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In odium fidei: da Erode all’abortismo

universitari per la vita Dec 30, 2022

da universitariperlavita.org

Il 28 dicembre, la Chiesa Cattolica ricorda i Santi Martiri innocenti, i primogeniti uccisi, in odium fidei, dalla follia omicida di Erode che non poteva accettare la legittima regalità di Nostro Signore. Alla luce di questa ricorrenza, una riflessione su quanto accade oggi sembra necessaria: ci apprestiamo a chiudere l’anno 2022 e il sito Worldometers riporta più di 42 milioni di aborti compiuti, accingendosi a ri-azzerare il macabro conto degli innocenti distrutti, per poi ri-avviarlo dalla mezzanotte del 1° Gennaio con il solito ritmo di circa 2 innocenti al secondo uccisi nel mondo.

Oggigiorno, Erode non è più un caso eccezionale di malvagità, ma la regola per molti paesi sedicenti “civili” e “al passo coi tempi”, tristemente inclusa l’Italia, dove da ormai quasi 45 anni la famigerata 194 continua a causare una inconcepibile strage di innocenti (il prossimo tremendo anniversario, 22 maggio 2023, sarà proprio il 45° della promulgazione). Non bisogna però illudersi che tutto sia cominciato con la 194/78: il processo messo in atto dalle lobby abortiste per ribaltare il giudizio dell’opinione pubblica sull’aborto procurato era già in atto da tempo e, prima ancora della 194, esso aveva già raggiunto un traguardo fondamentale: si tratta della sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975 con cui, per la prima volta, si introduceva nel nostro ordinamento giuridico la possibilità di abortire anche per semplici motivi di “salute” della donna. Questa sentenza è l’antesignano dell’iniqua legge 194, nonché spartiacque decisivo per la legalizzazione dell’aborto nel nostro paese.

La Corte sfruttò a proprio vantaggio il caso di una donna milanese, Minella Carmosina, che nel 1972 fu penalmente perseguita in base all’art. 546 del Codice Penale (abrogato successivamente dalla 194 assieme a tutto il Titolo X – Dei delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe) che vietava l’aborto di donna consenziente con la reclusione da due a cinque anni. Il giudice del Tribunale di Milano sollevò questione incidentale di legittimità costituzionale di tale articolo in quanto puniva l’aborto di donna consenziente anche laddove fosse stata “accertata” la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico o per l’equilibrio psichico della gestante. Infatti, all’epoca, l’aborto poteva essere eccezionalmente esente da provvedimenti penali solo per un pericolo graveassolutamente inevitabile e, soprattutto, attuale di danno per la madre (secondo il dettame dell’art. 54 c.p. sullo stato di necessità) e non a scopo medico per evitare che la donna incinta subisse aggravamenti di preesistenti alterazioni fisiche. L’atteggiamento del legislatore era tutt’altro che favorevole all’aborto, ma semplicemente egli, pur preservando lo sfavore per la pratica, non riteneva opportuno punire una donna già fortemente provata per la propria condizione e spinta ad abortire probabilmente più per disperazione che per convinzione. A differenza della legislazione successiva, l’impunibilità non implicava l’approvazione (né in quel caso specifico, né tantomeno tout court).

La sentenza del ’75 costituì un totale rovesciamento di paradigma, in quanto riuscì a dire che il concepito partecipa dei princìpi contenuti nella nostra Costituzione: «Ritiene la Corte che la tutela del concepito […] abbia fondamento costituzionale. L’art. 31, secondo comma, della Costituzione impone espressamente la “protezione della maternità” e, più in generale, l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito», salvo poi affermare: «E, tuttavia, questa premessa – che di per sé giustifica l’intervento del legislatore volto a prevedere sanzioni penali – va accompagnata dall’ulteriore considerazione che l’interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godano pur essi di tutela costituzionale e che, di conseguenza, la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione. Ed è proprio in questo il vizio di legittimità costituzionale, che, ad avviso della Corte, inficia l’attuale disciplina penale dell’aborto». Concludendo: «La scriminante dell’art. 54 c.p. si fonda sul presupposto d’una equivalenza del bene offeso dal fatto dell’autore rispetto all’altro bene che col fatto stesso si vuole salvare. Ora non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare».

La Corte si avvalse di un ipocrita escamotage, impiegando un termine, quello di “persona”, assolutamente estraneo alla giurisprudenza – giacché la legge non ha mai parlato di uomini persone e uomini non persone – e di tenore filosofico, per giustificare la pratica dell’aborto non tanto per stato di necessità, ma per tutelare il bene della “salute psico-fisica” della donna (cosa che sarà poi ripresa a piè pari nella 194). A rigore, dunque, bisognerebbe datare la legalizzazione dell’aborto in Italia non al 1978, ma al 1975, analogamente a quanto avvenne negli Stati Uniti, dove l’aborto fu reso lecito, appena due anni prima, dalla famosa sentenza Roe v. Wade, ribaltata il 24 giugno scorso dalla maggioranza pro-life della Corte Suprema americana. Far memoria delle tattiche della Corte è necessario, dal momento che, indipendentemente dal Parlamento, essa può ancora riservare delle (brutte) sorprese sul tema della vita umana innocente.

Fabio Fuiano

Fonte: Corrispondenza Romana

Immagine di copertina :Domenico Ghirlandaio, Strage degli innocenti, 1485-90, Basilica di Santa Maria Novella, Firenze.

 

 

 

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