Lévinas: uno dei cattivi maestri della neo-teologia
Oct 04, 2022di Francesco Lamendola
Emmanuel Lévinas (Kovno, 12 gennaio 1906-Clichy, 25 dicembre 1995), per molti anni professore alla Scuola Normale Isreaelita e maitre-à-penser della Parigi cosmopolita e progressista del secondo dopoguerra, ha esercitato un’influenza notevolissima, per non dire decisiva, sulla cultura filosofica europea. È stato uno di quelli che non esitiamo a definire cattivi maestri del Novecento, intendendo per cattivi maestri coloro i quali hanno portato il pensiero fuori dal suo alveo naturale e lo hanno staccato dalla tradizione classica e scolastica, per sospingerlo sempre più lontano, in piena corrente relativista, immanentista e soggettivista.
Oltre a ciò, definiamo cattivi maestri quelli che, assumendo le forme esteriori della compassione e della compartecipazione, dell’empatia e della solidarietà, e predicando incessantemente la necessità di ascoltare l’Altro, di riconoscere il Volto dell’Altro, di inchinarsi davanti alla verità morale impersonata dall’Altro, come Martin Buber e Lévinass, di fatto hanno portato avanti una concezione del reale nient’affatto super partes, bensì fondata sulla Cabala e il Talmud, secondo la quale il cristianesimo, in particolare cattolico, è – come per la massoneria di ieri, oggi e sempre - il grande nemico e il principale ostacolo da abbattere per giungere a realizzare un mondo migliore, libero da oppressioni e pregiudizi, ove ogni realtà soggettiva, per quanto discutibile o francamente malsana e patologica, sia lasciata finalmente libera di esprimere e manifestare pienamente se stessa, sempre sulla base di un’idea volutamente approssimativa di ciò che è dialogo, unione, valorizzazione di ogni singolarità – e naturalmente accoglienza incondizionata, il sancta sanctorum del politicamente corretto.
Non è questa la sede per esporre dettagliatamente il pensiero filosofico e teologico di Emmanuel Lévinas; diamo ciò per scontato da parte di coloro i quali, interessati a questo argomento, ci stanno leggendo. Basterà ricordare che al centro di esso campeggia, quasi moderno idolo, il Volto dell’Altro, il quale non incarna la verità, perché la verità è indefinibile e irraggiungibile, ma ugualmente, nella sua nudità essenziale – come dice Lévinas – esige e pretende da noi un atto d’incondizionata accoglienza e accettazione, una dedizione totale e assoluta che non si pone come un’esigenza della ragione, ma come un imperativo morale. Da qui l’ida dell’etica come la filosofia prima, in polemica con la concezione tradizionale della filosofia prima intesa, aristotelicamente e tomisticamente, come l’ontologia. Il volto dell’Altro è una rivelazione, una vera e propria epifania, che rimanda direttamente all’assoluto e quindi tende a immanentizzare l’essere, che non è più un principio trascendente, ma è il “tu” che ci interpella e ci coinvolge, senza residui, attraverso la verità dello sguardo dell’Altro.
A ben guardare, è sempre la vecchia, perenne, eterna tentazione della gnosi e della Cabala: mettere l’uomo al posto di Dio, immanentizzare Dio e divinizzare l’uomo, porre la metafisica del divenire al posto della metafisica dell’essere. Nel perpetuo divenire, succedono cose abbastanza strane: il Volto dell’Altro, per esempio, si cristallizza in un assoluto, in un kantiano imperativo categorico, che non si rivolge alla nostra razionalità, non è un rationabile obsequium ad una verità certa, ma solo ed esclusivamente obbedienza pronta e incondizionata a una Legge misteriosa che ordina: Tu devi amarlo! Tu devi farti carico del suo esserci! La tua vita non ha altro scopo, altro fine, altro significato, che quello di inchinarti dinanzi all’epifania del Volto dell’Altro! E questo è tipico dell’atteggiamento farisaico, nel senso tecnico e non nel senso di un giudizio morale, proprio della cultura rabbinica che è il retroterra culturale di tutta la speculazione di Lévinas. Egli è un grande studioso del Talmud e pensa che la Parola di Dio risuoni nell’anima per forza propria e sia prima di tutto un imperativo di ordine etico.
Al limite, il senso letterale della Parola di Dio rischia di essere fuorviante, perché la Parola di Dio, interpretata per mezzo del Talmud, è sempre qualcosa di più e qualcosa di meno rispetto alla vita: per cui si potrebbe affermare che, paradossalmente, ciò che vuol fare Lévinas è de-ontologizzare la Torah, eliminare le incrostazioni dogmatiche, restituirle la sua immediatezza etica che si coglie nel Volto dell’Altro e non nella Legge scritta. La sua aspra critica al detto di Cristo che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato è alquanto caratteristica. Per lui, questa frase non è che un’espressione di suprema malizia: il sabato è il giorno di Dio ed è malizioso e fuorviante cercare le eccezioni alla regola divinamente stabilita. Dio non vuole persuadere, vuole essere obbedito: anche perché il Dio di Lévinas è il Dio dei rabbini, non certo il Dio di Gesù Cristo, e neppure quello di Mosè. È un Dio che ha pochi tratti di trascendenza e alterità rispetto alla creatura, sembra anzi avere in sé, hegelianamente ed heideggerianamente, qualcosa dello spirito immanente che si manifesta, ancora e sempre, nel Volto dell’Altro. Insomma è un Dio del quale è vano chiedersi quale sia la natura, ed è vano cercarlo nel regno dei cieli, perché Egli è qui, nell’Altro, e una cosa sola ci ordina: obbedire all’imperativo morale.
Scrive il teologo Gaspare Mura nella sua pregevole monografia Emmanuel Lévinas: ermeneutica e “separazione”, Roma, Città Nuova Editrice, 1982, pp. 155-158; 167-168):
Il volto di Lévinas è un volto che per non rischiare di farsi segno di una ideologia, anche religiosa, è un volto senza verità. Il volto non è portatore di una propria parola veritativa, ma la verità del volto risiede già nella pre-comprensione con cui io mi accosto al volto: e che è quella, etica, dell’’esposizione’, della ‘sostituzione’, della ‘giustizia’. Può certo sembrare già molto l’affermazione di questi valori. Ma nella prospettiva di una più complessa ermeneutica religiosa, e anche teologica, questo “molto” è ancora troppo poco. Perché se il volto non è anche “segno” di verità, il volto non ha nemmeno un “nome”. L’indicibilità della verità del volto significa anche l’indicibilità del nome. Ossia significa che la parola dell’altro non diventa mai una parola che mi porta un messaggio, ma una pura presenza che mi ordina l’esposizione o la sostituzione, senza che io abbia nessuna possibilità di comprendere il senso interiore, proprio, e quindi personale di quella parola, né di cogliere, nel caso dell’interpellazione profetica, il messaggio di verità religiosa che essa contiene. Di fronte alla parola profetica, io mi trovo in una nudità che mi impedisce di capire sia i motivi del mio assenso ad essa, sia il senso interiore del messaggio che essa vuole comunicarmi. La pre-comprensione ermeneutica viene, in Lévinas, capovolta. È il volto dell’altro la parola stessa che mi interpella, senza tuttavia rivolgersi alla mia “comprensione”, ma alla mia “obbedienza”. Il suo rivolgersi a me non si apparenta allora all’interpellazione o al dialogo, ma al comando. Il volto dell’altro non porta nessun nome di verità, ma la presenza, nuda, di una parola di comando, che interpella una risposta di obbedienza. Non è un caso, a mio avviso, che la riflessione hegeliana abbia sviluppato la tematica del rapporto schiavo-padrone partendo da questo rapporto di obbedienza- comando, tipico della Legge nell’ebraismo.
Da un punto di vista ermeneutico, inoltre, l’impossibilità di comprendere la parola dell’altro, comporta gravi conseguenze proprio per quanto concerne il rapporto con la Parola della Scrittura. Questa, per Lévinas, sussiste solo in quanto ha riferimento alla Torah. Ma qual è il motivo della mia obbedienza se sono reso invincibilmente incapace di trovare in me le ragioni per obbedire e per comprendere la VERITÀ della Parola? Si può cogliere qui una notevole differenza di prospettiva insita nel messaggio cristiano, il quale vuole essere PROPOSTA di una parola di verità che, proprio perché tale, richiede un ‘obseqium rationale’ alla stessa obbedienza della fede. La parola di Dio non umilia l’uomo in una obbedienza di cui non sa il perché; il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato, nonostante Lévinas si sforzi, in uno dei suoi più celebri commentari talmudici, di dimostrare la capziosa ipocrisia di questo detto evangelico. Pertanto, dinanzi a quelli che Ricoeur ha indicato come i maestri del sospetto, come sarà possibile evitare e l’inquietante dubbio che la Parola del Santo non sia piuttosto una nostra parola, una nostra proiezione, senza una rigorosa fondazione, nella pre-comprensione metafisica, e quindi veritativa, dell’ASSENSO dato a quella parola? A quale parola dell’altro io devo abbandonarmi per non perdermi definitivamente? Se non ho nessuna possibilità di “comprendere” il suo messaggio in senso veritativo, mediante i segni di cui si fa portatore, e il ‘kerygma’ che è testimonianza di verità, che motivi ho per abbandonarmi all’altro se non quelli di una fede senza presupposti e senza RAGIONE? (…)
Al di là di formulazioni particolari, il pensiero di Lévinas sembra oggi costituire infatti uno dei principali punti di riferimento per la contestazione ed il rifiuto dell’onto-teologia. L’influsso di Lévinass è notevole, in questa direzione, anche tra i pensatori cristiani. Non si comprenderebbe ad esempio il senso della ricerca di J.-L. Marion, fino al suo ultimo lavoro dedicato ad un “Dio senza essere”, senza la diretta ispirazione levinasiana. Certamente anche in Heidegger si può trovare un rifiuto della concettualizzazione, della descrizione, della definizione dell’essere, della tematizzazione che, riducendo l’essere nell’essenza concettuale, lo limiterebbe, relegandolo nell’oblio. Come l’Essere non può essere detto senza tradirlo nella sua realtà, né concettualizzato o tematizzato, senza ridurlo alle dimensioni di una pura essenza, così anche il discorso su Dio deve mantenersi in un puro ascolto che esclude ogni concettualizzazione, ogni tematizzazione, e, ancor più, ogni sovrapposizione di categorie ontologiche e metafisiche alla Parola rivelata. Non è contestabile che proprio Heidegger sia stato utilizzato in funzione anti onto-teologica, dando origine, a partire da Bultmann, alla cosiddetta de-ontologizzazione della teologia. Ora, va qui osservato – pur non potendosi soffermare particolarmente su questo aspetto del pensiero heideggeriano – che la de-ontologizzazione di Lévinass è molto più radicale e drastica di quella proposta dallo stesso Heidegger. Per Heidegger, l’esclusione delle categorie essenzialiste per la comprensione dell’Essere, non esclude né la comprensione del’Essere nel suo farsi presente nella Parola, né quel tipo particolare di tematizzazione che è costituito dall’ermeneutica. Viceversa, Lévinass si oppone a Heidegger proprio su questo che a lui pare l’ultimo residuo ontologico del suo pensiero, proponendo un oltrepassamento della comprensione ermeneutica, che si instaurerebbe sempre alla luce dell’essere, in nome di una pura obbedienza al comando di una Parola che proviene dal Totalmente Altro dall’essere, e che non richiede né interpretazione, né concettualizzazione, né tematizzazione, che non siano quelle, esclusive, della sua applicazione etica.
Il Talmud, è inutile girarci attorno o fare finta di non vederlo, è animato da una radicale opposizione al cristianesimo; e già per ciò stesso Lévinas deve essere considerato un pensatore anticristiano. Inoltre la sua interpretazione del Talmud è che esso non sia uno strumento per la migliore comprensione della Torah o Legge mosaica, ma in un certo senso un suo superamento, perché la cosa essenziale, in esso, è ciò che hanno detto e prescritto i rabbini, non ciò che (forse) ha detto Mosè a nome di Dio. In questo senso, il pensiero di Lévinas è doppiamente anticristiano, perché recide alla radice ogni legame fra la Legge mosaica e il Vangelo di Gesù e sottopone la stessa Legge mosaica alla lettura che ne hanno fatto i rabbini in un arco di tempo che si conclude nel VI secolo d. C. Il suo atteggiamento verso il cristianesimo è evidenziato da ciò che egli ha detto di Madre Teresa di Calcutta: che gli sembrava una quasi perfetta incarnazione di ciò che prescrive il Talmud nei confronti dell’Altro (una cosa che è possibile dire solo facendo finta d’ignorare che l’altro, nel Talmud, l’altro che va amato e della cui presenza bisogna incondizionatamente farsi carico, è sempre e solo il confratello giudeo, mai e poi mai il gentile, e soprattutto giammai l’aborrito cristiano). In altre parole, incontrano l’approvazione di Lévinas quei comportamenti dei cristiani che non sono specificamente cristiani, anzi che non sono neppure specificamente religiosi, o che almeno così possono apparire a un occhio esterno, ma che rispondono esclusivamente alla legge morale che ordina di amare l’Altro.
Ci permettiamo, a questo punto, la domanda: come si passa dall’Altro al prossimo? Come fa l’Altro a divenire, per me, il prossimo, da amare come me stesso? È questo il passaggio mancante nella teologia di Lévinas, de-ontologizzata e ridotta pura praxis. L’altro, infatti, è sempre e solo l’altro: per divenire prossimo, bisogna che ci sia un’istanza superiore, un Dio padre degli uomini, che ci faccia vedere nel volto dell’altro, il nostro stesso volto; e, più ancora, il Suo stesso volto. Come dice Gesù (Mt 25,40): In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli lo avete fatto a me. E ancora (Gv 14,9): Chi ha visto me [il Figlio fatto uomo] ha visto il Padre…
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