La vera filosofia è scienza dell’essere in quanto essere
Aug 19, 2022di Francesco Lamendola
Abbiamo detto molte volte che quasi tutto il pensiero moderno non merita la qualifica di “filosofia”, perché, a patire da Kant, dichiara l’indimostrabilità, e quindi la superfluità, della metafisica; e ciò sulla base dell’idea che la metafisica è il cuore della filosofia, e che una filosofia la quale prescinda dalla metafisica sarà quel che si vuole, ma non è più realmente filosofia, se le parole hanno un significato preciso.
Qualcuno potrebbe domandare perché sosteniamo una tesi del genere, che, senza dubbio, parrà eccessiva ed estremista a molti, abituati a considerare come “filosofia” qualsiasi espressione del pensiero speculativo, anche la più lontana dalla vera filosofia, come il razionalismo, l’utilitarismo, l’idealismo e il neoidealismo, l’hegelismo di destra e di sinistra, il positivismo e il neopositivismo, lo spiritualismo, il personalismo, lo strutturalismo, la filosofia del linguaggio, il pensiero debole, il nichilismo, il pragmatismo, l’ermeneutica, la fenomenologia, eccetera. Su quale base dunque noi diciamo che la filosofia è metafisica, o pone comunque al centro la metafisica, oppure non è filosofia, ma qualcos’altro?
Cominciamo col chiarire il significato della parola metafisica. Per la maggior parte delle persone ha un significato incerto ed oscuro, vagamene esoterico, avvolto da una patina antica e veneranda, sì, ma in qualche modo obsoleta, come una moneta fuori corso o come un tesoro sprofondato in fondo al mare insieme al galeone che lo trasportava, e che sarebbe ormai più dispendioso cercar di recuperare piuttosto che lasciarlo giacere là dove si trova e dove il destino ha voluto che si perdesse, mentre coloro che lo attendevano sono morti da un pezzo e i loro eredi si sono scordati perfino della sua esistenza.
È abbastanza noto che un esponente della scuola peripatetica, Andronico di Rodi, raccolse gli scritti del maestro che venivano dopo quelli dedicati alla natura, cioè dopo i libri di fisica, sicché metafisica significherebbe semplicemente ciò che viene dopo la fisica. Aristotele, da pare sua, chiamava la materia di quei libri, semplicemente, filosofia prima, per evidenziarne il carattere essenziale e universale, che prescinde dal dato empirico e da ogni determinazione specifica relativa a questo o quell’aspetto dell’esistente; mentre la fisica è, per lui, la filosofia seconda (e nei secoli successivi, fino al Rinascimento e oltre, le scienze fisiche hanno conservato, nelle università europee, la denominazione di filosofia naturale). Nel corso del Medioevo, sotto l’influenza dei traduttori e degli interpreti arabi dello Stagirita, la parola metafisica ha acquisito il significato di ciò che sta oltre la fisica (in effetti, il suffisso greco metà autorizza anche queste traduzione), laddove “oltre” reca implicito il concetto di “superiore” e “trascendente” rispetto al dato immediato e particolare, e dunque rispetto alla fisica.
Si è a lungo discusso su quale delle due interpretazioni sia più vicina alle intenzioni originarie del maestro, e recentemente la bilancia sembra essersi spostata definitivamente in favore di questa seconda accezione, per cui metafisica, già nelle intenzioni di Aristotele e non solo in quelle dei suoi studiosi arabi, o dei suoi discepoli cristiani, come san Tommaso d’Aquino, indicherebbe non solo e non tanto la materia che viene dopo la fisica, visto soprattutto che di tale riordino bibliografico egli non poteva sapere nulla, essendo vissuto quattro secoli prima di Andronico, e considerato che il suo pensiero, a differenza di quello di Platone, è giunto fino a noi non nei testi scritti di suo pugno, ma sostanzialmente attraverso gli appunti delle sue lezioni presi dai suoi discepoli; bensì ciò che sta al di là, e in ultima analisi al di sopra, della fisica, così come i cieli immutabili stanno al di là e al di sopra del mondo sublunare e delle cose mutevoli che giacciono in esso. Dunque la metafisica come scienza dell’assoluto, di ciò che è ultimo.
Solo questo? Ma perché, si potrebbe ancora obiettare, ciò che sta oltre la fisica dovrebbe stare anche al di sopra di essa? In altre parole: perché la realtà ultima, quella che trascende i dati particolari e le categorie contingenti, dovrebbe godere anche di una superiorità quanto allo statuto ontologico? Perché dovrebbe essere la realtà assoluta? Non sarebbe ciò un riprodurre l’assolutezza delle Idee platoniche, ossia di un mondo che è la matrice originale di quella copia sbiadita che è il mondo sensibile? Concezione che in Aristotele fonda la critica al platonismo, anzi segna proprio il distacco e la rottura fra l’antico maestro e il discepolo, orientato quest’ultimo in maniera sempre più decisa verso il realismo e contro l’idealismo. E la risposta è che la filosofia di Aristotele è una filosofia dell’unità dell’Essere, del primato dell’essere, così come lo è quella di san Tommaso d’Aquino: vale a dire dell’essere in quanto essere. E siccome quella è stata la vetta insuperata del pensiero (questo, attenzione, è un giudizio di valore: si può condividerlo oppure no), ne consegue che tutti i filosofi moderni i quali, sulla scia di Kant, hanno creduto di poter fare a meno della metafisica e dedicarsi ad altro che all’essere o alla cosa in sé, e solo al fenomeno, costoro a noi pare che abbiano tradito la filosofia, abbiano smesso consapevolmente di fare filosofia, per costruire delle speculazioni che non poggiando sulla roccia dell’essere, poggiano di necessità sulla sabbia del relativo e del mutevole.
Il grande merito di Tommaso, evidenziato particolarmente da Étienne Gilson, è stato proprio quello di porre a fondamento di tutto, l’essere come actus essendi,e non solo come aliquid, vale a dire una filosofia dell’ente che esiste e non dell’ente come sostanza; laddove Aristotele pone, sì, l’essere a fondamento del reale, ma poi definisce l’essere come sostanza (ossia come una categoria, e sia pure la prima e la fondamentale delle dieci categorie: sostanza, qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, stare, avere, agire, subire), mentre l’essere è prima di tutto essere, secondo le parole bibliche del Libro dell’Esodo, dove Dio dice di Se stesso: Io sono colui che sono (3,13-15): ed è questo che permette all’ente in atto di essere in una certa maniera e in un determinato punto del tempo e dello spazio. Quasi tutte le filosofie moderne, comprese quelle realistiche le quali, direttamente o indirettamente, si richiamano ad Aristotele e allo stesso san Tommaso d’Aquino, cadono poi in una qualche forma di sostanzialismo, ovvero di essenzialismo. Cioè privilegiano l’essere come essenza e si dimenticano che, prima ancora di avere un’essenza, gli enti reali (non quelli puramente logici, ad esempio quelli matematici) hanno l’esistenza e che l’atto di esistere si pone come anteriore, non cronologicamente ma concettualmente, rispetto all’essenza che è, in definitiva, come abbiamo visto, una sostanza, cioè una modalità dell’essere o quantomeno una delle modalità con le quali l’intelletto coglie l’essere delle cose.
Scrive Aristotele nella Metafisica (libro IV, 1-2; traduzione di Antonio Russo, Laterza, 1973; in: I Classici del pensiero, Mondadori, 2008, vol. 1, pp. 741-743):
- C’è una scienza che studia l’essere-in-quanto-essere e le proprietà che gli sono inerenti per la sua stessa natura. Questa scienza non s’identifica con nessuna delle cosiddette scienze particolari, giacché nessuna delle altre ha come suo particolar oggetto di indagine l’essere-in-quanto-essere, ma ciascuna di esse ritaglia per proprio conto una qualche parte dell’essere e ne studia gli attributi, come fanno, ad esempio, le scienze matematiche. E poiché noi stiamo cercando i principi e le cause supreme, non v’è dubbio che questi principi e queste cause sono propri di una certa realtà in virtù della sua stessa natura. Se, pertanto, proprio su questi principi avessero spinto la loro indagine quei filosofi che si diedero a ricercare gli elementi delle cose esistenti, allora anche gli elementi di cui essi hanno parlato sarebbero stati propri dell’essere-in-quanto-essere e non dell’essere-per-accidente; ecco perché anche noi dobbiamo riuscire a comprendere quali sono le cause prime dell’essere-in-quanto-essere.
- Il temine “essere” è usato in molte accezioni, ma si riferisce in ogni caso ad una cosa sola e ad un’unica natura e non per omonimia; mas., come tutto ciò che è sano si riferisce in ogni caso alla salute – sia in quanto la conserva sia in quanto la procura sia in quanto la manifesta sia in quanto è in grado di riceverla – e come tutto ciò che è medico si rapporta alla medicina (giacché una cosa si dice medica perché possiede l’arte della medicina, e un’altra perché è naturalmente adatta ad essa e un’altra ancora perché è opera della stessa medicina – anzi possiamo assumere anche altri termini usati in modo simile a quelli precedenti, così anche il termine “essere” viene usato in molte accezioni, ma ciascuna di queste si riferisce pur sempre ad un unico principio. Alcune cose, infatti, si chiamano “esseri” perché sono sostanze, altre perché sono determinazioni affettive della sostanza, altre perché aprono la via verso la sostanza o ne indicano la distruzione o la privazione o le qualità, o perché sono produttrici o generatrici di una sostanza ovvero dei termini relativi ala sostanza, o anche perché sono negazioni di qualcuno di questi termini o della sostanza; ed è questo il motivo per cui noi diciamo che anche il non-essere È in-quanto-non-essere. E come, dunque, di tutte le cose sane esiste un’unica scienza, parimenti avviene questo anche per le altre cose. Di fatti è riservato ad un’unica scienza lo studio non solo di quei termini che esprimono una nozione comune, ma anche di quei termini che sono relativi ad una sola natura, giacché anche questi ultimi, in un ceto senso, esprimono una nozione comune. Quindi è chiaro che spetta ad un’unica scienza anche lo studio degli esseri-in-quanto-esseri. In ogni caso, poi, la scienza ha come suo oggetto peculiare ciò che è primo, ossia ciò da cui le altre cose dipendono e mediante cui esse ricevono le loro denominazioni. Pertanto, se questa prima cosa si identifica con la sostanza, allora il filosofo dovrà avere in suo dominio i principi e le cause, appunto, delle sostanze.
Ma di ogni genere determinato di cose, come esiste un’unica sensazione, così esiste anche un’unica scienza, allo stesso modo che, ad esempio, la grammatica, che pur è una, studia tutte quante le parole. Perciò è compito di una scienza unica per genere studiare quante siano le specie dell’essere-in-quanto-essere, ed è compito delle parti specifiche di questa scienza studiare le parti specifiche dell’essere. Tuttavia, se l’essere e l’Uno sono identici ed hanno una sola natura in quanto esiste tra loro la medesima correlazione che si riscontra tra principio e causa, e non in quanto essi vengono indicati con la medesima definizione (del resto, non vi sarebbe alcuna differenza, anzi sarebbe persino più utile a noi concepire l’identità dell’essere e dell’Uno anche sotto questo secondo aspetto), giacché sono la medesima cosa le espressioni “un-uomo” e “uomo esistente” e “uomo”, e così anche raddoppiare l’espressione dicendo “uomo ed uomo esistente” in realtà non porta ad indicare qualcosa di diverso, ma è, anzi, evidente che tra l’uomo e l’essere non c’è separazione né per quanto concerne la generazione né per quanto concerne la corruzione, e lo stesso dicasi anche a proposito del termine “uno”, e da ciò consegue che l’aggiunzione di un termine a queste espressioni non apporta alcun cambiamento di significato, e l’Uno non è nulla al di fuori dell’essere e, inoltre, la sostanza di ciascuna cosa è unica non per accidente, ma è in tal modo qualcosa che esiste essenzialmente, - allora si avrà di conseguenza che quante sono le specie dell’Uno altrettante sono anche quelle dell’essere; e sarà compito di una scienza che sia unica per genere studiare l’essenza di tali cose, vale a dire, ad esempio, l’essenza dellidentico, del simile e delle altre determinazioni siffatte. Anzi, quasi tutti i contrari potranno essere riportati a questo principio; del resto valgano le considerazioni fatte da noi a tale proposito nella “Raccolta dei contrari” [forse il secondo libro del “De bono”, oppure il trattato “De contrariis” di cui parla Diogene Laerzio].
Ha perfettamente ragione, Aristotele, a sottolineare che anche l’Uno, che alcuni vorrebbero come il principio universale di tutte le cose (e sarebbe poi divenuta la posizione dei neoplatonici) non è nulla al di fuori dell’essere; così come nel dire che la sostanza di tutte le cose è unica e lo è non per accidente, ma per il fatto che tutto ciò che esiste, esiste essenzialmente, cioè è identico quanto alla vera essenza, che è l’essere. E dunque è arrivato vicinissimo all’idea fondamentale della priorità dell’essere su ogni altra cosa, compresa l’essenza: vicinissimo, e tuttavia ha seguitato a girarci intorno, senza arrivare a riconoscerla distintamente.
Il grandissimo merito di aver visto quell’idea spetta a san Tommaso d’Aquino e a lui solo: nessun altro, né prima né poi, l’ha riconosciuta con altrettanta chiarezza, facendone la base della metafisica. Perché se la metafisica è la scienza dell’essere in quanto essere, e poi si viene a dire, come fa Aristotele, che oggetto della metafisica è la sostanza, in un certo senso si sprecano quelle splendide premesse e si ricade in una delle tante possibili forme di ontologia. Ma la vera metafisica non è una ontologia qualsiasi, è la scienza dell’essere in quanto essere, in quanto atto di essere e perciò di esistere, precedente ogni altra categoria: perché solo ciò che esiste è nel senso più pieno della parola.
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