La tradizione è una casa che richiede solide fondamenta
Dec 20, 2022di Roberto Marchesini
Il film "Il violinista sul tetto" suscita domande su "ciò che si è sempre fatto" (o almeno da qualche secolo): le tradizioni plasmano l'identità, offrono rifugio, ma rischiano di dare una stabilità soltanto illusoria se non poggiano sulla roccia di Dio fatto uomo.
C’è questo film di successo del 1971 intitolato Il violinista sul tetto. È tratto da un musical di Broadway, a sua volta basato su un racconto di Sholem Aleichem (Solomon Naumovich rabinovich, 1859 – 1916) intitolato Tevye il lattaio. È la storia di Tevye, ebreo aschenazita che vive con la sua famiglia nell’immaginario villaggio di Anatevka, nell’attuale Ucraina.
Da dove deriva l’indovinato e particolare titolo del film? È presto detto: la pellicola si apre e si chiude con uno strano violinista che, nella sequenza iniziale, suona all’alba sul colmo di un tetto.
«Un violinista sul tetto. Sembra assurdo, no?
Ma nel nostro piccolo villaggio di Anatevka, si potrebbe dire che ognuno di noi è un violinista sul tetto, che cerca di grattare una melodia piacevole e semplice senza rompersi il collo. Non è facile.
Potresti chiedere: perché restiamo lassù, se è così pericoloso?
Restiamo perché Anatevka è la nostra casa. E come manteniamo l'equilibrio? Te lo posso dire in una parola: tradizione.
[...]
Grazie alle nostre tradizioni, abbiamo mantenuto il nostro equilibrio per molti, molti anni.
Qui ad Anatevka abbiamo tradizioni per tutto: come mangiare, come dormire, persino come indossare i vestiti. Ad esempio, teniamo sempre il capo coperto e indossiamo sempre un piccolo scialle da preghiera. Questo dimostra la nostra costante devozione a Dio.
Potresti chiedere, come è iniziata questa tradizione? Te lo dirò: non lo so. Ma è una tradizione.
A causa delle nostre tradizioni, tutti sanno chi è e cosa Dio si aspetta che faccia».
Questa breve spiegazione, a mio parere, è illuminante. Spiega perché l’ebraismo sia, più che una religione (moltissimi ebrei sono atei), una tradizione, in grado di dare identità a un popolo che non ha più una terra, un tempio nel quale celebrare il sacrificio. Ma spiega anche – ed è la cosa più interessante – come la tradizione possa dare l’illusione di stabilità a chi, invece, non ha più un solido appoggio sotto i piedi. Una cosa è giusta non perché abbia solidi motivi, ma perché si è sempre fatto così. Un involucro rispettabile che nasconde il vuoto.
Gesù, nel Vangelo, è sempre stato molto critico con queste tradizioni senza fondamento. Ecco alcuni esempi: «In quel tempo alcuni farisei e alcuni scribi, venuti da Gerusalemme, si avvicinarono a Gesù e gli dissero: “Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Infatti quando prendono cibo non si lavano le mani!”. Ed egli rispose loro: “E voi, perché trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione?”» (Mt 15, 1-3); «farisei e scribi lo interrogarono: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”. Ed egli rispose loro: “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto:
Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”. E diceva loro: “Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione. [...] Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte”» (Mc 7, 5-8, 13).
Queste parole valevano per gli ebrei; ma possono valere anche per i cattolici? Per quanto riguarda i cattolici, la nascita del «tradizionalismo» risale al post Concilio Vaticano II. Se Wikipedia identifica il tradizionalismo cattolico con la sua frangia più estrema, in realtà anche molti cattolici (contrari o scettici nei confronti del progressimo cattolico) si identificano come tradizionalisti. Per fare un esempio, il giornalista Ezio Mauro chiamava i tradizionalisti cattolici fedeli alla cattedra petrina «strani cristiani»; recentemente, Il Timone li ha rinominati «ultracattolici».
La domanda è la seguente: è sensato riconoscersi nella tradizione? In fondo, una tradizione è pur sempre nata, ad un certo punto. Ed è nata per motivi più o meno contingenti. Il «si è sempre (!) fatto così» è motivo sufficiente? Mi spiego con un paio di esempi. Un paio d’anni fa, il papa ha pronunciato queste parole: «Costruiamo la giustizia sociale sulla base del fatto che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata e ha sottolineato sempre la funzione sociale di qualsiasi sua forma». Queste parole hanno suscitato un coro di proteste all’interno del mondo cattolico tradizionalista; eppure il papa non ha fatto altro che citare il Catechismo: «Il diritto alla proprietà privata, acquisita o ricevuta in giusto modo, non elimina l'originaria donazione della terra all'insieme dell'umanità. La destinazione universale dei beni rimane primaria, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto ad essa e del suo esercizio» (§ 2403).
Cos’è accaduto? Che (malgrado sia stato il papa a fare riferimento alla tradizione cristiana), il mondo tradizionalista che per decenni aveva lottato contro il progetto comunista di abolizione della proprietà privata è insorto… rifacendosi alla tradizione anticomunista cattolica.
Ecco un secondo esempio, ancora più antipatico e spinoso: come affrontare la crisi di vocazioni? Alcune diocesi sfruttano le unità pastorali, cioè affidare diverse parrocchie a uno o più sacerdoti. A parte il fatto che, in genere, le unità pastorali sono un esperimento fallimentare, la crisi dei sacerdoti sembra ancora più rapida della creazione di unità pastorali. Insomma, si tratta di un palliativo temporaneo, non di una soluzione. La Chiesa sembra indirizzarsi verso uno scenario più radicale, l’amazzonificazione delle diocesi. Ossia: affidare le parrocchie a laici che celebrino, alla domenica, la liturgia della parola; la celebrazione del sacrificio diventerebbe un evento straordinario. In questo modo il «sacerdozio comune dei fedeli» diventerebbe più concreto, si affiderebbero compiti pastorali alle donne e si colmerebbe la distanza tra il cattolicesimo e il mondo protestante; oltre, ovviamente, a ridurre il fabbisogno dei sacerdoti, visto che i sacramenti diventerebbero straordinari e l’attività pastorale sarebbe affidata ai laici. Questa soluzione fa (comprensibilmente), storcere il naso ai cattolici tradizionalisti; eppure non si può certo continuare con le strutture ecclesiastiche attuali, visto il declino del sacerdozio.
C’è un'alternativa? In effetti c’è, ma richiederebbe una rinuncia alla tradizione. Bisognerebbe tornare a prima del Concilio di Trento, quando le parrocchie non erano le attuali, non c’erano oratori né seminari, i sacerdoti non erano residenti nei paesi ma in curie. Bisognerebbe, in altri termini, rinunciare alla Chiesa come l’abbiamo sempre vissuta e come la conosciamo; non da sempre, da circa cinquecento anni. Certo, oltre alla tradizione bisognerebbe rinunciare al radicamento territoriale che l’attuale istituzione parrocchiale garantiva; che, tuttavia, non è più in grado di garantire. Chi desidera i sacramenti (sono così tanti?) dovrebbe spostarsi e le Messe nelle attuali chiese parrocchiali diventerebbero riservate a occasioni particolari. Probabilmente, i centri della vita religiosa tornerebbero ad essere conventi e monasteri. In questo modo si eviterebbe la protestantizzazione della Chiesa cattolica; ma al prezzo del sacrificio di una tradizione di cinquecento anni che ha fatto un gran bene (per molto tempo) alla Chiesa e alle anime.
E torniamo al punto di partenza: il violinista sul tetto. La tradizione è quella cosa che serve a stare in equilibrio quando non si ha più un solido punto d’appoggio. Siamo sicuri di non averlo, questo solido punto d’appoggio? Non è forse il Vangelo, la raccolta di gesti e parole del Logos incarnato, del Dio fatto uomo? Siamo davvero sicuri di non poter fare a meno di certe tradizioni, per quanto nobile sia e utile siano state?
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