L'estate del nostro scontento - Considerazioni su "Il mondo al contrario" di Roberto Vannacci
Aug 26, 2023Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa interessante recensione.
L'estate del nostro scontento
Considerazioni su "Il mondo al contrario" di Roberto Vannacci
di Francesco Maria Ricciardi
Nell'estate gloriosa da tempo di guerra mediatica, ho voluto occuparmi in questa lettura, deciso, come Riccardo III, a vestire i panni d’una "canaglia", a dispetto delle aspre sortite dei soloni impauriti, dai volti grifagni, le marce tremende, le profezie da ubriachi.
Assaporato nel silenzio fiacco e sterilizzato da querule polemiche, è un libro su cui c'è davvero poco da dire; semmai, molto da domandar(si).
FORMA E STILE
Un pamphlet piuttosto ponderoso, ma alquanto agile e scorrevole. Una punteggiatura più generosa avrebbe alleggerito la densità dei periodi, diluendola dove opportuno. Si procede fra considerazioni su tematiche di comune interesse, argomentate con stile schietto, asciutto, lineare. Brevi aneddoti fanno da intermezzo in una partitura che, complessivamente, si mantiene emotivamente asettica: non annoia né entusiasma. Qualche apostrofe contorna fulminei mots d'esprit, senza scadere nel triviale o nelle invettive feroci. Le espressioni “ruspanti”, più che rare sono hapax legomena. Chi si aspetta la trascrizione del frasario da caserma del sergente Hartman resterà deluso: si è più vicini alla desolante amarezza di Apocalypse now che all’irritante satira di Full Metal Jacket.
Un pregio è la coerenza interna. I contenuti del capitolo successivo specificano e chiariscono quelli del precedente, in un diagramma ad albero, i cui rami pendono verso i capitoli centrali, quasi creandovi attorno una nicchia protettiva: “La famiglia” è l’argomento cuore, scudato, a lateribus, da “La casa” e da “la Patria”. Geometria compositiva che si fa veicolo visivo di significazione, in cui risulta davvero arduo estrapolare periodi ad nutum, senza perdere il filo. E, come insegna Richelieu, bastano sei righe scritte dal più onesto degli uomini per trovarvi qualcosa sufficiente a farlo impiccare.
Il tono, tendenzialmente, è disteso, discorsivo, neutrale, lontano dalle intemperanze del cameratesco e dagli eccessi di chi cerchi l’applauso facile. Nelle pagine centrali (le più riuscite), la riflessione si stempera in note quasi elegiache, da cui traluce orgoglio di sudate conquiste e fiera combattività di preservarle.
I capitoli sulla società multiculturale e sulle tematiche lgbt fanno storia a sé. Il primo, trionfo di solecismi ed anacoluti, registra uno stridente passaggio su accenti più duri e crudi, da comizio elettorale. Il secondo, a tratti contorto, mostra segni di contraddittorietà ed incoerenza fra parte iniziale (più criptica) e parte conclusiva (più piana), probabile frutto di ripensamenti e stesure
successive. È l’unico punto in cui compare un’allocuzione, con funzione conativa.
CONTENUTI
La tesi dell’autore (per nulla isolata nel panorama editoriale) è che sia in atto un sistematico, programmatico e pervasivo “assalto alla normalità”, il quale assume i contorni di una serrata operazione militare, permeando tutti i campi del vivere civile e condizionando le politiche governative, dalla questione ambientale a quella energetica, con un attacco mirato al cuore della società: la famiglia. L’offensiva è nascosta dietro il nobile obiettivo di tutela delle minoranze, in nome delle quali, tuttavia, si arriva a sovvertire di fatto l’ordine delle priorità, dando vita ad una realtà distopica, macbethiana: il mondo al contrario.
Le origini del problema sono ricondotte al fatidico anatema cartesiano del “Cogito ergo sum” e, dunque, agli albori della modernità: “Da allora, in un crescendo sempre più incalzante, ci siamo abituati a riferire ogni sfaccettatura della realtà alle nostre percezioni e ai nostri pensieri”. Tale approccio non è considerato errato; se ne riconosce il supporto per lo sviluppo del senso critico, pur ammonendo contro le esasperazioni del solipsismo, che degradano in forme aggressive e prevaricatrici di autismo relazionale. I comportamenti disforici si esternano in riferimento ai diversi temi sociali, che subiscono amplificazioni e distorsioni “tali da trasformarli da necessità per il benessere e per la prosperità del genere umano a vere e proprie religioni estremiste, assolute”, autoreferenziali. La responsabilità di simili derive si imputa, in primis, al socialismo reale, il quale, non arresosi alla sconfitta della propria fallimentare ideologia, intenderebbe servirsi di alter- ego del regime del terrore in funzione anti-capitalista, per scardinare le basi della società occidentale.
Contro l’avanzare invasivo di autodefiniti nuovi principi e valori, più fluidi ed “inclusivi”, si oppone il concetto di “normalità”, inteso come condizione di regolarità, consuetudine, non eccezionalità, secondo ciò che appaiano essere il sentire comune e l’opinione dei più. Tale concetto andrebbe utilizzato per risolvere, attraverso apprezzamenti basati sulla ragione, spinose e controverse dicotomie: catastrofismo ambientale/ambientalismo pragmatico; famiglia tradizionale/matrimonio lgbt; stati sovrani/società multiculturale.
La prospettiva è laica, immanente ed antropocentrica, innestata su una visione di tipo evoluzionistico- adattivo, non rigidamente determinista. Sebbene si usino indistintamente (e confusamente) le espressioni di “Natura” e di “Creato”, si concepisce il mondo come un sistema fisico completamente avulso dalla lotta etica fra bene e male, superfluo retaggio delle religioni, della filosofia, della teologia e della morale. Un universo che è “caos irrazionale, disordine, entropia, susseguirsi concitato di eventi catastrofici, vuoto, temperature estreme, forze incommensurabili”, indifferente alle sorti dell’uomo, regolato da principi di inaudita brutalità ed in cui riescono a sopravvivere solo gli esseri viventi in grado di resistere ed adattarsi ai differenti habitat, divenendo
così specie dominanti.
L’uomo (rectius, il sapiens) è la specie dominante par excellence perché riuscito, nel corso di migliaia di anni di evoluzione, a sviluppare le migliori capacità adattive, sia in relazione alle altre creature, sia all’interno della propria specifica comunità. Ogni aspetto del vivere civile è in funzione di questa logica, che si riproduce, con crescenti gradi di intensità, in tutte le istituzioni, dal microcosmo della famiglia, al macrocosmo delle nazioni. I meccanismi di dominanza/prevalenza selezionano le soluzioni più efficaci nel rispondere ai bisogni umani (affettività, sicurezza, difesa della proprietà); in tal senso, la “normalità” assurge a condizione di conservazione. Da qui la necessità di preservare le scelte ed i modelli “vincenti”, a partire dalla “famiglia tradizionale”, il primo e più solido dei supporti sociali.
A sostegno del suo ragionamento, il generale menziona articoli e pubblicazioni, riproduce grafici, aggiunge il condimento del suo vissuto personale e dell’esperienza professionale, maturata in contesti critici (le missioni all’estero in Africa e Medio Oriente). Proprio il confronto con realtà lontane dall’Occidente, dove è palpabile la piaga della povertà, lo spinge a guardare con insofferenza i capricci e le velleità di un certo progressismo nostrano à la page: “l’animalismo, come l’ambientalismo, il vegetarismo e molte altre preoccupazioni moderne, è figlio del benessere e dell’agiatezza superflua”.
Sarebbe passatempo ozioso cimentarsi nell’interpretazione autentica di periodi isolati, svincolati dal loro contesto: le tesi di Vannacci vanno lette in successione ed alla luce della sua peculiare Weltanschauung. Va comunque notato che, ancorché non si ricorra a perifrasi retoriche o leziose formule di cortesia, lo scritto non è un violento e reazionario j’accuse contro personaggi o gruppi specifici. Il bersaglio dell’accorata reprimenda, infatti, sono i comportamenti eversivi e delinquenziali, che creano disagio all’intera collettività e che si ispirano alle istanze più intransigenti e fanatiche.
Il lavoro, in verità, lascia perplessi per altre ragioni.
La grande assente, nel novero dei valori della Tradizione da preservare, è la Fede. Pur ricordando che il 75% della popolazione si professi cattolico, non si dedica uno specifico capitolo alla difesa della cristianità e del culto cattolico. Eppure, proprio questi ultimi sono oggetto degli attacchi più rabbiosi e delle offese più oltraggiose, sia da parte delle altre minoranze religiose presenti sul territorio nazionale (principalmente quelle islamiche), sia
ad opera del mondo liberal, che di sovente li addita come un ingombrante intralcio nel cammino verso le meravigliose sorti e progressive di emancipazione.
A destare dubbi è anche la metodologia di indagine.
In certi passaggi (specialmente nei primi capitoli), le affermazioni suonano apodittiche, come se ci si fosse imposti una precisa tabella di marcia e si debba sgomberare il campo da ogni possibile ostacolo. È esemplare quanto riportato nelle sezioni dedicate agli OGM: “La possibilità di mischiare pezzi di DNA appartenenti a specie o “regni” animali e vegetali differenti non è qualcosa di bizzarro, anzi, proprio noi sapiens condividiamo gran parte dei nostri geni con molti altri organismi del Creato. Come molte altre scienze, l’ingegneria genetica nasce dalla comprensione e gestione di un fenomeno del tutto naturale. Ogni organismo attualmente vivente è "geneticamente modificato" poiché ha subito nel tempo profonde e naturali modifiche genetiche […] L'ingegneria genetica non fa nulla di diverso rispetto alla Natura ma lo fa in modo più strumentale e preciso: infatti, solo una minuscola parte del corredo cromosomico viene modificata in maniera specifica con lo scopo di ottenere un determinato risultato”. Si pone l’accento esclusivamente sulle ragioni a favore, come se non esistessero motivazioni plausibili per dissentire o come se le critiche al riguardo fossero qualcosa di pretestuoso ed ostruzionista a prescindere. Questo atteggiamento, tetragono, proprio di chi cammina indossando dei paraocchi, rischia di sminuire l’importanza del dibattito, laddove sarebbero necessari costanti approfondimenti, in particolare per quanto attiene alle implicazioni sulla salute delle persone.
Infine, una pecca vistosa è la mancanza di definizioni perspicue ed una certa schizofrenia concettuale. Si veda il capitolo sul pianeta lgbt, costruito sulla differenza semantica fra “naturalità” e “normalità”.
Si qualifica l’omosessualità come naturale e la si considera non normale perché statisticamente minoritaria. Tuttavia, i due concetti sono usati in modo interscambiabile nel prosieguo della trattazione.
Senza accorgersene, l’autore incorre in una fallacia logica. Le sue premesse sono:
a) in natura, l’elemento forte prevale, adattandosi, e l’elemento debole soccombe, estinguendosi;
b) l’omosessualità, intesa come variazione dell’orientamento sessuale, è l’elemento debole.
La conclusione dovrebbe essere la scomparsa dell’elemento debole. Eppure, si sostiene che l’omosessualità esista sin dal mondo classico e che, attualmente, i suoi “adepti” siano in aumento. Sotto un profilo squisitamente logico, questo dovrebbe voler dire due cose: o che l’omosessualità non è elemento debole (perlomeno non come lo intende il militare), oppure che essa si pone in contrasto con le leggi della natura. Non potrebbe quindi essere “naturale”.
La sensazione è che, pur dichiarando di voler assumere una posizione univoca, si ritenga preferibile
una sostanziale reticenza, favorita dall’imprecisione terminologica. Inoltre, sebbene, nelle pagine precedenti, ci si sia professati ostili alla percezione soggettiva della realtà ed alle figurazioni mentali contrastanti con l’obiettività fattuale, si asseconda il vezzo di chiamare gli uomini trans con articolo e desinenza femminili: “Isla Bryson – una donna trans giudicata colpevole di due stupri compiuti prima di ini ziare la transizione – è stata richiusa in un carcere femminile scatenando, giustamente, un putiferio. Lia Thomas ha portato alla ribalta delle cronache un caso ormai grottescamente noto da anni. Lia è un’atleta trans statunitense che, nel 2020, è passata dalle categorie maschili a quelle femminili del nuoto universitario”. Un autentico pastiche!
GIUDIZIO
Il libro ha un merito innegabile: l’aver destato dal torpore della pausa estiva il dibattito politico, focalizzandolo su temi di comune interesse. La polarizzazione delle opinioni che ha ingenerato ed il rapido successo che sta riscontrando nelle vendite sono segno evidente di un interesse della popolazione per i contenuti trattati. È sempre cosa buona e giusta che la politica, sottratta agli spazi esoterici dei palazzi istituzionali, sia ricondotta alla sua matrice popolare e che i cittadini rivendichino il loro diritto, nelle forme partecipative costituzionalmente garantite, a gestire la res publica. Quali che possano essere le reazioni alle parole del generale, le discussioni che producono sono arena, agone, vita democratica. Privarsene, per ottuso ostruzionismo pregiudiziale o per inconcludente ignavia, equivale ad insensato scarico di responsabilità e comporta insidiose deleghe in bianco di titolarità di sovranità: “Se non ti occupi di politica, la politica si occuperà di te” (Ralph Nader).
Altro grande merito, invero più conseguente alle reazioni dei vertici decisionali che all’opera in sé, è l’aver, in qualche misura, temprato lo scettro dei regnanti, sfrondandone gli allori e mostrando le intime contraddizioni di cui gronda. È davvero difficile, dopo una lettura non preconcetta, capire quale possa essere stato il fallo del generale, tutelato, fra l’altro, nella libera manifestazione del proprio pensiero, dal dettato costituzionale (art. 21 Cost.) e da apposite leggi speciali (art. 1472 del codice dell’ordinamento militare). Tanto più arduo se si considera che moltissime delle sue posizioni sono alla base dei programmi elettorali dei partiti dell’attuale maggioranza e che, comunque, non si discostano sensibilmente dall’idem sentire moderato. Se persino questo deve essere oggetto di pubblica abiura, cosa rimane davvero da conservare, se non uno strianesco “resto di niente”?
L’atteggiamento con cui il lavoro avrebbe dovuto essere accolto, assai banalmente, è quello di un parere proveniente da una carica di prestigio, di alta formazione e di onusta esperienza. Parere dal quale far poi gemmare una discussione più ampia, variegata, “inclusiva”, magari anche in contrasto con le conclusioni di Vannacci, ma pur sempre con esse in dialettica tensione. Invocare, frettolosamente, la damnatio memoriae ovvero improprie scomuniche a divinis, senza essersi presi la briga di approfondire, è reazione scomposta, isterica, irragionevole, che finisce col confermare gli
assunti del militare. Si corre così il rischio, per sedare il fastidio suscitato da alcune frasi equivocabili, di uccidere nella culla tante altre proposte ragionevoli ed apprezzabili (il sostegno alle persone anziane, un ripensamento dei servizi all’infanzia, un possibile reddito di genitorialità”), assenti nei lavori parlamentari e nelle accese querelles televisive.
Veniamo alle debolezze.
L’impalcatura argomentativa è tutt’altro che granitica e presenta crepe di cedevolezza.
Le tesi contrarie a quella sostenuta sono menzionate per brevi cenni, per lo più liquidate sbrigativamente come faziose ed utopistiche. Nonostante la lunghezza, alcuni argomenti (in particolare, gli OGM) sono appena sbozzati. Non mancano i luoghi comuni (ad esempio, la presunta “tolleranza” sessuale del mondo classico contrapposta alla demonizzazione dei secoli successivi; l’accezione negativa della parola “medievale”; la connotazione patibolare dell’inquisizione; il contrasto insanabile fra scienza e teologia). Più che alla Verità oggettiva – che pure è invocata -, si guarda ad una verità relativa ancorché condivisa. L’autore, consapevole di questi limiti, dissemina distinguo e caveat, ma l’impressione è di avere davanti una fotografia dimensionalmente appiattita e con poca profondità, pur se assai fedele. Si dimostra un valido cartografo, non un fine analista.
Non si investigano a fondo le cause e, di conseguenza, le soluzioni suggerite sono palliativi provvisori, tamponi precari. La ricerca, peraltro, è orientata secondo una direttrice univoca ed unidirezionale: individuata la strada da seguire, la si percorre a passo deciso, cadenzato. Nessuna esitazione, nessun ripensamento. Ciò potrebbe considerarsi elemento di congruità se non fosse che, in questo percorso marzialmente scandito, si incorre talvolta in definizioni vaghe ed in semplificazioni contenutistiche. La stella polare inseguita è quella del “Buonsenso”, concetto presentato con contorni fumosi, come sinonimo di “senso comune”, inteso quale generico sentire, opinione della maggioranza. Occorrerebbe sul punto maggiore precisione, per scongiurare derive semanticamente e culturalmente pericolose. Il buonsenso, come uso moderato, equilibrato della ragione, non coincide, purtroppo, col senso comune. Lo ricorda Manzoni, a proposito della peste: “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. Discorso tristemente d’attualità, oggi, in epoca post pandemica. Ed il generale, che, citando Orwell, dimostra di conoscere e comprendere l’importanza di un linguaggio foriero di significati concreti, non può ignorarlo. Il nitore concettuale ed il rigore tassonomico sono indice di limpidezza di pensiero e servono a distinguerlo dalle fumisterie dei manifesti politici e delle ideologie.
A non convincere pienamente, a ben vedere, è proprio l’idea alla base del libro: quella secondo cui concetti come “normalità”, “democrazia”, “giustizia” debbano essere spiegati in base ad un rapporto statistico di predominanza e prevalenza, nel quale la maggioranza decide e la minoranza, nel rispetto, si adegua. Circostanza che il generale sembra ritenere universalmente applicabile ed
intrinsecamente preferibile. Non persuade la fatalità ineludibile di cui tale idea pare intrisa, quasi si trattasse di un assioma immodificabile ed intangibile. Sono ancora aperte le ferite dolorose di quella minoranza silenziosa che, nel vivo della campagna vaccinale anti-covid, si è vista privata di tutto: dignità, lavoro, finanche della possibilità di esprimersi e del diritto di esistere. E risuona ancora l’eco angosciosa degli insulti, degli improperi, del disprezzo vomitato dalla maggioranza degli italiani su chi si era macchiato del turpe delitto di non voler subire un trattamento sanitario. Incancellabile, infine, il ricordo che tanto odio ingiustificabile ed inconcepibile emanava dalle più alte cariche dello Stato, anche (purtroppo) da illustri colleghi pluridecorati del generale.
Quali parole rivolgerebbe costui a quella minoranza, che non occupava abusivamente edifici pubblici, non bestemmiava Cristo e la Madonna, durante vergognose sfilate lubriche, con ignominiosa tracotanza, anzi, Li invocava in dignitoso e reverenziale raccoglimento, inginocchiata per strada, coi rosari in mano? Quella minoranza non rivendicava il “plenipotenziario diritto di avere diritti”; non inscenava teatrini dell’assurdo estrapolando, dal cilindro dei nuovi patemi, l’ecoansia; non si strappava le vesti in suffragio dei bagni per trans. Forse, essa comprende parte delle persone che, oggi, acquistano il libro. Persone alle quali il diritto di manifestare il proprio pensiero è stato arbitrariamente negato e che, ciononostante, difendono quello altrui, non perché vi sia consenso maggioritario, ma perché ritengono un bene farlo.
Ciò comprova che il criterio di discernimento per orientarsi nei meandri apocalittici del mondo à rebours tratteggiato da Vannacci non può essere il blando riferimento ad un indefinito “buonsenso”, non almeno quando si voglia farlo coincidere con l’opinione prevalente, il sentire statisticamente predominante. La società umana rimane ben distinta dal resto del Creato. Se è vero che “Non si può applicare un principio etico ad un sistema che non conosce morale in quanto dimensione prettamente umana”, è vero, a fortiori, anche il contrario: un sistema di leggi valido per chi non conosce morale non andrebbe applicato alla dimensione umana, retta da principi etici.
Non occorrerebbe, semmai, guardare al fondamento di quel buonsenso, a quel formante (la lex naturalis), riconoscibile attraverso la ragione, che renda il senso “buono”, oggettivamente ed universalmente, superando tanto i limiti quantitativi della statistica quanto le deviazioni illusorie del soggettivismo?
“Il mondo al contrario”, in definitiva, pare destinato a scontentare un po’ tutti: sia quelli che, ritenendolo irricevibile a priori, si asterranno dal leggerlo, sia coloro che lo acquisteranno nella fuggevole speme di poter incoronare un nuovo messia. Va senz’altro tributato l’onore delle armi, per aver difeso valori di patrimonio comune, in una società in cui sembra diventato necessario brandire spade e levare scudi per affermare che le foglie sono verdi. Tuttavia, non vanno sottaciute le approssimazioni, le fallacie logiche, le reticenze. Andrebbe consultato come un memorandum pragmatico, su cui provare ad innervare un confronto responsabile e maturo, scevro di pre-giudizi
ideologici e seriamente orientato alla soluzione dei problemi esaminati. E, probabilmente, in risposta all’ostracismo censorio che denuncia (e di cui, in parte, è vittima), andrebbe letto non tanto per incondizionata fiducia, bensì per mera petizione di principio, per il gusto della civile ribellione, pour la beautè du geste.
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