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La leggenda di Pilato e la coda di paglia dei moderni

francesco lamendola Nov 16, 2022

di Francesco Lamendola

Ci sono numerose località, in Europa, legate alla memoria di Ponzio Pilato: tutte avvolte da fosche leggende e da un senso del meraviglioso che sconfina nel pauroso e nell’orrido. La sentenza ipocrita e vile da lui pronunciata (Io non trovo alcuna colpa in quest’uomo: è scritto nei Vangeli, Luca, 23, 22, con buona pace di quanti vorrebbero espungere quella frase, per togliere la responsabilità dei   fratelli maggiori) pesa sul suo ricordo e, si suppose a lungo, deve aver pesato anche sulla sua coscienza, fino a spingerlo al suicidio o ad un irrevocabile ritiro espiatorio in qualche località solitaria, la più lontana possibile dal luogo ove aveva giudicato Gesù Cristo e anche dal consorzio degli uomini. Nel romanzo di Michail Bulgakov Il Maestro e Margherita c’è ancora un’eco di quella credenza, sopravvissuta per secoli, laddove vediamo un Pilato che cerca angosciosamente la pace e il perdono da parte di Colui che ebbe la colpa di far condannare, pur avendolo trovato innocente.

Fra le varie località in questione, possiamo ricordare il Mont Pilat nel Massiccio Centrale francese, a ovest del Rodano, formato dalle due cime del Perdrix e dell’Oeillon, ove si narra che Pilato sia stato sepolto; il Mont-Pilate sopra Lucerna, in Svizzera, anticamente conosciuto anche come Mons Fractus (Montagna Spezzata), ove Pilato sarebbe stato sepolto nell’ormai scomparso Pilatussee presso Oberalp; e, in Italia, fra le altre località, il Lago di Pilato situato in un circo glaciale dei Monti Sibillini, anch’esso legato a un racconto che lo designa come il luogo dell’ultima dimora del procuratore romano. È chiaro che si tratta di tradizioni leggendarie, anche se non è possibile escludere che, per uno almeno di questi luoghi, vi sia un qualche fondamento storico, poi abbellito dalla pietà dei cristiani: dopotutto, non è affatto inverosimile che Pilato, dopo aver lasciato il suo incarico di prefetto della Giudea, si sia ritirato, forse politicamente in disgrazia, in qualche località dell’Italia (il nome parrebbe di origine sannita) o della Gallia. Certo è che presso le Chiese orientali la sua figura ha conosciuto un processo di profonda rielaborazione, tanto che la Chiesa etiope lo venera come santo, ovviamente dopo la sua conversione al cristianesimo, e quella copta addirittura come martire della fede.

D’altra parte, proprio la sua figura e la valutazione complessiva della sua personalità ha scatenato la critica dei teologi e dei biblisti progressisti, i quali sono giunti a negare l’attendibilità storica dei Vangeli là dove si descrive il suo ruolo nel processo e nella Passione di Gesù Cristo, evidenziano numerose apparenti incongruenze fra ciò che si sa di lui dalle fonti non cristiane (specialmente da Giuseppe Flavio) e ciò che ne dicono gli evangelisti. In particolare, i suddetti studiosi mirano a sostenere che i Vangeli hanno voluto lasciare un’immagine edulcorata e nel complesso favorevole di Pilato, allo scopo d’ingraziarsi, o quanto meno di non inimicarsi, il potere romano, e per conseguenza addossando ogni responsabilità nella condanna di Cristo al Sinedrio e al popolo di Gerusalemme. Se volete far infuriare i cattolici liberali e i teologi modernizzanti (per non dire modernisti), provate ad affermare che i Vangeli vanno letti ed accettati come documenti assolutamente attendibili in tutto e per tutto, compreso il racconto della Passione: è allora che li vedrete montare su tutte le furie e asserire, con estrema sicurezza, che no, i Vangeli, almeno in quel caso, non sono delle fonti degne di fede sul piano storico. Strano, perché fino al 1965, al Concilio e alla Nostra Aetate, nessun teologo, nessun biblista, nessun vescovo e nessun papa avevano mai sostenuto una tesi del genere: al contrario,  avevano sempre affermato ed insegnato solennemente la versione opposta.

Così descrive la tradizione legata al Mont-Pilate presso Lucerna, Franco de Battaglia in Le Alpi, cerniera d’Europa (in: A.A. V.V., Montagne del mondo, supplemento ad Alto Adige, Trentino, Corriere delle Alpi, Bolzano, Seta Editore S.p.A., 2002, pp. 196-197):

Lungo la catena alpina si trovano numerose montagne sacre; alcune ammantate di leggende ispirate da eventi  meravigliosi o divini, altre di stampo terribile o diabolico.

Nelle Alpi Bernesi, presso Lucerna, si trova il Mont-Pilate (2132 m.), luogo di terribili apparizioni e fenomeni soprannaturali fin dal Medioevo. Rielaborando la tradizione cristiana, l’immaginario popolare ha costruito una leggenda, con numerose varianti, sull’ultima parte della vita di Ponzio Pilato. Il procuratore della Giudea, Ponzio Pilato, dopo aver rinviato Gesù a Erode con la celebre frase : «Io sono innocente del sangue di questo giusto», scelse l’esilio sulle Alpi per scampare a una condanna a morte.

Secondo una variante locale piemontese-valdostana, Pilato giunse in Valle D’Aosta e qui, stanco del lungo peregrinare, sui fermò nei pressi di Nus, allo sbocco della valle di St. Barthélemy (nove miglia romane da Aosta, da cui il nome del paesino) e qui riposò in uno strano castello sormontato da due tori cilindriche.

Il corpo principale della leggenda narra che Pilato, tormentato dal rimorso, giunse a Vienna e si uccise. Venne gettato in  un corso d’acqua ma, benché appesantito da pietre, il corpo riemerse. Venne allora gettato in altri corsi d’acqua, Ma continuava a tornare a galla, accompagnato da violenti fenomeni atmosferici. Infine venne gettato in un laghetto del Mont-Pilate. Non riemerse più, ma il luogo cadde sotto una maledizione. Sulla montagna si abbatterono violente tempeste e bufere; nei villaggi circostanti accaddero morti inspiegabili. Il laghetto periodicamente si ingrossava inondando i campi e distruggendo le abitazioni. Un coraggioso prete impegnò una terribile lotta contro le acque maledette, finché riuscì ad esorcizzarlo. Pilato accettò di non arrecare più danni, a patto che ogni Venerdì Santo potesse apparire assiso in trono sulle acque del lago.

I racconti di terribili eventi però continuarono. Pare che qualche incauto viandante avesse gettato delle pietre nel laghetto  per schernire Pilato e che la su anima dannata avesse ripreso a scatenare gli elementi naturali. Per porre termine a queste provocazioni le autorità del luogo proibirono di avvicinarsi al monte privi di guida. Le guide dovevano soprattutto vigilare per impedire i lanci di pietre nel laghetto. Nel 1387 sei chierici tentarono la scalata al monte senza guida e senza autorizzazione: vennero arrestati.

Nel 1518 Joachim von Watt sfidò la leggenda e, grazie ad una speciale autorizzazione, scalò una delle cime del monte. Lo seguì, qualche anno dopo, nel 1555, il naturalista svizzero Conrad Gesner; autore di una lettera sull’ammirazione delle montagne inviata a Jacobus Vogel (Iacobus Avienus) e pubblicata nel 1541 a proemio del “Libellus del lacte…”, considerata la ‘carta’ dellì’alpinismo per la lirica descrizione delle montagne, ma anche per il piacere che si prova nel corso della salita, un sentimento del tutto nuovo, quasi moderno. Nello stesso anno dell’ascensione al Mont-Pilate, Gesner pubblicò la relazione della salita: “Descriptio Montis Fracti, sive Montis Pilati….”.

Come accennato, la leggenda ha numerose varianti di luogo e di particolari: l’elemento costante è rappresentato dal Mont-Pilate e dall’acqua. L’acqua del fiume (Rodano o altro) e del laghetto del Mont-Pilate, o quella del Tevere, del Mediterraneo, del Lago dei Quattro Cantoni ecc. nelle varianti. l’immersione nel corso d’acqua simbolizza il tentativo di purificazione di un corpo, di un’anima dannata. L’acqua è l’elemento purificatore per eccellenza (battesimo), “lava” i peccati umani e introduce alla bontà divina. Le proprietà simboliche dell’acqua sono comuni  a molte leggende alpine ispirate da laghi e corsi d’acqua, evidenti trasposizioni etniche locali su un comune substrato religioso. Così come l’acqua, anche il ghiaccio raccolto sulle cime racchiude proprietà miracolose che si conservano anche se il ghiaccio viene portato a valle.

Il fantasma del Mont-Pilate è stato ormai sconfitto dal progresso: ormai una funivia Sale da Kriens e da Lucerna parte un trenino collegato alla cremagliera di Alpnachstad che sale in vetta. In cima, un imponente complesso alberghiero dotato di “ogni comfort” ha sfatato la leggenda.

Come abbiamo detto, una leggenda simile esiste, in Italia, a proposito del Lago di Pilato, nei Monti Sibillini, e di un altro Lago di Pilato, oggi noto come Lago Scaffaiolo, alle pendici dell’Appennino modenese, del quale ha lasciato testimonianza anche Giovanni Boccaccio (vedi Arturo Graf, Un monte di Pilato in Italia, Torino, Loescher, 1889).

Riguardo al primo, quello dei Monti Sibillini, ci permettiamo di riportare ciò che dice la relativa voce di Wikipedia:

Nella tradizione il lago è considerato un luogo misterioso, magico e demoniaco. Prende infatti il suo nome da una leggenda secondo la quale nelle sue acque sarebbe finito il corpo di Ponzio Pilato, il quale venne giustiziato per ordine dell’imperatore Tito Vespasiano per non aver impedito la crocifissione di Gesù, e fu in seguito caricato su un carro trainato da due bufale che da Roma lo trasportarono fino ai Monti Sibillini e si gettarono infine nel lago. Modifiche recenti del racconto vorrebbero che i bufali si gettarono dall'affilata cresta della Cima del Redentore, dove ancora sarebbero visibili le rotate del carro.

A partire dal XIII secolo almeno, il lago era luogo di ritrovo di negromanti che vi salivano a consacrare libri di magia ai demoni che ne abitavano le acque. Ogni volta che qualcuno evocava gli spiriti maligni del lago si scatenavano violente tempeste che distruggevano i raccolti della zona, e tale era l'afflusso di questi negromanti da costringere le autorità politiche e religiose del tempo a proibirne l'accesso e a far porre una forca, all'inizio della valle, come monito; intorno al bacino furono alzati muri a secco al fine di evitare il raggiungimento delle sue acque. Antoine de la Sale racconta che per visitare il lago nel 1420 gli fu necessario richiedere un salvacondotto alle autorità della città di Norcia, in quanto chi venisse sorpreso presso il lago senza autorizzazione avrebbe perfino rischiato la vita.

«...se vi scopre qualcuno è male accolto (...) Non è molto che vi sorpresero due uomini, uno dei quali era un prete. Questo prete fu condotta a Norza  e là martirizzato e bruciato; l'altro fu tagliato a pezzi e gettato nel lago da quelli che l'avevano preso.»

(Antoine De la Sale, Il Paradiso della Regina Sibilla, 1421)

Queste leggende odiernamente note ci sono pervenute solo con la recente riscoperta del testo del Paradiso della Regina Sibilla di Antoine de la Sale. Alla fine del scolo XII infatti il professore Vincenzo Ghinassi di Spoleto  riferisce che la tradizione popolare di allora avesse dimenticato la leggenda del corpo di Pilato, e che le voci del tempo tramandassero invece una leggenda diversa: nel momento in cui avveniva la crocifissione di Cristo, i montanari della zona videro che la Sibilla  era fuggita dalla sua grotta, e notarono che l'acqua del lago rosseggiava come se fosse insanguinata, ed inoltre da quel momento intorno alle rive iniziò a germogliare una pianticella le cui foglie hanno le sembianze di due mani riunite per il dorso, nelle quali la fantasia popolare riconobbe le mani del Redentore, congiunte insieme e perforate dai chiodi. Questi eventi impressionarono l'animo degli abitanti della montagna i quali battezzarono il lago col nome di Pilato, il quale fece eseguire la sentenza di morte contro il Nazareno. Si conservava invece memoria delle storie legate alle presenze demoniache del lago: i vecchi montanari affermavano di avervi veduto qualche volta dei pesci di forme stranissime nuotare nelle acque; questi pesci sarebbero una reminiscenza degli antichi demoni.

Altro nome usato per il lago fino almeno al secolo XV  era quello di Lago della Sibilla, come si evince da un disegno di Antoine de la Sale riportato ne Il Paradiso della Regina Sibilla (1420) e da una sentenza di assoluzione del 1452, in cui l'inquisitore della Marca Anconitana  De Guardariis assolve la popolazione di Montemonaco dalla scomunica in cui era incorsa per aver accompagnato "ad lacum Sibyllae" cavalieri stranieri "provenienti dalla Spagna e dal Regno di Napoli" per consacrarvi libri proibiti, mentre li ospitavano in Montemonaco ove praticavano, in casa di Ser Catarino, alchimista.

Nel museo della Grotta della Sibilla, presso Montemonaco, è custodita una pietra scura, detta "La Gran Pietra", che reca incise lettere misteriose e rinvenuta nei pressi del Lago. Secondo la leggenda questo sarebbe il lago Averno da cui si entra nel mondo degli Inferi.

Invece la localizzazione tradizionale del Lago d’Averno (nome che, dal greco, significa senza uccelli), luogo di accesso all’aldilà, come si sa, è presso Cuma, in Campania, entro un cratere vulcanico spento, come narra anche Virgilio nel sesto canto dell’Eneide; anch’esso ha conservato a lungo un alone fantastico, anche per il verificarsi del raro e affascinante fenomeno atmosferico della Fata Morgana.

Come si vede, l’antropologia culturale vede nella diffusione delle tradizioni riguardanti la sepoltura di Pilato in numerose località italiane ed europee null’altro che leggende superstiziose che si sono gradualmente dissipate con il progredire della modernità e, in particolare, con la conquista delle vette alpine e l’antropizzazione delle zone montane un tempo evitate dall’uomo per ragioni essenzialmente pratiche ed economiche, ma attorno alle quali si era formata un’aura di mistero e di magia (si confronti la celebre epistola sull’ascensione al Monte Ventoso di Francesco Petrarca, datata 1336, ma che numerosi filologi tendono a spostare a una data alquanto più tarda, cioè al 1352 o 1353). Contrariamente alle tradizioni della cristianità orientale, si trattava di un’aura malefica, legata a un ricordo – e a un giudizio – fortemente negativo della figura di Ponzio Pilato. Si pensi, su un altro piano, prevalentemente profano, o comunque laico, alla fama sinistra che avvolge il Monte Musinè, quasi alle porte di Torino, dovuta a racconti che si sono aggiornati ai nostri tempi, con storie di extraterrestri e dischi volanti, a testimoniare la loro tenace persistenza e la camaleontica capacità di adattamento.

E qui entriamo nel vivo della questione. L’antropologia è una (pseudo)scienza molto giovane: nasce all’ombra di Buffon e di Lamarck, cioè all’ombra di Rousseau e del mito del “buon selvaggio”, e, come tutti i discorsi a tesi, ispirati a una precisa ideologia, ritiene di aver già davanti a sé tutti gli elementi da studiare, e che si tratti solo di metterli in fila, di catalogarli, per avere la spiegazione di ogni cosa. In altre parole, credendosi appunto una scienza, mentre non lo è, l’antropologia ritiene di avere per oggetto, cartesianamente, solo idee chiare e distinte, nelle quali non c’è posto per il mistero. E qui sta il suo errore capitale, poiché essa pretende di studiare scientificamente l’uomo, ma l’uomo è un mistero anche a se stesso, e dunque non può essere compreso, se non in termini estremamente superficiali (e dunque fuorvianti), con i soli strumenti della scienza. L’uomo è un oggetto, oltre che un soggetto di ricerca, che eccede di gran lunga gli schemi e le pratiche con le quali si possono studiare – e comprendere, almeno fino a un certo punto - gli altri oggetti dei quali fa esperienza.

L’antropologo, per esempio, osserva che fino al 1300 l’accesso al Mont-Pilat era interdetto alle persone comuni perché quel luogo era ritenuto malefico e pericoloso; ma poi, con il Rinascimento, l’uomo ha ritrovato piena fiducia in se stesso, ha deciso di abbattere i limiti e di conquistare quel posto centrale nel creato che riteneva spettargli di diritto, senza riconoscere alcuna autorità sopra di sé. Da quel momento i fantasmi sono spariti, le paure si sono acquietate e ora, a suggello del suo trionfo, un magnifico albergo di lusso s’innalza sul Mont-Pilate, dopo che la ferrovia e la funivia hanno aperto la strada al progresso. Dunque, conclude l’antropologo, fregandosi le mani per la soddisfazione, con l’aria di dire: «Vedete?, avete visto?, ve lo dicevo, io!», si tratta solo di leggende e superstizioni: qualcosa che per secoli aveva fatto velo allo sguardo sul mondo da parte dell’uomo medievale. E quando è arrivata la Ragione, la Ragione libera e spregiudicata, l’uomo, come dice Kant, è uscito dallo stato di minorità nel quale sui era imprigionato da se stesso, con le sue mani, e ha ripreso il posto nel mondo che gli spetta: quello di un artefice e di un piccolo dio, capacissimo di fare a meno del Dio antico. Dal quale non gli sono venuti che obblighi, proibizioni, limitazioni e sensi di colpa.

Ma è proprio così? Davvero Dio chiedeva all’uomo più di quanto fosse giusto e possibile? E davvero, adesso che l’uomo lo ha relegato in soffitta, questi è divenuto più libero e, di conseguenza, più felice? Non sembrerebbe proprio. Gli antichi terrori sono scomparsi, ma ne sono sorti di nuovi, assai più insidiosi e tenaci. Inestirpabili. E forse, in quell’albergo di lusso in cima alla montagna, la gente ci va nel vano tentativo di esorcizzare i propri fantasmi, l’angoscia, la depressione, la disperazione, tutto un immenso male di vivere e un inconscio desiderio di morte. Sorge perciò la domanda: se l’uomo ora è libero, se si è sbarazzato dei suoi antichi terrori, come mai non è  felice?

 

 

 

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