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Mons. Viganò: San Francesco tradito da un mondo ribelle a Dio e ai suoi santi.

marco tosatti monsignor carlo maria viganò stilum curiae Oct 06, 2023

Cari amici offriamo alla vostra attenzione l’omelia pronunciata dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò per la festa di San Francesco. Buona lettura e diffusione.

 

OMELIA

nella festa di San Francesco d’Assisi

Patrono d’Italia

4 Ottobre 2023

 

Il Venerabile Pontefice Pio XII, il 18 Giugno 1939, proclamò San Francesco d’Assisi e Santa Caterina da Siena Patroni d’Italia. Nel suo memorabile discorso, egli definì il Poverello «il più italiano dei Santi, il più santo degli Italiani». Permettetemi dunque di condividere con voi una breve meditazione su questo grande Santo, per meglio comprendere quali siano le sue virtù dalle quali prendere esempio e modello.

 

Prima di tutto, lasciatemi dire che cosa San Francesco non fu. Non è quel giovinetto anarcoide ed efebico partorito dal regista Zeffirelli, nonostante che a quel modello effeminato e pacifista si siano abbeverati migliaia di sacerdoti, religiosi e suore. San Francesco non ha nulla a che vedere con Dolce sentire, tanto melenso e insulso quanto apprezzato dai modernisti. Non è quel frate ecumenico che incontra il Gran Sultano per dialogare senza convertire. Non è nemmeno quel figlio dei fiori ante litteram che tanto piace agli intellettuali di sinistra e ai preti di strada, né un antesignano dei pacifisti alla Sant’Egidio, o un ispiratore di vecchi e nuovi pauperismi. Non è, insomma, un Santo “conciliare”, anche se a quel preciso modello – falso e ideologicamente manipolato – si richiama la scelta del nome di colui che ha occupato il Soglio di Pietro. Vi è dunque un’icona, anzi direi quasi un archetipo a cui i Santi dovrebbero essere ricondotti per poter piacere ai seguaci del Concilio. Se vi è stato chi ha impunemente definito San Pio X un precursore del Vaticano II, potete ben immaginare che a questa sorta di maquillage ideologico non si sia potuto sottrarre nemmeno il Poverello d’Assisi. 

Vediamo cosa fu invece Francesco, per come lo conosciamo dalle cronache e dalle testimonianze dei suoi contemporanei. Fu un giovane scapestrato che comprese come i beni di questo mondo fossero un intralcio verso la santità, e che scelse di unirsi a Donna Povertà, la sposa di colui ch’ad alte grida / disposò lei col sangue benedetto, come recita Dante (Par XI, 32-22), vivendo i consigli evangelici nella Regola dell’Ordine Serafico.

Francesco fu dunque povero, di quella santa povertà che non è miserabile né abbietta, ma nobile e fiera, perché fiduciosa dell’aiuto della Provvidenza. Fu instancabile predicatore del Vangelo. Nel 1219 egli si recò sino al Cairo, alla corte di al-Malik al-Kamil: in quella circostanza egli volle affrontare la prova del fuoco per dimostrare la verità della Fede cattolica e persuadere il Sultano alla conversione e a desistere dal combattere i Cristiani impegnati nella Quinta Crociata.

San Francesco fu promotore del decoro e della dignità della Liturgia. Nei suoi scritti leggiamo mille raccomandazioni sul rispetto e l’adorazione dovuti al Santissimo Sacramento e sappiamo che nulla lesinava per acquistare pissidi e vasi sacri da donare alle chiese povere. Un’antifona del proprio dell’Ordine lo chiama Vir catholicus et totus apostolicus, e ricorda: Ecclesiæ teneri Fidei Romanæ docuit, presbyterosque monuit præ cunctis revereri, insegnò a professare la Fede Romana e ammonì a riverire i sacerdoti prima di chiunque altro. La sua venerazione per i Ministri dell’Altissimo era tale, da portarlo a rifiutare di ricevere il Sacerdozio considerandosene indegno.

Fu l’Ordine Serafico a istituire i Monti di Pietà e i “monti frumentari”, per sottrarre i poveri all’usura praticata dai banchieri e dalle speculazioni dei mercanti: ben altro modo di concepire l’economia secondo il Vangelo rispetto agli investimenti spericolati di chi oggi veste il saio francescano…

Francesco fu insomma l’esempio eroico di quelle virtù che in un’epoca di crisi e di guerre avrebbero riformato la Santa Chiesa. Per questo Dante ci mostra accomunati dalla missione riformatrice e dalla povertà evangelica San Francesco e San Domenico: L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore (Par XI, 37-39). Forse qualcuno ricorderà ancora, silenziosi e sorridenti, i frati mendicanti passare per via col sacco in spalla, a chiedere il pane avanzato dai fornai a fine giornata: quella presenza discreta e ammonitrice era l’ultima traccia dell’amore per Sorella Povertà, ormai cancellata dalla furia iconoclasta conciliare. Oggi i Francescani accumulano e sperperano ricchezze con ardite operazioni di speculazione finanziaria, rinnegando l’essenza della loro vocazione e l’esempio del loro Fondatore. Ma la povertà francescana non è miseria stracciona: è piuttosto distacco dai beni materiali, da usare per i poveri e per il Signore piuttosto che per le proprie comodità.

In che cosa, dunque, San Francesco fu «il più italiano dei Santi, il più santo degli Italiani»? Possiamo dire che fu il più italiano dei Santi, perché in lui si mostrò quell’indole propria al nostro popolo, fatta di carità serena verso i più poveri e i bisognosi, quella carità che tanti Ordini e Congregazioni ha visto nascere nel corso dei secoli sotto il soffio dello Spirito Santo. Un’indole fatta di carità e di amore per Dio, di Fede solida e intemerata, di quotidiana testimonianza con l’esempio. In Francesco troviamo anche quella incrollabile certezza nelle Verità eterne, di quella Roma onde Cristo è romano (Par XXXII, 102) che ancora sopravvive nel nostro popolo nonostante l’azione devastatrice della gerarchia modernista. Egli fu anche il più santo degli Italiani, perché la sua vita fu esempio e modello di vera umiltà, di santa povertà, di totale abbandono a Dio e in Dio, al punto da ricevere le Sacre Stimmate che lo assimilassero anche nella carne alla Passione del Signore.

Egli portava su di sé i segni dell’infinita Carità di Cristo, dinanzi alla quale ogni bene terreno, ogni ricchezza, ogni piacere scompare e si annichilisce, e ha un senso solo se orientato al Bene e all’eterna salvezza. Non pauperismo, dunque, ma povertà per sé e tutto per Cristo. Non ecumenismo che mercanteggia le verità della Fede, ma zelo apostolico per la conversione delle anime lontane. Non pacifismo, ma ricerca della pace in justitia et sanctitate veritatis (Ef 4, 24), nella giustizia e nella santità che procedono dalla verità.

Il mondo odierno, ribelle a Cristo e ai Suoi santi, si è costruito un idolo con le sembianze del Poverello d’Assisi: un simulacro falso e menzognero come tutti gli idoli, in cui l’anima della povertà francescana è rimossa, privata della sua causa prima e del suo fine ultimo in Dio.

Qual è la costante che ritroviamo nelle opere di Dio? La gratuità dell’Amore che si mostra come perfettamente e semplicemente Vero. E qual è la costante che ritroviamo nelle opere di Satana? Il prezzo dell’odio che si manifesta come oscenamente falso e ingannatore. Satana ci offre cose non sue: le ricchezze di questo mondo, il potere, il successo, il consenso, il piacere. E ce le vende, barattando la sua paccottiglia con il tesoro della nostra anima immortale, che non ci appartiene e che siamo invece tenuti a conservare pura e santa per il momento del Giudizio. Ma questa realtà – così evidente a chi non ha gli occhi dell’anima bendati dai sensi e annebbiati dal peccato o dal vizio – sfugge altresì a chi pensa di essere libero ed è invece schiavo di sé, del mondo, del diavolo.

Se qualcosa della vita di San Francesco rimane ancora da imitare in questo mondo traviato e traditore, è il miracolo dell’azione della Grazia santificante in un’anima totalmente orientata in Dio, illuminata dalla luce della Sua Verità e infiammata della Sua Carità. Un’anima che comprende la vanità delle cose terrene e l’assoluto primato di quelle spirituali. Un’anima generosa, capace di privarsi di tutto perché ha già tutto; pronta a rischiare la vita predicando Cristo, perché sa che la vera vita è Cristo stesso. Un’anima che non teme le privazioni, quando si è già spogliata del superfluo perché ha scoperto l’Unico Necessario.

Guardiamo all’esempio di questo grande Santo italiano non solo per ritrovare con fierezza le nostre comuni radici, dalle quali possa rinascere l’albero del Vangelo che ha reso grande e prospera la Civiltà cristiana della nostra amata Patria; ma anche per riscoprire in noi stessi, figli di questa terra benedetta da Dio e dalla presenza della Sede di Pietro, quel temperamento genuinamente cattolico e romano, che ci ha permesso già in passato di veder rinascere la Chiesa di Cristo mediante l’esercizio della povertà evangelica, la professione della vera Fede e la pratica della Carità.

+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo

FONTE : STILUM CURIAE 

 

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