Le radici rosminiane del soggettivismo spiritualista
Jan 18, 2023di Francesco Lamendola
Sono state quattro le principali correnti nelle quali si è articolato il pensiero cattolico nel corso del XX secolo.
Innanzitutto, il tomismo, o meglio il neotomismo, forte del pubblico e solenne riconoscimento ricevuto da Leone XIII con l’Enciclica Aeterni Patris del 4 agosto 1879, nella quale la filosofia di San Tommaso d’Aquino era dichiarata come la più idonea alla diffusione del messaggio cristiano nella società in via di rapida secolarizzazione, e inoltre come la più perfetta nel rispecchiare e nel chiarire i contenuti specifici della dottrina cattolica. Ebbe importunarti precursori in Matteo Liberatore e Luigi Taparelli d’Azeglio. In Francia emersero le personalità di Réginald Garrigou-Lagrange, Antonin-Dalmce Sertillanges ed Étienne Gilson; in Belgio fiorì la scuola di Lovanio, ove però il gesuita Joseph Maréchal, che però tentò un’improbabile conciliazione del tomismo col criticismo kantiano; in Italia il centro della rinascita neotomi si organizzò intorno alla Università cattolica del Sacro Cuore ed ebbe fra i Maggiori esponenti Amato Masnovo, Francesco Olgiati e Sofia Vanni Rovighi, oltre a Gustavo Bontadini, il quale, però, occupa una posizione a parte in quanto si definiva «un neoclassico radicato nel cuore del pensiero moderno», non senza forti nostalgie parmenidee. Il più radicale nel rifiuto totale del kantismo e di tutta la filosofia liberale, secondo il dettato e lo spirito del Sillabo di Pio IX, fu il gesuita friulano Guido Mattiussi, una figura un po’ isolata anche in ambiente ecclesiastico, e specialmente milanese, proprio a motivo della sua intransigenza. In Svizzera spicca, ma anch’essa un po’ isolata, la figura di Romano Amerio, fratello di un altro importante pensatore neotomista, il salesiano Franco Amerio. Come si vede, non era un fronte compatto; alcuni di essi cercano apertamente un dialogo e un’integrazione con quella filosofia cartesiana, kantiana e soggettivisica, che in teoria avrebbe dovuto essere il loro principale bersaglio critico.
Poi c’erano gli esponenti dello spiritualismo cattolico. Erano influenzati da La filosofia dello Spirito dei francesi Réné le Senne e Louis Lavelle, ma anche, come vedremo, dal pensiero di Antonio Rosmini. I più noti erano Armando Carlini, Felice Battaglia, Michele Federico Sciacca, Augusto Guzzo e Luigi Stefanini. Alcuni di essi cercarono un recupero di dialogo con l’idealismo, sia crociano che gentiliano; inoltre un po’ tutti pongono l’accento sull’incontro con Dio come fatto puramente interiore, e perciò soggettivo, piuttosto che come percorso razionale verso la verità oggettiva, come è nel tomismo.
Un altro indirizzo era quello personalista, largamente ispirato da Emmanuel Mounier e dalla rivista Esprit, ma anche da Charles Pèguy e dall’ex protestante Jacques Maritain, sposato ad un’ebrea russa a sua volta convertita, la quale eserciterà in influsso costante – d’accordo con Léon Bloy – nel giudaizzare il cattolicesimo, minimizzando le criticità e cercando di mostrare che la salvezza viene dai Giudei. Molti intellettuali che frequentano i salotti di Maritain e Raissa mantengono fieramente le loro rispettive identità religiose non cattoliche, ragion per cui adottano per il proprio cenacolo la definizione di personalismo comunitario. Per essi l’incontro con la singola persona viene prima della verità religiosa; odiano la borghesia e lo spirito borghese e filisteo e carezzano, se mai, un dialogo coi marxisti (nell’ottica, utopistica e velleitaria, di un “superamento” del marxismo), in nome di una comune solidarietà coi “poveri”, nella coscienza che l’Europa e il mondo stanno vivendo una crisi di civiltà.
Infine c’erano alcuni pensatori cattolici i quali, fatta la tara agli aspetti immanentisti e nichilisti del pensiero di Heidegger e Sartre, inseguivano un loro ideale di esistenzialismo cristiano: prima dei quali Gabriel Marcel che, però, non accettò mai per la sua filosofia tale definizione. A Marcel si può accostare la figura di Emmanuel Mounier, già nominato e, naturalmente, il lontano precursore danese, il “cavaliere della fede” Søren Kierkegaard; e in parte la filosofia dell’azione di Maurice Blondel che, però, al profilarsi della reazione antimodernista, preferì rompere i rapporti con i suoi “seguaci” e far parte per se stesso.
Abbiamo accennato che il vero ispiratore degli spiritualisti cattolici è stato Antonio Rosmini (così come Bergson lo è stato della filosofia dell’azione e perciò, indirettamente, del modernismo). Lo riconosce apertamente il massimo esponente di questa scuola, Armando Carlini (1878-1959), dopo aver confutato e respinto le varie forme di criticismo illuminista, da quello di Kant a quello di Condillac, nell’ultimo capitolo del suo volume Il mito del Realismo (Firenze, Sansoni, 13936; cit. in A.Carlini – A. Guzzo, M. F. Sciacca, Lo spiritualismo italiano contemporaneo, Torino, Società Editrice Internazionale, 1954, pp. 8-10):
Prendiamo, piuttosto, come punto di partenza, il nostro Rosmini con la sua equilibrata dottrina, già Da altri messa giustamente in rilievo, della sensibilità come quel sentimento che l’anima ha di sé nelle sua unione col corpo. Qual è il corpo che qui, in questo sentimento dal Rosmini definito FONDAMENTALE, fa tutt’uno, sebbene non come un’identità, con l’anima? Non è il corpo, dice, studiato dal fisico o dal fisiologo: «È il medesimo come se altri anatomizzasse e percepisse i nervi di un altro ente sensitivo vivente, i quali nervi non sono però senzienti a chi li anatomizza, ma a colui del quale sono». Questo è un corpo già fatto esteriore: corpo «come qualsiasi corpo esteriore che cade sotto i sensi e vi produce sensazioni». Il corpo compreso nel nostro sentimento fondamentale è quello che s’individua con noi, «sentito come consenziente» con la nostra anima. Il Rosmini chiama estrasoggettivo il primo modo di percepire il nostro corpo, soggettivo il secondo. ma, poi, anche in questo secondo distingue due modi di considerazione, che raccomanda di non confondere: l’uno è il puro sentimento fondamentale della corporeità, l’altro è questo stesso sentimento determinato nelle modificazioni e mutazioni dei nostri sensi particolari.
Questa dottrina rosminiana noi riteniamo di dover aderire nei due punti, a nostro avviso, essenziali. Il primo è quel senso d’interiorità che distingue il nostro sentire dall’esteriorità del suo oggetto; l’altro è il carattere di fondamentalità, ossia di trascendentalità, ch quel sentire mantiene come presupposto delle molteplici sensazioni in cui si fatto si attua. Rinunceremo, invece, agli sviluppi ulteriori che ricevono questi punti per l’intervento, nella teoria rosminiana, di una preoccupazione intellettualistica, simile a quella di Kant, per cui egli scambia la coscienza di sé, presente già nel sentirsi, con quella riflessa che fa suo oggetto la prima, abbassata in questo punto, a un sentire che non è più un sentirsi. «La sensazione egli dice) non può accorgersi mai di se stessa: è l’intendimento quegli che s’accorge della sensazione: l’accorgimento che noi della sensazione prendiamo, non è altro che la percezione intellettiva della medesima, o una riflessione su questa stessa: però quest’atto col quale intendiamo la sensazione, è tutto diverso da quello col quale è la sensazione stessa, cioè col quale noi sentiamo». Qui il sentimento fondamentale è diventato una sensazione bisognosa, come tutte le altre, di un principio diverso per la sua fondazione. Altrove, invece, egli ha scritto che «solamente chi sente se stesso, esiste a se stesso». «Sentir se stesso, esistere a se stesso, è un atto, non soltanto “vitale”» (che in mancanza di miglior termine noi chiamiamo SENTIMENTO, benché questo nell’uso corrente abbia significato piuttosto passivo che attivo); ma è un atto, anche, inizialmente conoscitivo, teoretico, in quanto implica un’INTUIZIONE, ossia un “intuirsi” nell’atto stesso del sentirsi. In questo senso noi diciamo che nella sensibilità è presente già tutta l’autocoscienza, sì che non c’è nessun bisogno di far intervenire un INTELLECTUS né dal di fuori, come in Aristotele o in Averroè, né da un di dentro che – o inteso al modo di S. Tommaso, o in quello di Leibniz, o in quello di Kant, o dialetticamente – in ogni modo sarebbe sempre un’esteriorità rispetto all’interiorità dl puro sentirsi.
Da parte sua il già ricordato Franco Amerio, nei suoi Lineamenti di storia della Filosofia (Torino, Società Editrice Internazionale., 1960, P. 482), osserva:
Armando Carlini ha filosofato in rapporto sempre e in polemica con l’attualismo. L’autocoscienza come principio del filosofare è il pregio dell’attualismo: l’autocoscienza come immanenza dell’atto è il suo difetto. L’autocoscienza può spiegare il mondo, ma non spiega se stessa; spiega l’esteriorità, ma non l’interiorità. Però nello stesso momento che essa spiega l’esteriorità si trova problema a se stessa, problema di pura interiorità. È qui che sorge l’esigenza del trascendente, di Dio: a Dio però non si può giungere con il solo pensiero, occorre anche la fede. La filosofia deve necessariamente integrarsi con la religione, se vuol risolvere il problema DELL’INTERIORITÀ COME AUTOCOSCIENZA. È una delle caratteristiche del pensiero del Carlini quella di tener ben distinta la cosmologia dalla metafisica, respingendo come cosmologia e naturalismo la metafisica tradizionale, e forgiando una nuova metafisica che vorrebbe essere davvero spiritualistica, strumento capace di giungere al vero Dio, che non sarebbe l’aristotelico motore e atto, ma il Dio conoscenza e amore del cristianesimo.
E don Curzio Nitoglia, un’autorità in materia, piacciano o non piacciano altre sue posizioni, nel suo studio Da Scoto e Suarez i pericoli della falsa metafisica,dal quale riportiamo gran parte della terza parte, L’errore filosofico e l’eterodossia teologica rosminiana, essendo le prime due tecnicamente irraggiungibili (da: https://doncurzionitoglia.wordpress.com/2011/11/09/da-scoto-e-suarez-a-rosmini-i-pericoli-della-falsa-metafisica-parte-terza-rosmini; eliminando le note):
Egli [Rosmini] voleva ammodernare e aggiornare o adattare la tradizione cattolica in maniera eterogenea, tenendo conto delle nuove esigenze culturali (Cartesio e Kant) e desiderava non uno scontro con la modernità, ma un incontro tra cristianesimo e mondo moderno (….). Invece, la sua filosofia si avvale del ‘metodo sintetico’ kantiano, ossia opera una ‘sintesi’ tra l’essere reale e l’essere ideale (“l’idea di essere”) kantiano-idealista ed in ciò è un vero precursore del modernismo classico, condannato da S. Pio X, come spurio connubio di kantismo e dogma cattolico (Pascendi, 1907). Onde nel suo sistema filosofico il primato spetta – cartesianamente – all’idea o alla teoria della conoscenza (gnoseologia) e non alla realtà o metafisica dell’essere. Infatti, anche per il Roveretano viene, cartesianamente, prima il cogito e poi l’essere o il reale. L’essere rosminiano è chiamato più giustamente “idea di essere”, poiché egli applica all’essere dei concetti soggettivi o ‘a priori’. Come scrive padre Battista Mondin, Rosmini tentò «un difficilissimo dialogo con il pensiero post-cartesiano, intrinsecamente immanentistico. […], un incontro tra cristianesimo e mondo moderno. […] Diversamente da Aristotele e S. Tommaso […], Rosmini ricorre al metodo sintetico, […] come sintesi tra l’essere ideale e l’essere reale». Inoltre «Rosmini ritorna alla tesi classica [dell’essere, nda], ma la ripropone in un nuovo contesto che è quello di Kant. […] Rosmini è d’accordo sulla necessità che nella conoscenza ci sia un elemento ‘a priori’, che egli riduce alla sola idea di essere». In breve il rosminianesimo è un miscuglio di realismo e idealismo, antesignano del tomismo “trascendentale” o kantiano, di Joseph Maréchal e Karl Rahner, che di tomistico non ha più nulla, tranne il nome.(…)
Inoltre il Roveretano confonde ente ed essere, come fossero sinonimi interscambiabili, onde capovolge la metafisica tomistica. Nega il valore delle cinque vie tomistiche (riprese e definite dogmaticamente dal Concilio Vaticano I, e perciò stesso infallibilmente, come capacità reale dell’intelletto umano di risalire – con certezza – dagli effetti creati alla Causa Increata e Creatrice, DB 1806) quanto alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, per seguire l’argomento ontologico, che per S. Anselmo d’Aosta aveva solo un significato spirituale-apologetico, mentre lui ne fa un argomento filosofico in senso stretto e probante, passando dal concetto di Dio alla sua esistenza, ossia dall’ideale al reale. Per quanto riguarda gli attributi o i Nomi divini, segue la via apofatica o il nichilismo teologico maimonideo o di Dionigi (I Nomi di Dio) malamente interpretato, per il quale Dio è totalmente inconoscibile; mentre la filosofia perenne e il Dogma definito dal Vaticano I insegnano che la ragione umana, oltre l’esistenza di Dio, può conoscere non tutti, ma alcuni suoi attributi, perfezioni o ‘Nomi’ (Essere, Verità, Bontà, Bellezza).
In altre parole, se non si esce dal soggettivismo cartesiano e non si fonda la metafisica sull’essere, sulla cosa in sé, e non sul “sentimento fondamentale”, che poi è l’idea dell’essere, non si giungerà mai alla verità obiettiva e bisognerà sempre contentarsi – kantianamente – di una sorta di agnosticismo speculativo, dove le cose sono, sì, e sono anche vere certe, ma perché e fino a quando ricevono da me il grado e la misura del loro esserci e della loro certezza…
Se questo si possa considerare un passo avanti, sia rispetto al kantismo sia rispetto al tomismo, lasciamo giudicare al lettore.
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