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L’eterno richiamo e l’eterna tentazione della gnosi. F.Lamendola

Jul 02, 2022

L’eterno richiamo e l’eterna tentazione della gnosi.

Gnostico è un sapere di natura religiosa che scaturisce non da rivelazioni o da dottrine positive, ma da una sorta d’illuminazione interiore la quale, a sua volta, dà accesso a un sapere segreto, riservato a pochi, il cui scopo è la salvezza, comunque si voglia intendere questa espressione. Segretezza e soteriologia sono dunque i due poli attorno ai quali ruota il sapere gnostico. Il resto, le dottrine specifiche e le modalità concrete di accesso e di utilizzo di un simile sapere, è il contorno; ma l’essenza è quella che abbiamo testé detto: l’accesso personale ad un sapere esoterico, di origine non umana, e il conseguimento della salvezza sul piano spirituale. Va da sé che nella gnosi non v’è bisogno di un clero preposto ad officiare i riti e a trasmettere la rivelazione, tanto più che non c’è una rivelazione nel senso ordinario del termine, ma piuttosto un cammino o percorso di consapevolezza del singolo individuo. In buona sostanza, questi deve riscoprire l’originaria unità del Tutto e quindi prendere coscienza della scintilla divina che alberga in se stesso. Nella gnosi non vi è una chiara distinzione fra Creatore e creature; le anime vivono nell’ignoranza fino a che si credono separate: quando si rendono conto di essere di natura divina, allora si risvegliano e conseguono la salvezza.

Nelle varie forme di gnosticismo che sono fiorite, storicamente, sul tronco del cristianesimo, e che naturalmente si sono configurate come altrettante eresie, il richiamo implicito o esplicito è sempre al Salmo 82, versetto 6:  Io ho detto: voi siete dèi, siete figli dell’Altissimo, ripreso da Gesù Cristo in Giovanni, 10, 34-36:

 

Disse loro Gesù: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”? Ora, se essa ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio – e la Scrittura non può essere annullata – a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo voi dite: “Tu bestemmi!”, perché ho detto: “Sono Figlio di Dio”?».

 

Non è questa la sede per spiegare che il significato di tale espressione non è quello che le attribuirono le sette gnostiche cristiane, o meglio pseudo-cristiane. L’altro riferimento erano, naturalmente, i cosiddetti Vangeli gnostici – di Tommaso, degli Egiziani, di Giacomo, di Maria, ecc. – nei quali appunto si trova quell’insegnamento esoterico, e dunque segreto, che Gesù Cristo avrebbe trasmesso agli Apostoli e ad alcuni altri intimi, ben diverso da quello essoterico, destinato alle masse e poi consolidato dalla Chiesa cattolica.

Il sapere gnostico parte dall’assunto che il mondo materiale è stato creato per errore da un eone, Sofia; per cui l’uomo deve comprendere che esso è, da un lato, di natura sostanzialmente illusoria, dall’altro che egli stesso, e il mondo, sono emanazioni (inconsapevoli!) di Dio stesso, ma creati per accidente, in maniera inavvertita e non intenzionale, non già dal “vero” Dio, il quale essendo eternamente immutabile non è, né potrebbe essere, creatore. Per cui la “salvezza”, nella prospettiva gnostica, consiste nella redenzione dall’errore di esistere, o credere di esistere, sul piano materiale, e nel riconoscimento della sostanziale identità di ogni ente con Dio stesso, del quale gli uomini sono pur sempre in definitiva una emanazione (non creature, quindi, perché l’emanazione non implica un atto creatore volontario da parte di Dio).

È facile vedere quanto di panteistico, e al tempo stesso di nichilista, sussiste in tale prospettiva, sia perché in definitiva non c’è una reale differenza fra la realtà terrena e la realtà assoluta, fra l’uomo e Dio, sia perché lo scopo del conoscere è liberarsi dal “male” di esistere, o credere di esistere, in senso materiale, e ricongiungersi, riscoprendola, con la propria natura divina, che fa dell’uomo un essere, per partecipazione, a sua volta divino.

Si sarà notato, altresì, che esistono evidenti punti di convergenza, non sul piano cosmologico ma sul piano soteriologico, con le concezioni dualiste “classiche”, come il manicheismo e il catarismo. Infatti per tali concezioni esistere materialmente è male, anzi tutto il mondo materiale è radicalmente e intrinsecamente cattivo, creato da un dio malvagio, il dio delle tenebre che si oppone al dio della luce; e lo scopo del vero sapere è liberarsi dall’esistenza materiale, rifiutandola senza alcun compromesso (i “perfetti”, nel catarismo, oltre ad astenersi dall’atto riproduttivo, si lasciavano morire di fame). Nelle antiche dottrine dualiste dell’Occidente vi è un chiaro influsso del platonismo e soprattutto del neoplatonismo: di Plotino, ad esempio, si dice che egli affermasse di vergognarsi di possedere un corpo; e tutta la ricerca filosofica del neoplatonismo è finalizzata a conseguire la liberazione dal male di esistere materialmente, affinché l’anima possa fare ritorno al mondo originario delle Idee. Visione pessimistica che solo molto superficialmente può presentare qualche analogia con quella cristiana: perché in quest’ultima la creazione materiale non è male in se stessa, anzi originariamente essa è buona, ed è stata la ferita del Peccato originale ad incrinarne gravemente l’eccellenza: non però al punto tale che la grazia non possa restaurare, perfezionandola, la natura.

Del tutto al di fuori della tradizione cristiana e occidentale, un altro esempio di gnosi è facilmente riconoscibile nel sapere filosofico-religioso dell’India (la distinzione fra i due ambiti non è chiara come lo è nella cultura europea, per cui i confini fra teologia, filosofia, spiritualità ed esperienza mistica vera e propria sono alquanto labili e provvisori) e precisamente nel passaggio dalla religione vedica al brahmanesimo, il quale l’ha trasmessa a sua volta all’induismo, che è il terzo ed attuale stadio evolutivo della religione indiana. Ma come è giunto il sapere filosofico e religioso dell’India, non solo nelle scuole ortodosse del brahmanesimo, ma anche in quelle eterodosse del buddismo e del giainismo, a formulare una prospettiva gnostica, sostituendola a quella originaria tipica dei Veda, che non era gnostica bensì positivamente religiosa, fatta di adorazione e di atti di culto e sacrificio resi agli dèi per impetrare da essi la salvezza dell’anima? Per rispondere  a questa domanda bisogna tener presente lo slittamento di significato del concetto di “salvezza” dal vedismo al brahmanesimo e, poi, all’induismo. Nella fase più antica, quella dei Veda, conseguire la salvezza significava ottenere il premio dell’accesso alla beatitudine dopo la morte, ossia l’accesso al regno degli dèi. Nella fase successiva, invece, la salvezza acquista il significato di liberazione: liberazione totale e definitiva, non solo dalla presente esistenza materiale, ma da tutte le esistenze, passate, presenti e future, spezzando vittoriosamente il ciclo delle rinascite e delle reincarnazioni (punto di contatto col platonismo e il neoplatonismo; ed è stato notato che, nel mito di Er, il nome di quel personaggio sembra indicare un’origine orientale del mito stesso) per poter accedere al Nirvana, che è qualcosa di più del “semplice” paradiso, o regno dei celesti, perché coincide con l’annullamento radicale di qualsiasi legame con il desiderio e con la realtà delle azioni e delle loro conseguenze, prossime e remote: tanto che il Nirvana stesso, per un certo verso, può essere associato al concetto del Nulla assoluto.

Ed ecco un altro significativo punto di contatto con le varie forme di nichilismo: che proseguono, in Occidente, in veste filosofica, fino a Schopenhauer, deciso a sopprimere la volontà di vivere per liberare l’uomo dal dolore (come nel buddismo), e ad Eduard con Hartmann, secondo il quale la liberazione finale verrà quando l’intero universo, acquistando consapevolezza di cosa significa esistere, sceglierà di auto-annullarsi, mediante una sorta d’implosione definitiva che sarà, al tempo stesso, una radicale liberazione cosmica.

Quel che qui ci preme evidenziare è che, mentre la gnosi nelle sue forme occidentali parte dall’assunto che la liberazione è il frutto di un processo di consapevolezza che consiste nel rendersi conto che le religioni rivelate, cristianesimo in primis, conoscono la verità, ma la tengono nascosta, e dunque l’adepto deve fare un proprio percorso che mira al riconoscimento della verità originaria presente in esse e successivamente occultata (nel caso specifico, riscoprendo il vero insegnamento di Gesù Cristo, che non è il Verbo incarnato, ma un iniziato al sapere superiore; anzi alcune scuole gnostiche arrivano a distinguere fra un Gesù “buono”, di natura puramente spirituale, ed uno “cattivo”, di natura terrena e quindi necessariamente malvagio), nelle forme che ha assunto in India essa parte dalla realtà, data per certa, della trasmigrazione delle anime, ed è pertanto a quel livello che il male dell’esistenza deve essere affrontato e vinto

A tale proposito, citiamo una pagina del grande studioso delle religioni Mircea Eliade, da Storia delle credenze e delle idee religiose, Firenze, Sansoni, 1979, vol. 1, Dall’età della pietra ai Misteri Eleusini, pp. 262-263):

 

La crisi spirituale che erompe dalle “Upanishad” sembra esser provocata dalla riflessione sulle “potenze del sacrificio. Abbiamo già visto che, proprio come Prajāpati era ricostituito e recuperava la sua “persona” (Âtman) in virtù del sacrificio, anche il sacrificatore, per mezzo degli atti rituali (karman), “unificava” le sue funzioni psico-fisiologiche ed edificava il suo “Sé”. Nei Brāhmana il termine karman indica l’attività rituale e le sue conseguenze benefiche (perché, dopo la sua morte, il sacrificatore giungeva al mondo degli dei). Ma riflettendo sul processo rituale di “Causa ed effetto” era inevitabile che si scoprisse che ogni azione, per il semplice fatto che otteneva un risultato, s’integrava in una serie illimitata di cause e di effetti. Una volta riconosciuta la legge della causalità  universale del karman, andava in frantumi la certezza degli effetti benefici del sacrificio. Perché l’esistenza posteriore dell’anima in cielo era il risultato dell’attività rituale del sacrificante; ma, dove si “realizzavano” i prodotti di tutti gli altri suoi atti, compiuti durante l’intera vita? L’esistenza beatifica dopo la morte, ricompensa per una corretta attività rituale, doveva dunque avere una fine. Ma allora, cosa succedeva all’”anima” (Âtman) disincarnata? Essa non poteva in alcun modo scomparire definitivamente. Di lei rimanevano un numero infinito di atti compiuti durante la vita, i quali costituivano altrettante “cause” che dovevano avere degli “effetti”; in altri termini dovevano “realizzarsi” in una nuova esistenza, qui sulla terra, o in un altro mondo. La conclusione s’imponeva da sola: dopo aver fruito di un’esistenza post-mortem beatifica o sventrata in un mondo extraterrestre, l’anima era costretta a reincarnarsi. È la legge della trasmigrazione, samsāra, che, una volta scopetta, ha dominato il pensiero religioso e filosofico indiano, tanto “ortodosso” che ortodosso (il buddismo e il giainismo).

Il termine samsāra compare soltanto nelle “Upanishad”. Rispetto alla dottrina, si ignora la sua “origine”. Si è invano cercato di spiegare la credenza nella trasmigrazione delle anime in base all’influsso di elementi anari. Comunque sia, questa scoperta ha imposto una visione pessimistica dell’esistenza. L’ideale dell’uomo vedico – vivere 100 anni, ecc. – si dimostra scaduto. In se stessa la vita non rappresenta necessariamente il “male”, a patto di servirsene come mezzo per liberarsi dai legami del karman. Il solo fine degno di un saggio è il raggiungimento della liberazione, moksa, un altro termine che – con i suoi equivalenti (mukti, ecc.) si colloca tra le parole-chiave del pensiero indiano. Dal momento che ogni atto (karman), religioso o profano, rinsalda e perpetua la trasmigrazione (samsāra), la liberazione non si può acquisire né mediante il sacrificio, né attraverso uno stretto rapporto con gli dei e neppure infine con l’ascesi o con la carità. Nei loro eremitaggi, i “rishi” hanno cercato altri mezzi per affrancarsi e hanno trovato ciò che volevano meditando sul valore soteriologico della conoscenza, già esaltata nei Veda e nei Brahmana.

 

Ribadiamo il concetto: nella visione cristiana, perfino nella sua estrema interpretazione in chiave di pessimismo antropologico, come avviene in certe pagine di sant’Agostino (ma per una ragione storica contingente: la polemica contro Pelagio, il quale esagerava le possibilità umane di evitare il peccato), la natura non è male in se stessa, anzi è stata colpita dal male in conseguenza del peccato di Adamo, e dunque, per dirla con San Paolo (Romani, 8, 22-23)

 

(…) tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.

 

Nella visione gnostica invece la natura o è male in se stessa o è illusione: in entrambi i casi, bisogna liberarsene per eliminare la sofferenza del vivere. L’esatto opposto di quanto indicato dal Vangelo...

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