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TRUTH

«O Dio, dà ciò che comandi e comanda ciò che vuoi» di Francesco Lamendola

francesco lamendola Jun 27, 2022

di Francesco Lamendola

Sappiamo, secondo ragione e secondo la fede, che il fine della vita è giungere al vero Dio; e che suo scopo è conoscerlo, amarlo e servirlo, in attesa di godere della sua contemplazione appagante nella vita eterna. In ciò risiede anche la meta cui tende la vita umana: la felicità. Ma che cosa significa esattamente, servirlo? Significa fare la sua santa Volontà, essere volonterosi operai nella sua vigna.


Ma come fare la sua volontà, se essa ci appare contraria ai nostri desideri, alle nostre aspirazioni, magari le più oneste e legittime? E soprattutto: come riconoscere la sua volontà, come sapere ciò Egli vuole da noi?
Per quel che riguarda la prima domanda, la risposta è abbastanza semplice: bisogna abituarsi a
volere ciò che Lui vuole, a desiderare ciò che Lui desidera (da noi); e nient’altro. O meglio, tutto il
resto verrà da sé: perché Dio non è un tiranno incomprensibile: ciò che vuole per noi altro non è che il nostro stesso bene; dunque, fare la sua volontà significa fare il proprio bene. È logico e naturale: Dio, sommo Bene, altro non vuole che il bene delle sue creature, e poiché Egli è anche somma Sapienza, se talvolta il suo volere ci appare difforme da quel che vorremmo noi, ciò dipende da un limite dalla nostra comprensione, in quanto non sappiamo vere neppure quel che è realmente bene per noi, ma corriamo dietro a beni apparenti, che forse sono addirittura dei mali o che comunque, anche se non sono dei mali, a nulla ci giovano, né ci avvicinano di un millimetro alla meta cui siamo legittimamente protesti: la felicità.
Ogni essere è felice quando realizza perfettamente la propria natura e quindi giunge alla perfezione del proprio essere. Il pittore o lo scultore è felice quando ha terminato la sua opera nella maniera più perfetta; l’architetto lo è quando vede costruito l’edificio perfettamente, secondo il suo progetto; il giardiniere, quando ammira il giardino da lui curato in tutto il suo splendore, perché lo ha saputo coltivare con piena e perfetta maestria. Dire perfezione è dire felicità. Ma come potrebbe essere perfetta la vita dell’uomo, se non facendo ciò che Dio gli chiede di fare? Come potrebbe essere perfetta, se l’uomo pretende di fare ciò che a lui piace, ignorando o addirittura contrastando la volontà del suo creatore? È chiaro ed evidente che, per essere felice, l’uomo deve cercar di essere perfetto; ed è altrettanto chiaro ed evidente che egli non sarà mai perfetto, se ci si attiene a dei parametri puramente materiali (ecco l’errore dei giudei che rifiutarono Cristo in nome di un’idea
formalistica della Legge!), ma che lo può divenire con l’aiuto, il sostegno e l’ispirazione della
grazia, aiuto che egli riceve solo ed esclusivamente se si sforza di fare la volontà di Dio e non la
propria.
C’è poi un altro aspetto da considerare. Essere perfetto, abbiamo detto, significa realizzare
perfettamente la propria natura. E qual è la natura specifica dell’uomo? Il fatto di essere una
creatura razionale. Dunque, l’uomo realizza perfettamente sé stesso quando sviluppa e utilizza al
meglio lo strumento della ragione naturale. E che vuol dire utilizzarlo al meglio, se non utilizzarlo
come Dio vuole? Ora, la ragione naturale è stata data all’uomo per uno scopo preciso: aiutarlo a
raggiungere la felicità, che è la meta di ogni essere vivente? Ma abbiamo visto che la felicità è il
corollario della perfezione: pertanto l’uomo è felice quando usa il dono della ragione naturale per
raggiungere il proprio fine, che è la verità. A questo serve, e non ad altro, la ragione naturale: a
perseguire il vero, a raggiungere il vero; e non certo a contrastarlo, ad inquinarlo, a falsificarlo, a
confonderlo, affinché nemmeno gli alti riescano a trovarlo. Dunque, usare bene la ragione naturale è fare la volontà di Dio, e anche per tale via giungere alla felicità. E come fa l’uomo ad usare bene lo strumento della ragione? Permettendo l’azione della grazia ed aprendosi ad essa con fedeltà e
gratitudine, in modo che essa illumini e rischiari la mente, renda terso e trasparente ciò che
altrimenti, da sé sola, la ragione naturale arriva forse ad intuire, ma non a vedere in tutto il suo
splendore.

Ecco allora che si crea un dinamismo virtuoso: l’anima cerca il vero e riconosce di non potervi giungere con le sue sole forze, perciò chiede l’aiuto della grazia; Dio, che desidera solo il bene
dell’uomo, infonde in lui la grazia per realizzare il suo giusto desiderio, che poi è una cosa sola con
il proprio: il bene, sempre il bene e nient’altro che il bene. Perciò tutta la questione si riduce a
questa domanda, che poi è la seconda che avevamo formulato al principio del nostro ragionamento :come riconoscere la volontà di Dio, come sapere ciò Egli vuole da noi? Ma lo abbiamo già detto: dal momento che Egli vuol sempre e solo il bene, per riconoscere ciò che vuole da noi è sufficiente valutare, alla luce della grazia, quale è il nostro vero ed autentico bene, e non un bene qualsiasi, un bene ingannevole ed illusorio. Perciò subentra una terza e più decisiva domanda: come convincersi che quel bene, che Dio ci sta indicando, è realmente il nostro bene, se la nostra mente, fuorviata da falsi pensieri e da egoistici desideri, vede invece il bene da tutt’altra parte? La ragione naturale, da sola – lo abbiamo visto – non è sufficiente, perché le manca ancora qualcosa per vedere il reale in tutta la sua oggettiva bontà, verità e bellezza.
Bisogna pertanto che la volontà dell’uomo si pieghi, come un giunco flessibile, a desiderare e
cercare non ciò che piace all’uomo, ma ciò che piace a Dio: nella consapevolezza di non poterlo
fare se non con il suo stesso aiuto, e mai da sé sola. Anche alla mente dei pagani, alla luce della
ragione naturale, ma già forse con un presentimento e un inconscio desiderio della grazia, ciò era
apparso evidente. Si prenda il verso 65 della seconda ecologa delle Bucoliche Virgilio (e non è certo il solo verso virgiliano dal quale traluce un certo qual presentimento della verità cristiana): trahit sua quemque voluptas, ciascuno è attratto dal proprio piacere. Proprio meditando su questo verso sant’Agostino giunse ad elaborare la teologia della grazia, come osserva Carlo Cremona nel suo libro Agostino d’Ippona (Milano, Rusconi, 1986, pp. 156-157): Agostino è l’uomo delle attrazioni mistiche che decidono del destino dell’uomo. Non concepisce che l’uomo cammini per una via ignota senza che una luce misteriosa lo preceda.
Qualcosa rimarrà sempre in lui del giovane appassionato di astrologia e di oroscopi per leggere il
destino. Mai si rassegnerà a credere che l’uomo sia lasciato in balia di se stesso. Quando si
troverà, da teologo, a dover conciliare la libertà umana con l’iniziativa divina della grazia, il
grande problema della predestinazione che lo occuperà in polemica con i Pelagiani, troverà la
soluzione in una misteriosa attrattiva connessa con un altrettanto MISTERIOSA VOLUTTÀ nel
profondo dell’uomo, in una corrispondenza d’amore e di bellezza.
Lo aveva colpito il verso di Virgilio nella seconda egloga: «Ognuno è attratto da una sua voluttà».
Applicando il principio alla teologia della grazia, tenterà di spiegarlo: «Voluttà non è necessità.,
diletto non è costrizione, Se il corpo ne ha, l’anima perché non dovrebbe avene? Dammi uno che
ama: capirà quel che voglio dire! Ma se parlo ad un gelido, non mi capirà mai…» (Comm. Vang.
Giov., XXVI, 4).
Il poeta latino, con quel suo verso scultoreo, aveva voluto commentare una deliziosa scena
pastorale: il fanciullo che gioca con una capretta riottosa e timida, agitandole davanti agli occhi
un tenero ramoscello, per attirarla a sé: La descrizione era parsa adatta ad Agostino per
raffigurare l’azione non violenta ma irresistibile della grazia sulla volontà umana. Aveva anche
formulato una breve ed incisiva preghiera: «Da quod jubes et jube quod vis»: dona ciò che
comandi e comanda ciò che vuoi!
Il tema viene sviluppato più diffusamente da sant’Agostino nel decimo libro delle Confessioni (ci
serviamo, ringraziando, del sito http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/conf_10_libro.htm):


27. Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io
fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero
con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la  tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di
desiderio della tua pace.
28. Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque.
Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te. Tu sollevi chi riempi, io ora, non essendo pieno di te,
sono un peso per me; le mie gioie, di cui dovrei piangere, contrastano le afflizioni, di cui dovrei
gioire, e non so da quale parte stia la vittoria; le mie afflizioni maligne contrastano le mie gioie
oneste, e non so da quale parte stia la vittoria. Ahimè, Signore, abbi pietà di me! Ahimè! Vedi che
non nascondo le mie piaghe. Tu sei medico, io sono malato; tu sei misericordioso, io sono misero.
Non è, forse, la vita umana sulla terra una prova? Chi vorrebbe fastidi e difficoltà? Il tuo comando
è di sopportarne il peso, non di amarli. Nessuno ama ciò che sopporta, anche se ama di
sopportare; può godere di sopportare, tuttavia preferisce non avere nulla da sopportare. Nelle
avversità desidero il benessere, nel benessere temo le avversità. Esiste uno stato intermedio fra
questi due, ove la vita umana non sia una prova? 

Esecrabili le prosperità del mondo, una e due volte esecrabili per il timore delle avversità e la contaminazione della gioia. Esecrabili le avversità del mondo, una e due e tre volte esecrabili per il desiderio della prosperità e asprezza delle avversità medesima e il pericolo che spezzi la nostra sopportazione. La vita umana sulla terra non è dunque una prova ininterrotta?
29. Ogni mia speranza è posta nell'immensa grandezza della tua misericordia. Dà ciò che comandi
e comanda ciò che vuoi. Ci comandi la continenza e qualcuno disse: "Conscio che nessuno può
essere continente se Dio non lo concede, era già un segno di sapienza anche questo, di sapere da
chi ci viene questo dono".

La continenza in verità ci raccoglie e riconduce a quell'unità che abbiamo lasciato disperdendoci nel molteplice. Ti ama meno chi ama altre cose con te senza amarle per causa tua. O amore, che sempre ardi senza mai estinguerti, carità, Dio mio, infiammami. Comandi la continenza. Ebbene, dà ciò che comandi e comanda ciò che vuoi.
In altre parole: l’uomo deve chiedere a Dio i mezzi per fare ciò che Egli vuole che sia fatto, perché
Dio non chiede l’impossibile ad alcuno: ad esempio, non chiederebbe al voluttuoso di essere
continente, se non gli desse anche il dono della continenza, purché egli la chieda (Ebbene io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto, dice Gesù in Luca 11, 9-10. È un circuito virtuoso: l’uomo chiede a Dio di ricevere quel che gli manca o che non ha in misura adeguata, affinché sia fatta la volontà di Dio e non la propria. Insomma, l’uomo non deve chiedere a Dio la forza di sopportare la sua volontà, ma di amarla, anche se talvolta essa può presentarsi in maniera particolarmente amara; nel qual caso deve fare come fece Gesù nell’orto degli olivi, quando pregò con queste parole: Padre, se è possibile, allontana da me questo calice; tuttavia, sia fatta la tua volontà, non la mia (Luca, 22, 42).
Questo atteggiamento presuppone una grande umiltà da parte dell’uomo: l’umiltà della creatura che sa di essere imperfetta e bisognosa di tutto al cospetto del suo Creatore, che è la somma perfezione e la somma autosufficienza (come causa prima e come causa finale di tutto ciò che esiste). In altre parole, l’uomo con l’aiuto dello Spirito Santo può fare praticamente qualsiasi cosa; senza di Lui e contro di Lui, assolutamente niente. Come dice ancora Gesù (Giov. 15,1-8):
1 «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. 2 Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo
toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3 Voi siete già mondi, per la
parola che vi ho annunziato. 4 Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé
stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. 5 Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6 Chi non
rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco
e lo bruciano. 7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi
sarà dato. 8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei
discepoli.

 

 

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