La prova ontologica di S. Anselmo è risolutiva?
Aug 01, 2022di Francesco Lamendola
La cosiddetta prova ontologica di sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109) è stata, praticamente fin dall’inizio, cioè quando, verso il 1077, egli scrisse il Proslogion, al centro di accesi dibattiti fra quanti l’accettavano e quanti non la consideravano realmente risolutiva e negavano che sulla base di essa si potesse affermare razionalmente l’esistenza di Dio.
Anche altri filosofi si erano in precedenza cimentati nello stesso sforzo speculativo, in particolare Parmenide, con la sua filosofia dell’Essere; ma è con la civiltà cristiana che la dimostrazione della esistenza di Dio acquista un carattere di particolare intensità, poiché, anche se quanti trattavano la questione si guardavano bene dal negarla, tanto più che le persone di cultura e di pensiero, fin dopo l’affermazione delle prime università, appartenevano quasi tutte al clero regolare (e, in minor misura, a quello secolare), lo studio di Platone e la riscoperta di Aristotele, perlopiù attraverso la mediazione araba, avevano immesso nella cultura europea una rinnovata esigenza di rigore logico, per cui dichiarare impossibile la dimostrazione dell’esistenza di Dio – ma non, ovviamente, le ragioni di fede a suo favore – appariva come una sconfitta vera e propria di quella ragione naturale della quale Dio stesso ha fatto all’uomo splendido dono appunto perché rafforzi la fede e riduca al silenzio gli atei e gli scettici, peraltro rarissimi e ben dissimulati dietro le interpretazioni averroiste di Aristotele.
A ben guardare, l’essenza del discorso coinvolge il rapporto tra fede e ragione. Nel Monologion (ovvero Soliloquio), Anselmo elabora delle dimostrazioni a posteriori dell’esistenza di Dio, tali cioè da convincere anche il dubbioso: intelligo ut credam, «Comprendo per poter credere»); mentre nelle Proslogion (Colloquio) la dimostrazione è a priori e la prospettiva appare rovesciata: Credo ut intelligam, «Credo per poter comprendere».
Scrive dunque San Anselmo d’Aosta nel secondo capitolo del Proslogion (Migne, P. L., 158, col. 227-228):
Perciò, o Signore, tu che dai comprensione alla fede, fa che io possa comprendere, nella misura nella quale tu pensi mi sia utile, che tu esisti, come crediamo, e che tu sei quello che crediamo.
In realtà, noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si può pensare nulla di maggiore. Forse non esiste una tale natura per il fatto ha detto che «lo stolto ha detto nel suo cuore: Dio non esiste»? Ma, certo, quello stesso stolto quando ascolta ciò che io dico, e cioè l’espressione «qualcosa di cui nulla si può pensare di maggiore», comprende ciò che ascolta; e ciò che egli comprende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quell’essere esista. Altro, infatti, è che una cosa sia nell’intelletto, altro intendere che questa cosa esista. Giacché, quando un pittore si rappresenta ciò che si accinge a dipingere, ha certo nell’intelletto la sua opera, ma non intende che esista quello pera che ancora egli non ha fatto. Invece, quando l’ha già dipinta, non solo l’ha nell’intelletto, ma intende inoltre che l’opera che ha fatto esiste.
Anche lo stolto, dunque, deve ammettere che vi è, almeno nell’intelletto, qualcosa di cui non sui può pensare nulla di maggiore, perché ciò lo comprende nel momento stesso che l’ascolta, e poiché tutto ciò che si comprende è nell’intelletto. Ma quello di cui non si può pensare nulla di maggiore, non può esistere soltanto nell’intelletto. Se, infatti, esistesse solo nell’intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà; e questo sarebbe qualcosa di maggiore. Perciò, se ciò di cui non si può penare nulla di maggiore esiste soltanto nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore sarebbe una cosa della quale se ne può pensare un’altra maggiore. Il che è senza dubbio contraddittorio. Esiste, dunque, indubbiamente, qualcosa di cui non si può pensare nulla di maggiore, ed esiste tanto nell’intelletto quanto nella realtà.
Come è noto, il monaco benedettino Gaunilone (994-1083) dell’abbazia di Mamotiers presso Tours non accettò la prova ontologica di Anselmo e la contestò in radice, scrivendo un apposito libello, il Liber pro insipiente, nel quale affermava che alla intelligibilità di una cosa non corrisponde necessariamente la sua esistenza. E per provarlo fece la famosa similitudine con le isole beate, delle quali non si può pensare alcuna isola che sia maggiore e più perfetta, vale a dire maggiormente beata, senza con ciò aver provato che una tale isola beatissima esista nella realtà; né, anche ammettendolo, che non se ne possa pensare, ancora e sempre, un’altra più beata ancora. Un tal genere di obiezione in effetti era già stata considerata da sant’Anselmo stesso nell’appendice al Proslogion, ritenendo tuttavia d’averla confutata.
Dicono che in un certo luogo dell'Oceano: per la difficoltà o piuttosto per l'impossibilità di trovare quel che non esiste, la chiamano Isola Perduta, favoleggiando che per l'inestimabile abbondanza di ricchezza e di ogni genere di delizie che vi si trovano, sia ancor più doviziosa delle stesse Isole Fortunate non ha padroni né abitanti, e supera ogni terra abitata per la straordinaria abbondanza di ogni bene (cit. da Wikipedia).
Ma lasciamo che la disputa fra sant’Anselmo e Gaunilone sia rievocata da Paolo Minotti e Valter Moro (in: Rendere ragione. Corso di religione cattolica per il Triennio, Marietti Scuola, 1992, e Petrini Editore, Torino, 1994, pp. 144-145; da qui abbiamo tratto anche la citazione del Migne dello stesso S. Anselmo):
Alla dimostrazione di Anselmo il monaco Gaunilone oppone l’argomento che l’idea di Dio come essere perfettissimo è priva di ogni garanzia di oggettività perché dell’essere perfettissimo non si ha esperienza e inoltre se anche si ammettesse l’idea di Dio come essere perfettissimo non ne deriverebbe necessariamente l’esistenza come dall’idea delle isole beate, le più perfette delle isole, non ne segue che queste necessariamente esistano anche nella realtà.
La risposta alla confutazione di Gaunilone da parte di Anselmo spiega che non sempre vi è necessità logica tra l’idea di “perfezione” e l’esistenza ma solo per l’ente che raccoglie in sé ogni perfezione.
Ed ecco la risposta di Sant’Anselmo nelle sue stesse parole (nel Liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro insipiente, 4-5, trad. T. Gregory citato in Michele Federico Sciacca (a cura di), Con Dio e contro Dio. Raccolta sistematica degli argomenti pro e contro l’esistenza di Dio, Marzorati, Milano, 1990, vol. I, p. 209; la nostra citazione è sempre da P. Minotti e V. Moro, op. cit., p. 145):
Tu spesso mi fai dire che l’ente più grande di tutti è nell’intelletto, e se è nell’intelletto è anche nella realtà, altrimenti ciò che è il più grande di tutti non sarebbe il più grande di tutti, ma in nessun passo del mio scritto si può trovare tale argomento. Infatti, non è la stesa cosa dire «il più grande di tutti», e «ciò di cui non si può pensare il maggiore», per dimostrare che questo ente esiste anche in realtà. Se infatti qualcuno dice che ciò di cui non si può pensare il maggiore non esiste in realtà, o può non esistere, o almeno può venir pensato non esistente, lo si può facilmente confutare. Infatti ciò che non è, può non essere, e ciò che può essere, può venir pensato non esistente, Qualsiasi cosa che può venir pensato non esistente, se è, non è ciò di cui non si può pensare il maggiore; perché, giacché non è, se fosse, certamente non sarebbe ciò di cui non si può pensare il maggiore, se è, non è ciò, di cui non si può pensare il maggiore, o che, se fosse, non sarebbe ciò di cui non si può pensare il maggiore: è dunque chiaro che né esso non è, né può non essere o venir pensato non esistente; altrimenti se esso è, non è ciò che si dice, e se fosse, non lo sarebbe. Ma la stessa argomentazione non regge a proposito dell’ente che si dice maggiore di tutti, infatti non è così chiaro che ciò che può venir pensato come non esistente non è il più grande di tutti, come è invece chiaro a proposito dell’ente di cui non si può pensare il maggiore.
Alcuni dei maggiori filosofi delle epoche successive hanno negato carattere risolutivo alla prova ontologica di san Anselmo d’Aosta, e fra essi san Tommaso d’Aquino, il quale osserva acutamente che una prova che sia solo a priori si colloca sul piano dell’assoluto, che è il piano di Dio stesso, ma non è tale per gli uomini, i quali sono immersi nel relativo e la cui conoscenza necessariamente deve partire dai dati dell’esperienza: nisi in intellectu quod prius non fuerit in sensu («nulla vi è nella mente che non sia passato attraverso i sensi»). Altri l’hanno sostanzialmente accolta, sia pure modificandola e adattandola alla loro particolare prospettiva, come Cartesio, il quale afferma che Dio, essendo per definizione la somma di tutte le perfezioni, non può mancare di quella perfezione che è l’esistenza. E aggiunge, nelle Meditazioni metafisiche (V,9), con tipica spiritosaggine francese (brillante, ma non troppo profonda, e filosoficamente nulla), che pensare un Dio perfettissimo, privo tuttavia dell’esistenza, sarebbe lo stesso che pensare un monte senza valle. Resta il fatto che, per Cartesio, tutto l’edificio del conoscere e della realtà poggia sul cogito soggettivo, per cui il suo pensiero resta preso nel circolo vizioso di porre l’io per poter porre tutto il resto, e al tempo stesso di porre Dio per garantire l’io. A quel punto, però, non si capisce a cosa gli serva dimostrare l’esistenza di Dio, visto che l’esistenza dell’io, col suo cogito, a lui sembra già sufficiente a garantire ogni altra cosa.
Non è questa la sede per discutere ciò che Leibniz, Kant, Hegel e Schelling han detto, direttamente o indirettamente, circa la prova ontologica; proviamo piuttosto a riflettervi noi stessi. Anselmo imposta tutta la sua dimostrazione partendo dall’assunto che di Dio, se esiste, non si può pensare nulla di più grande: e giunge facilmente alla conclusione che la sola cosa più grande di un Dio meramente intelligibile è un Dio davvero esistente. Tutto però si basa su quel condizionale, se Dio esiste, che rende vana ogni pretesa di dimostrazione: almeno se la logica si applica al mondo reale e non solo ad una realtà astratta ove non esiste alcuna distanza fra il dover essere e l’essere effettivo. Secondo il classico enunciato del teorema di Pitagora, ad esempio, in ogni triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. Ora, ciò è senza dubbio vero: ma lo è solo nella geometria, che è fatta a sua volta di assiomi e postulati; anzi è vero solo in quella particolare forma di geometria che è quella di Euclide. Ma vero anche nella realtà? Certamente no, e per la buona ragione che, nella realtà, figure perfette come quelle geometriche, costruite a partire da punti e da rette, semirette o segmenti ideali, non ce ne sono. Ora, anche la “prova” di Anselmo, a nostro giudizio, appartiene a quel mondo ideale e perfetto che è, analogamente alla matematica, il mondo della logica formale. E come la matematica (e la geometria), anch’esso ha bisogno di assiomi e postulati: ad esempio del presupposto, sia pure condizionato, che Dio esista. Infatti è vero che si può rifiutare la sua dimostrazione, argomentando che negare Dio è come negare qualcosa che si pone, sia pure implicitamente e involontariamente, come reale, poiché nessuno si sognerebbe di negare il non essere, cioè il nulla. Ma questo è un ragionamento valido nel campo della logica formale, fatta di a priori: mentre il mondo che noi diciamo reale è fatto di osservazioni e ragionamenti costruiti sull’a posteriori, vale a dire partendo dal dato sensibile.
Lasciando da parte la soluzione proposta da Kant coi suoi giudizi sintetici a priori, che sono qualcosa di simile a un escamotage linguistico, perché di fatto i giudizi sono o sintetici, cioè costruiti sull’esperienza sensibile e quindi a posteriori oppure meramente mentali e dunque a priori, come appunto quelli della matematica, resta il fatto che non si può dimostrare l’esistenza di Dio presupponendo però, per necessità logica, la sua esistenza. Molto più accettabile è il metodo intrapreso da san Tommaso, il quale, infatti, non parla di prove dell’esistenza di Dio, bensì di vie (cinque) che permettono d’intravvedere ciò che la ragione, giudicando a priori, non può collocare sul terreno concreto dell’esistenza. In fondo la “prova” di sant’Anselmo è una dimostrazione per assurdo, basata sul principio (a priori) di non contraddizione, valido nel campo della logica ma non della realtà empirica, e su quello del terzo escluso, secondo il quale l’opposto di un’affermazione falsa deve per forza esser vero. Il che di per sé mostra la necessità logica della realtà di Dio, ma non la sua esistenza effettiva. Come vide san Tommaso, si deve procedere sia a priori che a posteriori...
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