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TRUTH

L’idealismo, il peggior nemico del cristianesimo

francesco lamendola Aug 08, 2022

di Francesco Lamendola

Sono molti gli aspetti in base ai quali si può dire che l’idealismo è una cattiva filosofia, tanto nella prospettiva logica e speculativa, quanto nei suoi risvolti e nelle sue conseguenze nella sfera etica. Dalla pazzesca inversione fra essere e pensiero, per cui non è l’essere a generare il pensiero, ma il pensiero che genera l’essere; alla pretesa di conciliare gli opposti in una sintesi “superiore” che li “invera” e al tempo stesso li “supera”, ma soltanto a parole (siamo costretti a usare continuamente le virgolette per evidenziare i termini che Hegel dà per provati e dimostrati, mentre lo sono solo nella sua testa); alla pretesa di “spiegare” tutto con la formula triadica, applicata a destra e a manca come fosse la panacea universale, anche a costo di sfidare il ridicolo e sfiorare il sacrilegio, dal numero dei continenti fino al mistero sacro della Trinità divina; al panteismo insito nella concezione della storia come lo Spirito del mondo (evidentemente immanente); alla giustificazione preventiva, sul piano della necessità logica, di qualsiasi cosa passata, presente e futura: tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale, formula ripresa anche dal Croce e, al solito, niente affatto dimostrata.

Eppure tutti questi aspetti negativi sono ancor poca cosa paragonati al  più esiziale di tutti, che riguarda direttamente la fede cristiana. Per Hegel, come per i suoi predecessori e successori, la vita dello spirito si articola in un  momento inferiore, quello religioso, e uno più alto, quello filosofico: pertanto essi non sono contro la Rivelazione cristiana, bensì per il suo “superamento”. In altre parole, la fede va bene per i bimbi e le vecchiette, e contro di essa non c’è niente da obiettare; ma il vero sapiente non può certo accontentarsi di quelle favole. E siccome la vera sapienza, la più alta e la più nobile di tutte, è la filosofia, ecco che il filosofo, molto cortesemente, viene a spiegarci che la filosofia “spiega” il cristianesimo, portando le sue verità, ancora piuttosto rozze e confuse, sul livello splendente della speculazione pura, dove Hegel, non Gesù Cristo, assegna a ciascuno il suo posto e la sua funzione, anzi l’assegna anche a Gesù Cristo (si veda la sua giovanile Vita di Gesù), perché non c’è ambito dello scibile umano nel quale Hegel non sia salito in cattedra e, da buon professore tedesco, foderato di pedanteria e pesantezza, non abbia cortesemente spiegato al volgo ignorante come stanno in realtà le cose e come le intendono le persone comuni, ma non lui, la cui vista d’aquila penetra ogni segreto.

Croce e Gentile gli sono andati dietro sulla stessa strada. A questo proposito crediamo non sia male ricordare un episodio, in sé modesto, ma significativo. Allorché venne presentata ufficialmente la Enciclopedia Italiana, il suo ideatore e massimo realizzatore, Giovanni Gentile, si aspettava di ricevere un invito in Vaticano per le felicitazioni e le cortesie di rito, beninteso sul piano strettamente culturale. Pensava di avere ben meritato,  al di là del Tevere, più ancora che per quella sua nobile fatica, per il posto eminente da lui riservato all’insegnamento della religione  cattolica nella riforma scolastica da lui attuata, e che tuttora porta il suo nome, nonché per il suo contributo alla politica di pacificazione sfociato nella stipulazione dei Patti Lateranensi fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, che sanava una piaga dolorosissima rimasta aperta e sanguinante per quasi sessant’anni. Invece tale invito non venne, né avrebbe potuto venire. Qualcuno gli fece capire che le autorità ecclesiastiche gli erano grate, sì, per quanto aveva fatto, ma non potevano far finta d’ignorare che per lui, come per Hegel, quello religioso non è che un momento o una fase nella vita dello spirito, destinato a venire assorbito e superato dal momento filosofico. Il che, se non andiamo errati, conduce all’estinzione della fede cristiana in nome della superiore lucidità e consapevolezza della filosofia.

Ora, il fatto che Gentile non se ne rendesse conto, né avvertisse l’assoluta incompatibilità tra la sua concezione, l’attualismo (e anche di quella del suo ex amico e attuale rivale Croce), che risolve nella storia l’intera realtà, e il cristianesimo, getta una luce significativa su quella olimpica serenità che gli idealisti ostentano, dall’alto della loro irraggiungibile cattedra, anche nel momento in cui  fanno a pezzi le cose più sacre al credente. Perché gli idealisti sono fatti così: passano come un rullo compressore sopra il senso comune, la logica, l’etica e la Rivelazione cristiana, ma si stupiscono se qualcuno fa notare loro che la filosofia da essi professata, dopotutto, non è così mite ed innocua come paiono credere, ma equivale alla distruzione totale di ogni metafisica, di ogni tradizione, di ogni credenza che non siano state approvate e vidimate da Hegel (il quale, peraltro, doveva avere le idee abbastanza confuse se ora vedeva lo Spirito del mondo impersonato in Napoleone vittorioso, poi, dopo Waterloo, era propenso a vederlo incarnato nello Stato prussiano: si vede che il suo Dio ama chi vince e mai chi perde). E ciò sia detto senza nulla togliere alla statura umana e culturale di Giovanni Gentile, il quale è stato e rimane un grande in mezzo ai nani, sebbene la stessa cosa non si possa dire, a nostro parere, né del suo maestro Hegel, né tanto meno del suo più fortunato, o forse solo più scaltro collega, Croce.

Vi sono altre filosofie, come il marxismo, l’empirismo, il panteismo, il neopaganesimo, le quali confliggono direttamente con la visione cristiana del reale, e dunque si presentano per ciò che sono, sue nemiche e radicalmente incompatibili con essa. L’idealismo, no: sia per la sua strana pretesa di spiegare e superare tutto, e così di accogliere qualcosa di tutto, cristianesimo compreso, come un momento dialettico che ha la sua (temporanea e parziale) ragion d’essere; sia per la particolare indulgenza ch’esso riserva al cristianesimo, al quale riconosce il merito di essere, fra tutte le religioni, la più pura e la più vicina, o la meno lontana, dall’Idea; ma pur sempre riservandole una degnazione compiacente che è tipica del fratello maggiore, adulto e ormai navigato della vita, verso il fratello minore, ingenuo e inesperto. L’idealista, dall’alto del sommo principio che gli permette di considerare tutto il resto come un teatro di formichine, ossia l’Idea, si china benignamente sul fratello minore cristiano e gli sospira nell’orecchio: «Ah, se solo tu crescessi un poco! Se solo capissi che queste cose, che tu prendi alla lettera, non sono che simboli: simbolo l’Incarnazione del Verbo; simbolo la sua Passione, Morte e Resurrezione; simbolo la Santissima Trinità; e simbolo, naturalmente, la Presenza Reale di Gesù nel Sacrificio eucaristico. Allora sì che potremmo andare d’accordo, come io vorrei tanto!».

Un delle più penetranti analisi critiche dell’hegelismo, da un punto di vista specificamente cristiano, è stata fatta da Søren Kierkegaard; il quale annotava nel suo Diario (edizione ridotta su licenza della Morcelliana, a cura di Cornelio Fabro, Milano, Rizzoli, 1975, n. 2147 e 2150, pp. 219-220):

Julius Müller, sul “peccato”.

No, no: non tanto in questo modo Hegel ha torto Fin quando Hegel definisce il male come la soggettività astratta, l’arbitrio, il predominio  del singolo sul generale, dunque anche come egoismo, J. Müller potrebbe esser d’accordo con lui; e lo sarebbe anche se non fosse chiaro che Hegel riferisce quest’esistenza del male ad una necessità superiore.

No, l’errore sta principalmente in questo: che l’universale, in cui o’hegelismo fa consistere la verità (e il Singolo diviene la verità, se è sussunto in esso), è un astratto, lo Stato, ecc. Egli non arriva a Dio che è la soggettività in senso assoluto, e non arriva alla verità: al principio che realmente, in ultima istanza, il Singolo è più alto del genere, cioè il Singolo considerato nel suo rapporto a Dio.

Quante volte non ho scritto che Hegel fa in fondo degli uomini, come il paganesimo, un genere animale dotato di ragione. Perché in un genere animale vale sempre il principio: il Singolo è inferiore al genere. Il genere umano ha la caratteristica, appunto perché  ogni Singolo è creato ad immagine di Dio (Gen. 1,27), che il Singolo è più alto del genere.

Che tutto questo si possa prendere invano e abusarne in modo orrendo: concedo. Ma il Cristianesimo consiste in questo, ed è in fondo qui che si deve dare battaglia. […]

Per tempi lunghissimi l’umanità si arrabbiò con la questione della personalità di Dio. Basterebbe riuscire a comprenderla, e si potrebbe forse far a meno della Trinità!

E poi cos’è accaduto? Venne Hegel con gli hegeliani, i quali capirono meglio la cosa, e provarono cioè che Dio è personale proprio perché è trino. Ora sì che andiamo bene! Tutto l’affare della Trinità è diventato una commedia, non sarebbe che la vecchia trilogia logica (tesi – antitesi - sintesi)e la personalità che ne verrebbe fuori sarebbe press’a poco quella X von la quale si cominciava nei tempi in cui si credeva che, una volta che si potesse capire la personalità di Dio, si sarebbe potuto fare a meno della Trinità.

In generale è questa la più profonda confusione dell’hegelismo nei riguardi del Cristianesimo, cioè che esso non ha tempo né senso alcuno per porre, ancora prima di comprendere, come prima cosa il problema cristiano. I risultati di Hegel (che sono annunziati a suon di trombe e di trombette come la spiegazione di tutto) sono la forma approssimativa del problema, come la cosa che ora si dovrebbe comprendere, o comprendere che non si può comprendere. Dove Hegel finisce, lì press’a poco comincia il Cristianesimo; l’errore è semplicemente che Hegel pensa di avere a questo punto liquidato il Cristianesimo: anzi di essere andato molto più in là!

Mi è impossibile trattenermi dal ridere quando penso a quel “comprendere” da parte di Hegel nei riguardi del Cristianesimo: per me è qualcosa d’incomprensibile. È e resta vero ciò ch’io ho sempre detto: Hegel era uno straordinario professore di filosofia, non un pensatore; ma pel resto deve essere stato una personalità molto insignificante, senza un’impressione della vita. Ma che fosse un “professore” di gran classe, questo non lo nego.

Verrà un giorno che questo concetto, il “professore”, darà vita a un personaggio comico. Si pensi al Cristianesimo! Ahimé, quant’è cambiato da quando aveva i “confessores” inflessibili, a oggi che ha “professores” flessibili, declinabili secondo tutti i casi.

Certo, Kierkegaard è un pensatore moderno (lui non voleva definirsi filosofo: se proprio doveva darsi un titolo, preferiva quello di scrittore edificante o religioso): il più grande, o uno dei più grandi, pensatori moderni, ma pur sempre un pensatore moderno. Ciò significa che tutto, per lui, è un “problema”; e lo è anche il mistero della fede: che per lui diventa il “problema del cristianesimo”, mentre non lo era per i grandi pensatori cristiani, come Sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino. Come ha osservato, se ben ricordiamo, Gabriel Marcel, il concetto di problema rinvia, presto o tardi, a una soluzione, mentre il mistero rimane pur sempre tale, un limite che deve essere accettato e col quale bisogna fare i conti. In questo senso, Kierkegaard si pone entro l’orizzonte intellettuale e speculativo della modernità; ma vi si pone da par suo, cioè da gigante, anche se dei suoi libri si vendettero solo poche copie e si dovette aspettare molto tempo, non meno di settanta anni, cioè  fin dopo la Prima guerra mondiale, per assistere ad una riscoperta del suo pensiero (la Kierkegaard Renaissance).

La caratteristica della cultura moderna è quella di problematizzare ogni cosa: è per questo che alla fine non si sono più scritte delle storie della filosofia, ma, come ne caso di Cassirer, delle storie del problema gnoseologico - ancora un problema! - nella filosofia e nella scienza dell’età moderna (mentre nell’evo antico e nella civiltà medievale la gnoseologia non era vista sotto la specie di un problema, ma come la modalità del conoscere); o, come nel caso di Foucault, come un’inchiesta “archeologica” del sapere, non più rivolta alle cose in se stesse, ma alle parole e alle forme della conoscenza. Il dato di partenza, dunque, è che l’uomo moderno è malato: è malato fin dalla nascita, perché figlio di un mondo malato; e dunque non può porsi di fronte alle cose, e alla propria stessa vita, se non nella forma problematica della possibilità, da cui scaturisce l’angoscia. Pur con questo limite, Kierkegaard è una guida sicura per noi moderni: perché egli è moderno solo nel senso cronologico (appartiene, come noi, a tale periodo storico, e ne contrae involontariamente molti aspetti: il suo anti-hegelismo, per esempio, è nutrito di dialettica). La guida sicura in senso assoluto è san Tommaso d’Aquino: ma vi è una distanza troppo grande fra lui e noi, fra il suo mondo e il nostro, fra il suo modo di sentire e di ragionare e il nostro. Egli ci ricorda che il “problema” del cristianesimo (ché in effetti esso è tale per quasi tutti noi) non si “risolve”, anche se ogni tanto qualcuno se ne vien fuori a dire che lo ha risolto, dandone l’annuncio fra lo strepito di trombe e di trombette; ma che lo si vive, pieni di timore e tremore, come il padre Abramo; e si cerca di esserne degni, rispondendo alla chiamata di Gesù. Perciò il cristiano non è un animale razionale cui si aggiunge qualcosa, ma il Singolo, un individuo che incontra Cristo, e dall’incontro esce trasformato.

 

 

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