La battaglia sull’eutanasia è perduta? No, se teniamo alta la fiaccola della fede
Mar 20, 2025
FONTE : Universitari per la Vita
Il dibattito su eutanasia e suicidio assistito si fa più incandescente e, oramai, si allarga sempre più il fronte favorevole ad una loro legalizzazione. È notizia recente che una donna cinquantenne affetta da sclerosi multipla da oltre 30 anni, col nome fittizio di Serena, è stata la prima paziente in Lombardia ad aver ottenuto il suicidio assistito. Il Dott. Mario Riccio, medico anestesista e membro del Consiglio Generale dell’Associazione Luca Coscioni, famoso per aver cooperato alla morte di Piergiorgio Welby nel 2006, è intervenuto affermando che si è trattato di «un momento di grande emotività, dovuta soprattutto al fatto che, dopo un percorso di sofferenza, finalmente è riuscita a veder compiute le sue volontà». Ha poi proseguito dicendo che in tutti i casi che ha seguito, ritiene di aver lavorato con la convinzione d’aver fatto il suo “dovere di medico” e che «la medicina oggi permette di trattare molte patologie che un tempo non erano curabili. Ma, al tempo stesso, non riesce a curare tutto, sempre e comunque». Di conseguenza, egli ritiene che «sia un diritto individuale e inalienabile del paziente scegliere se porre fine alle sue sofferenze e un dovere morale del medico moderno supportarlo e aiutarlo».
Ecco descritto, in poche parole, il fallimento dell’arte medica: essa era nata per guarire quando possibile, curare sempre. Oggi viene derubricata a mero strumento in balia dei desiderata del paziente, incluso quello di darsi la morte. Non solo, si ardisce parlare persino di “dovere morale” in una totale inversione di quei principi morali invalicabili della legge morale naturale, tra i quali spicca per importanza quello del “non uccidere l’innocente”, tradotto poi nell’ippocratico primum non nŏcēre.
La battaglia è dunque perduta? Lo sarebbe nel caso di una prossima legalizzazione? La risposta a questa domanda è chiaramente no. Non dovremmo mai perdere la speranza, nemmeno se una tale legge iniqua vigesse da anni e fosse stata assimilata dalla maggioranza delle persone come avvenuto per la 194 sull’aborto. Non sarebbe una scusa per rinunciare a combattere e continuare a testimoniare la verità. Dobbiamo essere confortati da secoli di giganti della santità che hanno tenacemente difeso questo principio. Sant’Agostino affermava: «non è mai lecito uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l’anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere» (Epistula 204, 5).
D’altra, parte San Tommaso d’Aquino: «l’uomo viene costituito padrone di sé dal libero arbitrio. Egli, quindi, può disporre di sé stesso per le cose che riguardano la vita presente regolate dal libero arbitrio. Ma il passaggio da questa vita a un’altra più felice non dipende dal libero arbitrio dell’uomo, bensì dall’intervento di Dio. Perciò all’uomo non è lecito uccidere sé stesso, per passare a una vita più felice. E neppure gli è lecito, per sfuggire qualsiasi miseria della vita terrena. Poiché, la morte è l’ultimo e il più tremendo tra i mali della vita presente; cosicché darsi la morte per sfuggire le altre miserie di questa vita, equivale ad affrontare un male più grave per evitarne uno minore» (IIª-IIae, q. 64 a. 5 ad 3).
Non ultimi, vengono gli insegnamenti dei Pontefici, ininterrottamente, da Pio XII a Francesco.
Dobbiamo in ogni caso sforzarci di comprendere perché la domanda di eutanasia sia così cresciuta negli anni. Sembra paradossale che in una società dove si vive di più e con maggiori comodità rispetto al passato si arrivi a chiedere la morte più che in epoche segnate da profonde sofferenze.
È papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Evangelium Vitae, a chiarire il perché di tale paradosso: «oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza, l’esperienza del morire si presenta con alcune caratteristiche nuove. Infatti, quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte, considerata “assurda” se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una “liberazione rivendicata” quando l’esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un’ulteriore più acuta sofferenza» (tondi nostri).
Per di più, «rifiutando o dimenticando il suo fondamentale rapporto con Dio, l’uomo pensa di essere criterio e norma a sé stesso e ritiene di avere il diritto di chiedere anche alla società di garantirgli possibilità e modi di decidere della propria vita in piena e totale autonomia […]».
È in tale contesto che «si fa sempre più forte la tentazione dell’eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine “dolcemente” alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della “cultura di morte”, che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate […]» (n. 64).
Ecco, dunque, il nodo più arduo, ma al contempo più necessario, da sciogliere: il significato da attribuire alla sofferenza. Nell’attuale dibattito sembra mancare una voce che tratti questo spinoso tema in profondità.
Si possono porre innumerevoli obiezioni, sul piano della sola ragione, alla pratica di eutanasia e suicidio assistito. Ma, per poter giungere ad una integrale inversione di rotta, è necessario integrare tali obiezioni con la visione che la fede, ben fondata sulla ragione, ci offre. Rimosso Dio e, soprattutto, il Sacrificio di Cristo sulla Croce, la sofferenza effettivamente non ha alcun significato. Poste perciò tali (erronee) premesse, eutanasia e suicidio costituiscono un esito logico. Come spiega p. Frédéric Rouvier S.J. (1851-1925) nel suo volume intitolato Saper soffrire (Edizioni Fiducia, Roma, 2023), «da secoli la filosofia incredula va dolorosamente curva sotto il problema del male fisico, cercando, senza mai giungere a scoprirla, una spiegazione che la soddisfi […]. Ora, questo avviene perché non vuol saperne di ammettere che, fin dall’inizio del mondo, esiste il peccato originale e che questo ha introdotto la sofferenza sopra la terra, e perché essa ha occhi di troppo corta veduta per scoprire sull’orizzonte eterno la divina misericordia pronta a coronare coloro che accettano con generosità la sofferenza». Di fatto, «tolta di mezzo la fiaccola rivelatrice della fede, è veramente per noi impossibile capire la sofferenza. Solo la fede, infatti, può dissipare le tenebre soffocanti nel quale il dolore ci costringe ed essa sola è capace di dare una risposta a certi perché, i quali tormentano l’anima nostra» (p. 58).
Tra questi non manca quello della malattia. Prosegue l’autore: «togliete via la fede con la sua luce e voi avrete che, quando tutti questi perché si drizzano innanzi allo spirito schiacciato sotto il peso della sventura, non c’è più per l’immensa maggioranza degli uomini che la collera, la ribellione e la disperazione. Fate invece che in questi casi uno si ricordi di Dio, che la fede ci illumini, e allora la sofferenza da amara diventa relativamente dolce; da violenta, tranquilla, rassegnata; in una parola, essa diventa cristiana e per conseguenza feconda per l’eternità» (p. 59).
Se si avrà il coraggio di affrontare questi temi alla luce congiunta della fede e della ragione, si potrà disporre di uno strumento decisivo per la battaglia in difesa della vita umana sofferente e morente.
Fonte: CR
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