aveva in mente proprio l’aborto compiuto senza necessità: ma per il legislatore la morte procurata di un animale (anche da parte di chi ne è proprietario) è considerata condotta molto più grave dell’uccisione da parte della madre di un bambino non ancora nato».
In realtà la depenalizzazione operata dalla legge 194 ha una ben differente portata rispetto a quella della sentenza del 1975: «le sanzioni (che per i medici sono più alte) sono applicate se l’aborto viene eseguito “senza l’osservanza delle modalità indicate negli artt. 5 o 8”, oppure “senza l’accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell’articolo 6”, o ancora “senza l’osservanza delle modalità previste dall’articolo 7”».
Nella 194 non è prevista alcuna sanzione per l’aborto volontario in sé eseguito senza necessità ma, piuttosto, per l’aborto eseguito senza il rispetto delle procedure dettate dalla legge. Per il legislatore la condotta abortiva è rilevante penalmente solo quando è clandestina e non perché ingiusta in sé.
2) Ad ogni diritto corrisponde un dovere di tutela del medesimo
Relativamente al punto 2) si ricordi che ad ogni diritto corrisponde un dovere di tutela del medesimo. Nella 194, afferma Rocchi, «le tracce di questo dovere, cioè di un obbligo giuridico di ottemperare alla pretesa della donna di abortire sono assolutamente evidenti». Primariamente, «nessuno ha il potere di impedire legalmente alla donna di procedere all’aborto oggetto della sua decisione […] non l’hanno i genitori di una minorenne, ma soprattutto, esso manca sia ai medici che al padre del bambino». Il “padre del concepito” è citato solo all’articolo 5 ed è parte in causa sempre e solo «ove la donna lo consenta». La sua totale irrilevanza è stata ribadita sia dalla Corte Costituzionale (ord. n. 389 del 31/03/1988) che dalla Cassazione (sez. 1, n. 11094 del 05/11/1998).
Il medico del consultorio, o il medico di fiducia devono solo attestare che a) la donna è in stato di gravidanza, b) che ha chiesto di interromperla (art. 5, ultimo comma). Per di più, la donna può scegliere liberamente il medico per ottenere la certificazione. Questo vale sia prima dei novanta giorni che dopo, in quanto «se la “salute psichica” coincide con il “completo benessere psicofisico”, è evidente che la richiesta pressante della donna di abortire, dopo essere stata informata di possibili malformazioni del figlio, comporterà, nel giudizio del sanitario, un giudizio di “grave pericolo per la salute psichica della donna derivante dalla prosecuzione della gravidanza”; sarà, quindi, sostanzialmente impossibile per il medico negare la certificazione richiesta dagli artt. 6 e 7 della legge».
Nemmeno il medico designato ad eseguire l’aborto può impedirlo: sulla base dell’art. 8 della 194 egli può solo «verificare l’inesistenza di controindicazioni sanitarie».
Per di più, la 194 sancisce un dovere delle strutture di eseguire l’aborto richiesto dalla donna e anche l’obbligo del personale sanitario di partecipare agli interventi abortivi ove richiesto.
Osserva ancora il magistrato, l’obbligo di “garantire il servizio” d’aborto per la donna in possesso del certificato «è scolpito nella norma sull’obiezione di coscienza dei sanitari: “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articolo 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale” (articolo 9, quarto comma)».
Quindi obbligo anche per ogni ospedale pubblico e per la regione! I singoli sanitari che non sollevano obiezione di coscienza sono obbligati ad erogare la prestazione e se si rifiutano possono essere perseguiti con sanzioni penali e disciplinari. Un’osservazione interessante è che, «in caso di ripensamento del medico che, ad un certo punto della sua carriera, decide di sollevare obiezione di coscienza, l’effetto della sua dichiarazione è posticipato di un mese, cosicché egli è obbligato dalla legge ad eseguire aborti ancora per un mese, nonostante la sua coscienza si ribelli (articolo 9 secondo comma)».
3) Il diritto di aborto è tutelato dai giudici
Quanto al punto 3) il “diritto di aborto” è ribadito a chiare lettere da svariate sentenze della Cassazione (ad es. Cass., Sez. 3, n. 13 del 04/01/2010, n. 14488 del 29/07/2004, n. 6735 del 10/05/2002), con le quali la titolare del diritto ha ottenuto così “tutela” dai giudici civili. È interessante notare peraltro che le pronunce non riguardano casi in cui alla donna venga negata la possibilità di abortire e ciò per due motivi: «in primo luogo perché i tempi del processo civile sono troppo lunghi per far sì che una pronuncia del genere sia resa in tempi utili; in secondo luogo – e soprattutto – perché a nessuna donna è mai stato opposto un rifiuto alla richiesta di abortire in base alla legge 194». Piuttosto, si sono sviluppati intorno al caso di donne «che hanno partorito il proprio figlio e che chiedono il risarcimento del danno perché non hanno potuto abortire […] non essendo state adeguatamente informate in tempo utile delle malformazioni cui era affetto il bambino».
Una domanda di risarcimento, per essere accolta, presuppone necessariamente la natura di diritto soggettivo della pretesa della donna di abortire.
“La donna ha un diritto soggettivo potestativo“
Possiamo dunque concludere che con la 194 solo apparentemente si è consentito l’aborto volontario a determinate condizioni. In realtà, si è riconosciuto «alla donna incinta un diritto soggettivo potestativo (vale a dire: il cui esercizio discende dalla semplice volontà della donna) di uccidere il figlio che ella porta in grembo, dall’inizio della gravidanza fino al momento in cui il bambino ha capacità di vita autonoma (vale a dire ha la possibilità di sopravvivere fuori del grembo materno)».
E ciò per qualsiasi ragione e senza impedimento alcuno (né da parte del padre del bambino, né delle strutture sanitarie, né dei medici), nemmeno in caso di reiterazione (come riportato nelle statistiche ministeriali).
L’aggravante della 194 è proprio quella di far passare esattamente l’aborto come un diritto senza mai affermarlo. Questa norma è stata scritta per nascondere tale aspetto, in maniera certamente molto efficace, tanto da ingannare molti bravi giuristi in buona fede. Ma allo stesso tempo fa penetrare proprio quel “non detto” nelle menti e nei cuori.
Fabio Fuiano
Fonte: VitaVarese
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