L’intelletto cerca il vero, la volontà vuole il bene
Oct 28, 2022di Francesco Lamendola
Che cosa cerca l’intelletto? E che cosa vuole la volontà? Oppure dobbiamo pensare che l’intelletto non cerca nulla e la volontà brama una cosa oppure un’altra, secondo il caso e il capriccio del momento, senza uno scopo, un obiettivo, un fine preciso? Eppure l’uomo, lo vediamo continuamente, è un essere desiderante: sempre cerca e desidera qualcosa, è inquieto e si protende verso questo o quell’oggetto. Se cessasse completamente di desiderare, sarebbe come morto e vivrebbe una vita che non è la vera vita umana, ma una vita puramente passiva, simile a quella di un vegetale (il quale, peraltro, è proteso verso anch’esso determinati oggetti, ma nell’ambito del puro sostentamento fisiologico).
Dunque, l’intelletto cerca il vero: è nella sua natura, per questo ci è dato: nessuna meta inferiore a questa potrebbe realmente appagarlo. E lo trova, o ha comunque la possibilità di trovarlo? Certamente sì, poiché la natura gli ha dato gli strumenti idonei a soddisfare il suo bisogno: strumenti che, però, egli deve saper utilizzare correttamente, altrimenti il suo bisogno resta insoddisfatto e la ragione gira a vuoto, senza mai arrivare in prossimità della meta. Sono gli strumenti della logica, adoperati però nella giusta prospettiva e partendo da un atto iniziale di umiltà e di fiducia in Dio, che è, per definizione, il Sommo Vero: senza il quale la logica, pur se capace di collegare fra loro ragionamenti corretti, non giunge al vero, anzi se ne allontana, offrendo lo spettacolo pietoso di un intelletto che, pur mostrando di saper lavorare correttamente ai singoli segmenti della sua ricerca, si aggira tuttavia e si affatica vanamente intorno a se stesso, come il cane che si morde la coda. In altre parole, è la luce della grazia che illumina la ragione per condurla in porto: la ragione naturale, infatti, da sola, può, nel migliore dei casi, avvicinarsi al vero, ma non raggiungerlo, perché il Vero in Sé, che è Dio, non si lascia cogliere da essa, essendo una realtà superiore alla natura.
Ricordate l’apologo del bambino che voleva versare tutta l’acqua del mare in una buca scavata nella sabbia, spettacolo che faceva meravigliare e sorridere sant’Agostino, finché questi non comprese che ciò era un richiamo alla sua superbia intellettuale, alla sua pretesa di comprendere quei misteri supremi – la Trinità e l’Incarnazione – che trascendono la sua natura, e quindi le restano inaccessibili? Oppure conoscete ciò che si narra di san Tommaso d’Aquino - e stiamo parlando dei due più grandi filosofi che abbia avuto la nostra civiltà nell’arco di otto secoli – allorché non riusciva a risolvere un problema speculativo: lui, l’autore della Summa Theologiae, monumento imperituro di grandezza intellettuale; cioè che posava la penna sul tavolo, scendeva in chiesa e si metteva a pregare, a digiunare, a supplicare Iddio perché aprisse la sua mente a quelle verità di ordine superiore? E avete presente l’ultimo canto del Paradiso, nella Divina Commedia, in cui a Dante è concesso per un istante di vedere Dio nella sua Essenza, e come il poeta vi si prepara con l’ardore del desiderio, dopo essersi spogliato di ogni residuo di materialità, e aver ricevuto l’aiuto delle fervide preghiere congiunte di Beatrice, di san Bernardo di Chiaravalle, della Vergine Santissima e delle anime beate dell’Empireo, senza le quali il suo desiderio certamente sarebbe rimasto vano?
La ragione naturale, dunque, se bene indirizzata e bene utilizzata, può giungere al vero: ma quanto a conoscerlo nella sua Essenza, essa non è sufficiente: serve il soccorso della grazia. Se così non fosse, allora l’uomo potrebbe conoscere Dio: ma è intuitivo che la creatura, nell’ordine della natura, non può conoscere Dio, che è il Creatore della natura e si trova al centro dell’ordine soprannaturale: lo impedisce la differenza ontologica. Tale è l’errore in cui cadono gli ontologisti, da Malebranche, a Gioberti e allo stesso Rosmini: l’uomo non può avere la conoscenza immediata di Dio, neppure a livello intuitivo, perché una tale conoscenza eccede, e di molto, le sue possibilità intrinseche. Ed è anche l‘errore in cui è caduto Galilei, il quale non era certamente un filosofo, anche se aveva l’ardire di ritenersi tale, laddove – nel Dialgo sui due massimi sistemi – osa affermare che di alcune verità, quelle matematiche, l’uomo può avere una certezza pari a quella di Dio stesso: il che equivale a sapere come ragioni la Mente divina.
La cosa è del tutto insostenibile; e già parlare della “mente” o “intelletto” divino equivale a una evidente forzatura, perché sottintende una concezione antropomorfa di Dio. Ma se è vero che, per l’uomo, una verità matematica è indubitabile (con prudenza, però: si pensi alle geometrie non euclidee, le quali sovvertono tutte le certezze della geometria euclidea, che è intuitiva, e nelle quali, ad esempio, la somma degli angoli interni di un triangolo maggiore o minore, giammai uguale, come invece ci si aspetterebbe, di un angolo piatto), che cosa autorizza a pensare che ciò si applichi anche a Dio, infinitamente, cioè qualitativamente, superiore all’uomo? La distinzione galileiana fra conoscenza extensive e conoscenza intensive è un misero tentativo di far passare un ragionamento arbitrario e del tutto indimostrato (anzi, a rigore, inintelligibile), mascherando la differenza ontologica e pretendendo di fissare i modi in cui l’Intelletto divino si manifesta e i limiti che esso “deve” rispettare.
Questo, per ciò che riguarda l’intelletto. E per ciò che riguarda la volontà? La volontà vuole il bene, abbiamo detto: se la volontà volesse intenzionalmente il male, andrebbe contro se stessa. Il che può accadere, e di fatto accade, laddove esistono gravi disordini intellettuali o morali. L’errore di certa filosofia moderna è di estendere in maniera arbitraria la psicologia patologica alla psicologia tout-court; e un tipico esempio di una tale cattiva psicologia che pretende di farsi (cattiva) filosofia è la psico-analisi freudiana. Nessuno può negare che esistano anime deviate, menti deviate e volontà deviate: ma ciò non autorizza a costruirci sopra un castello distopico che ci dà un’immagine orribilmente deformata, anzi addirittura invertita, dell’uomo. La letteratura dell’ultimo secolo, cattiva letteratura, è andata a scuola da codesti cattivi filosofi e da codesti pessimi psicologi: ed ecco gli Svevo, i Pirandello (che comunque sta mole spanne sopra Svevo), i Gadda, i Montale, e poi Kafka, Musil, Joyce, Woolf, Becket, Sartre, Camus, tutti d’accordo, pur se discordi su molte altre cose, sul fatto fondamentale dell’assurdità e incomprensibilità della vita, sulla tremenda beffa che il caso, il destino o un dio malvagio hanno giocato all’uomo, gettandolo in un mondo estraneo, allucinato e allucinante, quanto di più simile all’inferno, in cui non credono (non in senso proprio, almeno) sia dato immaginare.
C’è un’altra osservazione da fare, che riguarda l’oggetto del conoscere e del volere.
Allorquando l’oggetto appartiene all’ordine della natura, l’intelletto precede la volontà e la volontà vuole ciò che l’intelletto ha riconosciuto come vero e, perciò, anche come buono. Tuttavia se l’oggetto appartiene all’ordine soprannaturale, le cose vanno altrimenti: in tal caso è la volontà che ha la precedenza, nel senso che essa “riconosce” intuitivamente, con l’aiuto della grazia, ciò che è buono, e aiuta l’intelletto a vederlo, ad amarlo, a conoscerlo. Come avevano visto con chiarezza i filosofi scolastici, e assai prima di loro gli stessi poeti pagani, in questo caso Ovidio (nella Ars amandi, II, 397), ignoti nulla cupido, non esiste, nè è possibile alcun desiderio nei confronti di ciò che è sconosciuto. E Dio, come abbiamo detto, nella sua propria Essenza, è sconosciuto e inconoscibile alla ragione naturale: quindi l’intelletto non può nemmeno desiderare ciò che non conosce.
Questo però non significa che non ne abbia il desiderio. Intelletto e volontà sono facoltà dell’uomo, presenti contemporaneamente in un unico soggetto: pertanto, se l’intelletto non può desiderare quel Dio che non conosce, nondimeno la volontà può protendersi ansiosamente verso di Lui, perché la volontà cerca il bene, e, sia pure in maniera confusa e intuitiva, la volontà sente che il bene assoluto, da essa cercato, e che non coincide mai con i singoli beni naturali, dei quali pure è bramosa, ma per poi stancarsene subito quando li ha raggiunti, deve per forza coincidere con Dio, causa prima e causa finale di tutto ciò che esiste, quindi anche del suo stesso desiderio. Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te, Domine, esclama sant’Agostino; e precisa la ragione di tale inquietudine: «Tu, o Dio, ci hai fatti per Te, ed è per questo che il nostro cuore è inquieto finché non trova in Te la pace e il riposo».
A questo punto ci piace fare riferimento, come già altre volte in passato, e come – probabilmente - faremo ancora in futuro, all’ottimo quindicinale fondato da don Francesco Maria Putti Sì sì no no (edito a Velletri), e precisamente all’articolo Intelletto e volontà, n. 17 del 15 ottobre 2022, a firma di “Thomas”:
La volontà razionale o appetito razionale è la facoltà che tende al bene conosciuto dall’intelletto (“nihil volitum nisi praecognitum”, niente è voluto, se prima non è conosciuto). Essa è realmente distinta dall’appetito sensibile o sensibilità (che si suddivide in concupiscibile e irascibile, Summa Theol. I, q. 80, a. 2).
La volontà è una tendenza, un desiderio o un appetito razionale, la quale SEGUE la conoscenza intellettuale e non quella sensibile ed è SPECIFICATA dall’oggetto conosciuto dall’intelletto e PRESENTATOLE come buono, anche se in realtà non sempre lo è (bene apparente, male reale). Infatti, l’oggetto della volontà può essere il bene anche solo apparente ma non può essere il male in quanto male, Perché ciò sarebbe contrario alla natura Della volontà. Ora, un oggetto prima di “essere buono” deve “essere” o “esistere”. Quindi, in questo senso la volontà DIPENDE dall’intelligenza: l’intelletto conosce l’essere o la natura intima e vera del suo oggetto, mentre la volontà tende all’essere buono o presentatole come tale. Ora ontologicamente l’ESSERE è anteriore all’ESSERE BUONO. Perciò IN SENSO ASSOLUTO L’INTELLETTO PRECEDE LA VOLONTÀ. (…)
Tuttavia QUANDO L’OGGETTO È PIÙ NOBILE DELL’ANIMA UMANA in cui risiedono l’intelligenza e la volontà, allora – IN RAPPORTO A QUEST’OGGETTO (per esempio Dio) – la volontà è superiore all’intelligenza. Infatti, l’atto intellettivo di conoscere “attira” a sé gli oggetti conosciuti perché la loro rappresentazione entra psicologicamente e logicamente (non fisicamente) nell’intelletto. Perciò, Dio è conosciuto secondo le capacità finite e limitate dell’intelletto umano, ossia è rimpicciolito al livello delle nostre idee o concetti intellettuali.
La ragione umana può conoscere con certezza l’esistenza di Dio, mediante un sillogismo che parte dagli effetti (creature) per risalire alla Causa prima incausata (Creatore); può giungere a conoscere anche qualche proprietà, nome o attributo di Dio (Essere, Bene, Vero…), ma non tutta la sua Natura che, essendo infinita, sorpassa illimitatamente le capacità conoscitive dell’intelletto umano ed è infinitamente sproporzionata alla finitezza del concetto intellettuale. L’uomo non può formarsi un’’idea adeguata di Dio, altrimenti coglierebbe la sua Essenza infinita e il suo intelletto dovrebbe essere infinito, come vogliono gli ontologisti (Malebranche, Gioberti e Rosmini), ma ciò è evidentemente falso. Solo in Paradiso i Beati vedono Dio faccia a faccia, nella sua Essenza come è, grazie al “Lumen gloriae”, che è dato da Dio all’intelletto del Beato e lo sopraeleva soprannaturalmente alla capacità di cogliere intellettualmente e intuitivamente la Natura infinita di Dio (Visione beatifica).
L’atto della volontà, che è una tendenza verso un oggetto presentato come buono , esce, invece, fuori di essa per unirsi al’oggetto conosciuto e amato come buono e possederlo o fruire della sua bontà. Perciò già in terra, quando la volontà ama o desidera Dio, è perfezionata, cresce di grado, poiché esce da sé, tende e aderisce ad un oggetto infinitamente più nobile di sé. (…)
Intelletto e volontà non si possono considerare come due agenti separati, ma SONO DUE FACOLTÀ DI UN SOLO UOMO, FACOLTÀ DISTINTE MA NON SEPARATE, che invece di contrapporsi devono collaborare intimamente. Intelletto e volontà sono intimamente connesse nella medesima azione: “L’intelletto sa che la volontà vuole e la volontà vuole che l’intelletto conosca” (Summa Thweol., I, q. 82, a. 4, ad 1). Esse sono legate nella LIBERA SCELTA di un fine, che già Aristotele chiamava “intellezione appetitiva e appetito intellettivo” (“Etica Nicomachea”, IV, 2). Infatti, la volontà è un appetito o una tendenza razionale, che segue la conoscenza dell’intelletto.
Eppure, se l’intelletto cerca il vero e la volontà vuole il bene, rimane da spiegare come mai, tanto spesso, e specialmente nella società odierna, l’intelletto si perda nei labirinti delle false verità, ossia della menzogna; e come mai la volontà, facendosi nemica di se stessa, o piuttosto nemica dell’uomo che naturalmente dovrebbe servire, si renda sua nemica mortale, e, ingannandolo e tradendo il suo autentico bisogno, lo conduca non verso il bene che egli brama, ma verso il male che aborrisce, e lo aborrisce e detesta, se non altro, per un sano istinto di conservazione, dal momento che sprofondarsi nel male equivale a minare il proprio equilibrio esistenziale.
Si tratta di un mistero tremendo, mysterium iniquitatis, nel quale da sempre i teologi scorgono un fortissimo indizio della presenza - tenace, insidiosa, proteiforme, cioè capace di assumere mille aspetti e di nascondersi sotto mille apparenze diverse, tutte ingannevoli - dell’antico e implacabile avversario del genere umano.
Abbiamo accennato che tale innaturale desiderio del male va contro l’istinto stesso di conservazione.
Per questo la Sacra Scrittura dice (1 Giov. 3, 7,10):
7Figlioli, nessuno v'inganni. Chi pratica la giustizia è giusto come egli è giusto. 8Chi commette il peccato viene dal diavolo, perché da principio il diavolo è peccatore. Per questo si manifestò il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo. 9Chiunque è stato generato da Dio non commette peccato, perché un germe divino rimane in lui, e non può peccare perché è stato generato da Dio. 10In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, e neppure lo è chi non ama il suo fratello.
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