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La nostra civiltà letteraria? È tutta da riscrivere

francesco lamendola Dec 19, 2022

di Francesco Lamendola

Siamo sicuri che quel che impariamo a scuola; quel che viene insegnato ai nostri figli alle medie, al liceo e all’università rispecchi fedelmente lo sviluppo della  nostra civiltà letteraria (per limitarci a parlare di quella); che evidenzi e valorizzi i movimenti, gli autori e le opere più significativi, quelli che hanno dato il contributo più fecondo e più originale all’insieme della nostre lettere e della nostra cultura, e, attraverso questa, alla nostra società? Siamo sicuri che a restarne fuori, esclusi, dimenticati, siano stati gli scrittori e i testi di minor valore, i più superficiali, i più trascurabili, quelli insomma che hanno seguito le mode ma che non hanno saputo interpretare per niente il sentire profondo del nostro popolo, i suoi valori, il suo orizzonte esistenziale?

Il dubbio è più che legittimo confrontando i libri scolastici di quando eravamo ragazzi con quelli di oggi, che abbiamo passato la sessantina. In meno di due generazioni certi nomi che parevano irrinunciabili sono gradualmente scivolati nell’oblio; altri, sbucati fuori quasi dal  nulla, ne hanno preso il posto; e ora anche questa seconda tornata mostra segni d’indebolimento e di crisi. In genere, si nota che agli scrittori “individualisti”, quelli che si limitavano a parlare di tematiche personali, o a descrivere la vita così com’è, alla Cechov, si sono sovrapposti gli scrittori “impegnati”, socialmente arrabbiati, contestatori, sprezzanti di ogni traduzione e specialmente dei detestati valori borghesi: Dio, patria e famiglia. Ma negli ultimi anni si notano segni di riflusso: il marxismo duro e puro è passato di moda, ha fallito troppe volte per essere ancora credibile, e sia pure in salsa ereticale: piuttosto si nota una curiosa convergenza fra il vecchio liberalismo, che dopotutto garantisce un certo grado di libertà a tutti, e il vecchio comunismo, magari in versione cattolica e populista, che tiene alta, almeno a parole, la bandiera della giustizia e della fraternità. Sono i miracoli della Scuola di Francoforte: vino nuovo in otri vecchi.

E dunque, proviamo a riconsiderare la nostra civiltà letteraria, partendo da Dante e Petrarca, ma con speciale attenzione agli ultimi centocinquanta anni, per vedere se gli scrittori che vanno per la maggiore siano davvero degni di occupare le posizioni che occupano, di far tanto parlare di sé, di dare il tono all’insieme del dibattito letterario, sia sul piano specifico della forma (del romanzo, del racconto, del verso), sia su quello ideologico dei contenuti, del ruolo dello scrittore nella società, degli obiettivi che si deve prefiggere la diffusione della cultura. E proviamo a vedere se e quanto ha pesato, nell’apprezzamento dei nostri scrittori, il giudizio ideologizzato della critica straniera; un po’ come ha pesato, se ci si consente l’accostamento, il giudizio politico, nel 1945, di governi stranieri su uomini politici italiani che avevano scelto la via dell’esilio per diffondere l’immagine di un Paese (che non conoscevano più da vent’anni) soffocato nelle spire di un regime totalitario intollerabile, mentre la stragrande maggioranza di quel popolo viveva la sua vita tranquillamente e non aveva mai avuto tanta fiducia nel proprio governo (né mai l’avrebbe avuta in seguito) di quanta ne avesse allora

Per fare un esempio concreto e così spiegare meglio quel che intendiamo dire, prendiamo il caso di quello che ci è sempre stato presentato come un meteorico caso letterario: quello di Aron Hector Schmitz, nome assai poco italiano di quello che tutti gli studenti conoscono con lo pseudonimo di Italo Svevo. Dominato dal demone della scrittura, aveva stampato a sue spese, e pubblicato in un ristretto numero di esemplari, due romanzi dalle tinte fortemente autobiografiche, che muovevano (specie il primo) da un clima naturalista alla Zola per immergersi nei gorghi del sottosuolo dostoevskiano, ma senza la genialità di Dostoevskij, soprattutto senza neppure l’ombra della sua forte problematica morale, anzi con un tono di grigiore quasi crepuscolare; ma, in compenso, immettendovi a piene mani il nuovo verbo di salvezza della psicoanalisi freudiana, un po’ come Arthur Schnitzler, ma con meno leggerezza e più pedanteria e ipocondria. Entrambi, Una vita (1892) e Senilità (1898) erano scivolati via del tutto inosservati.

Le cose stavano a questo punto e l’autore si era concentrato sulle sue attività commerciali e sul violino, quando, nella sua Trieste, decise di prendere lezioni private per migliorare la sua pratica dell’inglese, incontrando così James Joyce, che aveva eletto la città giuliana sua seconda patria, per poi recarsi a Vienna con l’intenzione di farsi curare da Freud, del quale aveva tradotto L’interpretazione dei sogni, ma dovendo “accontentarsi” del suo discepolo Wilhelm Stekel. Joyce frattanto lo ha incoraggiato a persistere con la letteratura, ed egli scrive il suo terzo romanzo, La coscienza di Zeno, nel 1923. Di nuovo senza successo. Ma a questo punto Svevo non è più un signor nessuno; ha amici che contano nella cultura internazionale, e Joyce “passa” il romanzo ad alcuni critici parigini molto importanti, in particolare Valéry Larbaud che lo recensisce sulla prestigiosa Nouvelle Revue Française, e Bénjamin Crèmieux.

Ed ecco il colpo di fulmine: scoppia il “caso “Svevo” e si accende la polemica intorno a questo sconosciuto. Il solo Montale ne prende le difese fin da subito; altri si mostrano assai poco convinti e fanno notare, fra l’altro, che Svevo scrive piuttosto male, in un italiano da ufficio di copisteria, e che le vicende narrate sono prolisse, stranamente ironiche, quasi sconclusionate, insomma senza capo né coda. Qualcuno si incuriosisce per il fatto che la critica straniera d’avanguardia “decida” di proiettare uno scrittore italiano, che parla e scrive l’italiano, da sempre, come una seconda lingua, al vertice dell’Olimpo letterario (una critica spocchiosa che, per dirne una, non si è affatto accorta d’un grandissimo scrittore come Federigo Tozzi, né di un poeta come Dino Campana) e si chiede se non sarebbe il caso che la critica di ciascun Paese non s’interessasse maggiormente ai fatti di casa propria, dei quali, si presume, dovrebbe avere maggiore competenza. Per cui la situazione che viene a crearsi è di fatto la seguente: o unirsi al coro delle lodi incondizionate, riconoscendo che i critici e gli scrittori italiani erano stati i soliti “provinciali” e non avevano saputo riconoscere il cigno in mezzo ai brutti anatroccoli, vuoi per distrazione, vuoi per piccineria e segreta invidia; o persistere in un atteggiamento cauto, prudente, attirandosi non solo il sospetto d’essere invidiosi del nuovo arrivato, ma anche l’accusa di credersi più bravi e intelligenti di gente come Joyce, Larbaud e Crémieux.

Vale tuttavia la pena di porsi questa domanda: quando il fior fiore della critica francese decideva di promuovere Svevo al livello di grande scrittore europeo, che cosa precisamente rilevava ed apprezzare nel suo modo di scrivere? Senza scomodare complotti massonici o simili, ma restando sul puro e semplice terreno delle simpatie e delle analogie obiettive: che cos’hanno in comune le opere di Joyce, di Kafka, di Musil, di Proust, di Woolff, a parte i monologhi interiori, i flussi di coscienza, la figura dell’inetto, la nevrosi e così via? Il primo elemento comune è la totale assenza di Dio, del sacro, della trascendenza. Il secondo è la visione “liquida” dell’esistenza e la frammentazione dell’io, ridotto a un fascio di emozioni e di dì sensazioni e sostanzialmente privato della via unitaria della coscienza. Il terzo elemento è l’insignificanza del tutto, l’insignificanza del vivere, l’inutilità di desideri e ambizioni, la mancanza di libero arbitrio, l’imprevedibilità del reale, la maniera casuale (e non di rado grottesca) con cui le cose accadono, in apparenza senza che siano state scelte, che siano state decise e volute. Tutto questo non va soltanto contro la tradizione, specificamente la tradizione religiosa e morale e la stessa tradizione estetico e letteraria, che contiene pur sempre un senso e degli insegnamenti (mentre nella rivisitazione parodistica dell’Odissea fatta nell’Ulysses mancano sia l’uno che gli altri), ma contro l’istinto più elementare del vivere, contro tutto ciò che dà una qualità umana all’esistenza, contro un qualunque orizzonte di speranza. Precorrendo Sartre, i personaggi di questi scrittori si muovono come manichini allucinati in un mondo nel quale a stento si rendono contro d’essere ancora vivi, più che altro per il gioco di reazioni quasi meccaniche che scaturiscono dai loro reciproci urti (Quando noi morti ci destiamo, per citare il titolo dell’ultimo dramma di Ibsen, del 1899).

Tutto questo potrà anche suscitare un certo interesse (in un certo tipo d’intelligenze, attratte appunto dal patologico, come i freudiani)., Ma cosa ha a che fare coi bisogni veri, coi sentimenti autentici, con il senso della vita ed il radicamento in essa di un popolo, come quello italiano, la cui società è ancora fortemente caratterizzata in senso cattolico, rurale, pre-moderno, familiare e locale quale contributo positivo può dare all’operaio, al contadino, al padre di famiglia?

Queste riflessioni, peraltro ovvie, se non fossero state cloroformizzate da quasi un secolo di saccente cultura progressista, ci sono tornate spontanee alla mente leggendo con estremo piacere, e quasi con incredulità, il profilo riservato a Italo Svevo nel sintetico, ma chiaro e ben fatto Compendio di storia della letteratura italiana di Giulio Dolci (1883-1965), un critico e letterato livornese del quale si è altrimenti perduta la memoria e che solo una modesta iscrizione ricorda sulla facciata di casa sua, in Piazza 2 Giugno, al n. 23 (Milano, Casa Editrice La Prora, 1954, pp. 592-593), espresso con una semplicità e una naturalezza che, appena qualche anno dopo, sarebbero state pressoché impossibili, poiché avrebbero scatenato l’ira della muta conformista e politicamente corretta che si andava proprio allora consolidando:

Nel 1926 uno scrittore francese, il Crémieux, scoprì e rivelò la novità dell’arte di Italo Svevo di cui gli Italiani non si erano accorti.

Il triestino Italo Svevo, al secolo Ettore Schmitz (1861-19289, è stato il primo autore, cronologicamente parlando, di quell’arte, non solo italiana, ma europea, che si addentra nei sotterranei della coscienza, dell’anima, e ce ha trovato in Proust, Joyce e Freud i suoi più noti teorici e attuatori, l’arte della Psicanalisi.

Italo Svevo è di razza ebraica, di educazione in parte slava [meglio: tedesca], in parte italiana: le complicazioni psicologiche che caratterizzano la sua arte sono forse spiegabili da questa mescolanza che non si svolge in limpida e serena corrente, ma rimane piuttosto limacciosa. Voglio dire che l’arte dello Svevo ha carattere individuale, si basa sull’analisi del proprio, Io complicato e non si slarga su terreno sociale e umano.

Ne4l 1892 lo Svevo scrive il suo primo romanzo, “Una vita”, nel 1898 il secondo, “Senilità”. Incompreso, nel momento in cui trionfava il dannunzianesimo, si dà a vita pratica da uomo d’affari. Quando conosce le teorie del consanguineo Freud, comprende meglio se stesso e scrive con più abilità letteraria, ma forse non con più drammaticità e potenza, “La Coscienza di Zeno” (1928). Conosciuto e ammirato prima da critici stranieri, acquista a un tratto fama europea di precursore dell’intimismo, della psicanalisi, del romanzo “monologo interiore”. L’arte di lui, fondamentalmente pessimistica, lascia la bocca amara.

E come potrebbe non lasciare la bocca amara l’arte di uno scrittore che, dopo aver descritto l’assurdo suicidio del suo primo, ventenne protagonista (Alfonso Nitti), indi il suicidio morale del secondo, il trentacinquenne Emilio Brentani, nel terzo ci mostra un uomo adulto che giunge, sì, ma per sbaglio, alla sicurezza e al benessere, e nondimeno conclude le sue solitarie elucubrazioni fantasticando il suicidio collettivo dell’umanità, in una scena apocalittica che non solo Leopardi e Schopenhauer, ma lo stesso Eduard von Hartmann, avrebbe lasciato senza parole?

Qualunque sforzo di darci la salute è vano.  Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. (…) Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al  quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quasi innocenti giocattoli,. Ed un uomo fatto anche lui come gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.

Non è curioso che più d’un secolo fa questo sconosciuto romanzo sia stato innalzato ai massimi onori della critica internazionale? Un romanzo nel quale non si profetizzava, è vero, che per vivere l’uomo avrebbe finito col nutrirsi di scarafaggi e cavallette, ma in compenso, avrebbe avuto il buon senso e la decenza di levare il disturbo in massa, liberando la Terra dal suo molesto parassitismo? 100 anni prima di Klaus Schwab e dei teorici del Great Reset qualcuno forse già studiava il terreno...

 

 

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