La strada che porta al disastro è verde
Feb 05, 2025
FONTE : Osservatorio Card. Van Thuân
di Riccardo Cascioli
[Pubblichiamo un ampio stralcio dello studio di Riccardo Cascioli pubblicato col medesimo titolo nel 16mo Rapporto dell’Osservatorio Van Thuân dal titolo Finis Europae, un epitaffio per il vecchio continente? (ed. Cantagalli) che dopo l’insediamento di Donald Trump è aumentato di attualità].
Il gruppo Volkswagen ha reso pubblica la sua crisi e nel corso del 2025 potrebbe chiudere cinque stabilimenti e licenziare 15mila lavoratori. Colpito anche il marchio Audi che ha già annunciato a luglio 2024 che non verranno più assemblati nuovi modelli nel suo stabilimento di Bruxelles, destinato perciò a chiudere con conseguente licenziamento dei suoi attuali 3mila addetti. Sul fronte italiano invece Stellantis (titolare anche del marchio Fiat) ha fatto sapere a metà settembre che è probabile la rinuncia ad avviare la prevista gigafactory di Termoli per la costruzione di batterie: il mercato delle auto elettriche è un flop e non avrebbe senso un enorme investimento del genere.
Sono gli scricchiolii (e probabilmente anche più di semplici scricchiolii) dell’edificio europeo chiamato Green Deal (patto verde), su cui l’Unione Europea (UE) si sta giocando il suo futuro. Certamente la più grande scommessa politica ed economica mai tentata, che però sta già producendo quei risultati negativi, per non dire drammatici, che chiunque dotato anche di un semplice buon senso poteva prevedere. In effetti il Green Deal è una mega operazione ideologica che l’élite europea è decisa a portare ostinatamente avanti malgrado la realtà stia già presentando il conto; malgrado i fatti dimostrino che si tratta di una strada che porta al suicidio economico e sociale.

Ma di cosa stiamo esattamente parlando? Il Green Deal europeo è stato lanciato dalla Commissione nel dicembre 2019 e recepito nello stesso mese dal Consiglio Europeo (l’istituzione che riunisce i leader dei Paesi UE e definisce gli orientamenti generali e le priorità dell’Unione). Si tratta di un pacchetto di iniziative politiche e obiettivi che toccano tutti i settori dell’economia e della società con lo scopo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, riducendo entro il 2030 le emissioni di gas serra del 55% rispetto ai livelli del 1990. Il tutto dovrebbe servire a contenere l’aumento delle temperature entro gli 1.5°C entro la fine del secolo rispetto alle temperature pre-rivoluzione industriale.
Sì, perché tutto il Green Deal si fonda sulla tesi del Riscaldamento Globale Antropogenico (RGA) secondo cui sarebbero in atto dei catastrofici cambiamenti climatici provocati dalle emissioni antropiche di gas serra, in primis l’anidride carbonica (CO2). Come abbiamo avuto modo di spiegare in un precedente Rapporto sulla Dottrina Sociale della Chiesa (no. 12, Ambientalismo e globalismo: Nuove ideologie politiche), la tesi del RGA è fortemente discutibile e discussa sul piano scientifico, ma è stata adottata (ma si dovrebbe dire più precisamente imposta) dalla politica per motivi ideologici e interessi economico-finanziari. Non staremo qui a ripetere gli argomenti di critica a una tesi pseudo-scientifica tesa a criminalizzare le attività umane e a mettere nel mirino i settori industriale ed agricolo, fondamentali per lo sviluppo economico e sociale. Basti soltanto ricordare che il Green Deal pretende di fondarsi proprio su queste basi pseudo-scientifiche molto fragili e su queste combattere l’uso dei combustibili fossili.
Ad ogni modo per comprendere l’irrazionalità di questa scelta europea bisogna almeno capire il rapporto tra investimenti richiesti e risultati attesi. Attualmente i 27 Paesi della UE complessivamente incidono sulle emissioni globali di CO2 per l’8%. Tenendo conto che le emissioni umane costituiscono solo una piccola parte della concentrazione di CO2 nell’atmosfera (oggi intorno alle 400 ppm), vuol dire che le emissioni europee contano per lo 0,09% di tutta l’anidride carbonica presente in atmosfera. Se anche l’obiettivo fissato dal Green Deal fosse raggiunto, inciderebbe sul totale di CO2 in atmosfera dello 0,016%. Un risultato neanche rilevabile dal punto di vista scientifico.
Comunque, rispetto al 1990 le emissioni sono diminuite di circa il 33%, ma ai ritmi attuali l’obiettivo ambizioso del 55% entro il 2030 è molto lontano e sarebbe già complicato raggiungere il 40% che la UE aveva precedentemente concordato con gli Accordi di Parigi del 2015. Ma mentre i leader europei sottolineano il successo delle politiche di riduzione delle emissioni e si prefiggono obiettivi sempre più ambiziosi, è interessante mettere in rilievo i fattori principali che hanno inciso fortemente su tale riduzione: un primo fattore sono state le crisi economiche del 2008 e del 2020: la prima innescata dai mutui subprime americani, la seconda dalle politiche di lockdown adottate durante la pandemia da Covid-19.
Un secondo fattore importante è stata la delocalizzazione della produzione favorita dalle misure economico-finanziarie adottate dalla UE per la riduzione delle emissioni: in pratica invece di produrre in casa si importano gli stessi prodotti dai Paesi emergenti, soprattutto dalla Cina, Paese che rappresenta circa il 33% delle emissioni globali (guidando la classifica con ampio margine) e ha sempre rifiutato di porre dei limiti alle proprie emissioni. In pratica la UE sta finanziando con le proprie importazioni l’industria fortemente emissiva di Paesi come la Cina. Come ha riportato Mario Giaccio nel volume “Il climatismo: una nuova ideologia”, l’Europa emette, attraverso la Cina, il 21% all’anno in più di emissioni; annullando e superando perciò la riduzione relativa alla sola produzione interna.
Se i risultati di tante politiche sono contraddittori e gli obiettivi stessi avranno un impatto irrilevante sul clima, l’impegno economico e sociale è enorme, impone sacrifici enormi ai cittadini europei e già sta rivoluzionando i settori energetico, industriale e agricolo. Intanto sono previsti investimenti pari a 260 miliardi di euro l’anno fino al 2030, dove i sacrifici e l’impoverimento per il presente sono “venduti” promettendo un benessere “sostenibile” e in armonia con il pianeta nei prossimi decenni, quando la transizione ecologica sarà completata.
[…] Il punto è che il Green Deal, sebbene adottato nel 2019, è l’ultimo passo di una lunga marcia che l’Unione Europea, indirizzata dai Paesi scandinavi, ha iniziato già negli anni ’90, dapprima sostenendo con entusiasmo il Protocollo di Kyoto (1997), prima applicazione concreta del principio dello sviluppo sostenibile reso universale dalla Conferenza Internazionale dell’ONU su ambiente e sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992.
Ricordiamo che anche Romano Prodi, presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004, si definì pubblicamente «militante di Kyoto» in occasione di un convegno a Roma organizzato da Legambiente nel novembre 2005. E il suo successore José Manuel Barroso ha scritto che «ridurre la pressione europea sulla natura è essenziale per la prosperità dell’Europa e la sua credibilità come leader internazionale nello sviluppo sostenibile».
Si comprende anche da queste parole come l’Unione Europea abbia visto fin dall’origine la realizzazione di misure per lo sviluppo sostenibile una questione di leadership politica mondiale. Al punto che già nel 1997 il concetto di sviluppo sostenibile viene recepito nell’articolo 2 del Trattato di Amsterdam che, entrato poi in vigore il 1° maggio 1999, modifica e integra il Trattato di Maastricht.
Negli anni successivi le posizioni della UE si radicalizzano in tema ambientale, anche grazie all’azione di una ben strutturata lobby ecologista che influenza tutte le decisioni della Commissione: agli inizi degli anni 2000 si costituisce infatti un network di dieci associazioni ambientaliste che si autodefinisce G10 (G sta per Green) che si incaricano di preparare rapporti e dichiarazioni in occasione dei vari vertici e lavorano fianco a fianco con le autorità europee. Le dieci associazioni sono WWF, Greenpeace, BirdLife International, CEE Bankwatch Network, Climate Action Network Europe, European Environmental Bureau, European Federation for Transport & Environment, European Public Health Alliance-Environment Network, Friends of the Earth Europe, International Friends of Nature (per approfondire origine e sviluppi di questa azione di lobby cfr R.Cascioli-A. Gaspari, Le Bugie degli Ambientalisti – 2, Piemme 2006).
Rilevante per il nostro discorso è il fatto che, oltre a influenzare le norme interne dell’Unione Europea, questa azione sfocia nell’iniziativa definita “Diplomazia Verde”, varata dal Consiglio Europeo svoltosi a Salonicco nel giugno 2003, che ha lo scopo di integrare le politiche ambientali nelle relazioni che la UE ha con gli altri Paesi. I capi di governo dell’Europa hanno quindi dato il via al Green Diplomacy Network (Rete per la Diplomazia Verde) con lo scopo di mobilitare tutte le risorse diplomatiche facenti capo all’Europa (ministeri degli Esteri, ambasciate, agenzie di cooperazione e sviluppo internazionale) per promuovere la visione europea sullo sviluppo sostenibile e sull’ambiente. Curioso notare che in quel momento il primo obiettivo di tale azione diplomatica fu convincere la Russia a firmare il Protocollo di Kyoto, obiettivo raggiunto il 30 settembre 2004 e che permise al Protocollo di Kyoto di entrare ufficialmente in vigore il 16 febbraio 2005.
(Foto: Screenshot Youtube Pro Vita & Famiglia)
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