Il virus del politicamente corretto avvelena anche te. Boicottalo
Aug 01, 2022di Antonio de Felip
Voi la guardate la pubblicità? Non negatelo: magari distrattamente, magari facendo zapping, magari solo a pezzetti, anche voi la guardate, anche se giurate, e vi credo, di guardare poco la televisione che giustamente ritenete volgare, stupida, totalitariamente schierata a sinistra, ottusamente propagandistica, spesso in malafede e menzognera. Il falsificante isterismo russofobico di questi giorni ne è una chiara dimostrazione.
Però la pubblicità ha un vantaggio su di noi: è ripetitiva, martellante, è confezionata, quasi sempre, da professionisti della comunicazione e della manipolazione, aspira ad essere gradevole (non sempre riuscendovi, come nel caso di quella per l’8 per mille alla Chiesa Cattolica, vera apologia del brutto e totalmente priva di qualsiasi senso del religioso), accattivante, insinuante. Basata su messaggi basici, non sofisticati, fa appello ai sentimenti e ai sentimentalismi condivisi e alle credenze comuni. Dominati dai dogmi delle dottrine mainstream (l’ecologia, il femminismo, l’antirazzismo, il multiculturalismo, l’ostilità alla famiglia naturale, l’omosessualismo, il genderismo eccetera) che hanno ormai conquistato una perversa egemonia culturale, molti spot pubblicitari veicolano non solo messaggi ideologici conformi a queste idées reçues, ma si fanno promotori attivi della loro diffusione, della loro “normalità”, addirittura della loro “valorialità”.
Probabilmente quello della pubblicità è un altro di quei settori professionali fortemente inquinati dalla sinistra, dove devi essere “progressista”, per conformismo o per convinzione, per poter lavorare. Oppure sono le grandi aziende che richiedono “pubblicità progressiste”. Fa moda, ed è più facile nuotare con la corrente a favore. E spesso sono gli headquarter delle multinazionali, condizionate dalle lobby liberal, come quelle ispirate alla cosiddetta diversity, a imporre queste pubblicità.
Sull’efficacia di questi messaggi, occulti o palesi, nel giungere a bersaglio (i nostri convincimenti profondi), si può dire lo stesso di quello che capita con le fiction, i film, l’entertainment in generale: le nostre soglie critiche, la capacità di vaglio ideologico di ciò che guardiamo, i filtri cognitivi dei messaggi sono meno attivi rispetto a un dibattito, a una trasmissione politica, a un telegiornale. Siamo più vulnerabili e i Signori della Menzogna lo sanno tanto bene da far passare l’imposizione di certi cambiamenti del sentire comune (ad esempio l’accettazione morale e sociale dell’omosessualità, l’immigrazionismo, il multiculturalismo, l’ecologismo e l’ideologia dei cambiamenti climatici antropici eccetera) proprio attraverso le fiction e le pubblicità. In questo modo la pubblicità è uno strumento importante della famigerata “Finestra di Overton”, cioè di quel processo di ingegneria sociale volto a cambiare, in modo quasi inavvertito, le mentalità collettive e a imporre l’accettazione di ciò che, solo qualche decennio fa, risultava totalmente inaccettabile.
È comunque certo che anche nella pubblicità si è imposta quella falsificante neolingua orwelliana fatta di sostantivi e aggettivi che, se ci pensiamo bene, sono di per sé totalmente in-significanti, ma che veicolano implicitamente e surrettiziamente le ideologie che il Sistema vuole imporci. Ecco, ad esempio, l’aggettivo “sostenibile”, che troviamo in quasi tutti gli spot, insistente, inflazionato, ormai un vero tic linguistico, applicato alla pubblicità di tutti i possibili prodotti e servizi, o ancora “responsabile”, spesso abbinato a “scelta” (come se abitualmente le nostre scelte fossero irresponsabili). Per non parlare di termini come “ambiente”, “ecologico” (qualcuno esagera con “eco-green”) e così via. In crescita il più sofisticato (nel senso di sotto-testo indottrinante) “inclusivo”, che piace tanto alla sinistra post-comunista, immigrazionista e bergogliana, ma in particolare alla gauche-caviar, che ci chiede di essere sì inclusivi, purché non a casa sua.
È comunque l’ambientalismo l’ideologia predominante, in tutte le sue forme (estrema, neo-borghese, alla moda, casalinga, giovanilista, ammiccante a Greta e ai gretini, catastrofista e così via) in tutti i messaggi pubblicitari. Osserva Marcello Veneziani nel suo ultimo libro La Cappa: In giro è un tripudio di “bio” e di “chilometri zero”, un’orgia di veganesimo, animalismo, fattorie, sapori dell’orto e cibi genuini. […] Non c’è multinazionale, catena d’ipermercati, impresa alimentare, bancaria e assicurativa, che non faccia pubblicità vantando il suo prodotto non per le sue qualità specifiche ma perché ecosostenibile, perché rispetta i protocolli della retorica ambientalista, partecipa alle campagne contro la plastica, alla raccolta volontaria dei rifiuti, al riciclo e al catechismo idrogeologico e atmosferico in versione global. […] Il futuro sostenibile è venduto in confezione unica dagli emissari del potere ideologico e commerciale.
C’è solo da chiedersi se i pubblicitari e gli esperti di marketing siano proprio convinti che la maggioranza dei connazionali creda veramente alle bufale ecologiste e che quindi il ricorso al più vieto, irritante, ripetitivo armamentario ideologico e linguistico ambientalista possa risultare commercialmente di successo. Può anche darsi che il loro vivere in un empireo di sondaggi e ricerche di mercato li abbia allontanati dal sentire comune e dalla vita reale. Ipotesi parallela: non ci credono neppure loro, ma vogliono egualmente condizionarci perché, vera o falsa, creduta o non creduta, l’ambientalismo è l’obbligante ideologia mainstream.
Rimane il fatto che questi continui richiami ai temi ecologisti per promuovere le vendite non solo sono irritanti e infastidenti, ma suonano anche falsi, talvolta incomprensibili e anche ridicoli, come i “pisellini da agricoltura sostenibile” di una nota marca di surgelati. Cosa vuol dire “agricoltura sostenibile”? Lo stesso dicasi del basilico del pesto di una marca di pasta. Usano meno pesticidi? praticano l’agricoltura biodinamica, quella inventata dal teosofo-stregone Rudolf Steiner? E i “tessuti ecosostenibili” di una marca di tende? Di cosa son fatti? E come fanno alcuni traghetti per le isole a essere “più ecologici”? Vanno a vela?
Poi ci sono i “mercatini delle pulci” via web, quei siti che ci consentono di mettere in vendita i prodotti che non ci piacciono più e di farci qualche soldino. Pratica da società impoverita sulla sciagurata strada della famigerata “decrescita” e di quella “sobrietà” che piaceva tanto alla sinistra di quarant’anni fa. Lo slogan di uno di questi siti: “sostieni la sostenibilità, la natura ti ringrazierà”. Paraponziponzipà. Appunto: ovunque ci si giri, è un tripudio di “sostenibilità”. Una marca giapponese di auto ci vuole convincere che le loro vetture hanno “prestazioni sostenibili”.
Cosa vuol dire? Quali sono, per un’auto, le “prestazioni sostenibili”? Che consuma poco? Ma allora dicano che consuma poco. E la “pesca sostenibile” vendutaci da un antipaticissimo e saccente imbonitore che proclama “peschiamo in modo sostenibile e poi dovremmo metterci anche la plastica?” o qualcosa del genere? Cosa intendono con “pesca sostenibile”? Che vanno a pesca con la scorta dei pirati assaltatori di navi di Greenpeace? O che non usano reti a strascico ma barche a remi e lampare? In ogni caso non ho colmato la mia ignoranza sull’ “acquacultura responsabile” vantata da questa azienda. Di grazia, cos’è? E da cosa si riconosce invece una “acquacultura irresponsabile”?Quella che usa le bombe a mano per pescare i pesci?
Certo, c’è sempre da imparare, dalla pubblicità green: prendete quella che decanta una birra fatta con il 100% di prodotti naturali. Poffarbacco: non sapevo che la birra si potesse fare anche con la plastica. Starò più attento alle etichette.
Cambiamo settore. La pubblicità della notissima casa svedese di mobili a buon prezzo, che poi per montarli devi chiamare un ingegnere meccanico, è una melassa concentrata dei più stucchevoli luogocomunismi ambientalisti, di suggestioni gretine (non per nulla è svedese pure la ragazzotta ingrugnita che marina la scuola per salvare il mondo), di buonismo dolciastro a buon mercato, una pubblicità infarcita di frasi che mettono tristezza nella loro ripetitiva banalità, come “impegno per l’azione per il clima”, “salvaguardare la vita del pianeta”, “business circolare”, “svolta green”, “lotta contro la povertà e i cambiamenti climatici”, “sostenibilità e attivismo sociale” (ovviamente sostenibilità è la parola più usata). I pubblicitari ecologisti, prima di essere conformisti, promotori di tesi indimostrate, enfatici nella loro bolsaggine retorica, sono semplicemente noiosi.
Una delle pubblicità più irritanti è quella di una marca di mele trentine. Non me ne vogliano gli amici di quella bella regione, le loro mele saranno sicuramente buone, ma è la pubblicità che mi disturba: è un infiocchettamento ecologista che si conclude con un “ci piace chi la pensa come noi”. Oh bella, se io non la penso come voi, se non mi iscrivo a Legambiente, non posso mangiare le vostre mele? Così, fatemelo sapere.
Una compagnia aerea low-cost dichiara di “compensare le emissioni di CO2”. Anche in questo caso, cosa vuol dire? Che per ogni volo piantano dieci alberi, come vorrebbe la vulgata green? Quella del piantar alberi per migliorare il clima è un altro di quei luoghi comuni che piacciono tanto agli ecologisti.
È cosa ben diversa da quella che facevano i nostri bisnonni, che piantavano un albero quando nasceva un figlio: gesto bellissimo, dal significato profondo, religioso. No, questi vogliono piantar alberi perché così salvano l’Italia sull’orlo, secondo loro, della desertificazione. Un detersivo per lavapiatti vuole convincerci che, se usiamo le loro pastiglie, possiamo evitare di sciacquare le stoviglie prima di metterle nella lavastoviglie e così facendo risparmiamo acqua e salviamo l’Italia, perché, secondo costoro, un quinto del nostro territorio sarebbe a rischio di desertificazione. Un quinto. Da segnalare una diffusissima catena di supermercati, aderente alla Lega delle Cooperative, onnipresente nella pubblicità con stucchevoli slogan sulle cose e le persone e clienti cretini che non riescono a trovare i prodotti scontati, ha deciso di “forestare l’Italia”, piantando 20.000 alberi in 20 regioni italiane. Lodevole programma, analogo a quello di una grande finanziaria di credito al consumo, appartenente a uno dei gruppi francesi che, complice l’Unione Europea, stanno colonizzando il nostro sistema bancario, che promette: “un albero per te e per il pianeta.”
La realtà è ben diversa: l’Italia non ha bisogno di essere “forestata”: si sta “ri-forestando” da sola: i boschi italiani sono aumentati di 587mila ettari negli ultimi 10 anni, 270mila ettari solo negli ultimi cinque, pari alla provincia di Modena. Questi dati scontano già i nefasti effetti della tempesta Vaia del 2018, che distrusse migliaia di ettari di bosco nel Nord-Est. L’incremento della superficie forestata è stato del 25% negli ultimi 30 anni e addirittura del 75% negli ultimi 80 anni. E non è necessariamente una buona notizia: significa che abbandoniamo l’agricoltura, diminuisce l’indipendenza alimentare, aumentano i rischi di incendi che non sono dovuti a presunti cambiamenti climatici, ma all’incuria dei suoli. Quindi non facciamoci commuovere dall’immagine idilliaca di aziende verdi che piantano alberi. E neppure dal concetto, del tutto anti-scientifico, della cosiddetta “impronta ecologica”, tradotta in immagine (l’impronta di un piedone sulla sabbia) e usata da una società distributrice di energia nei suoi spot.
L’ambientalismo non è la sola ideologia impostaci dalla dittatura della politically correctness veicolata dalla pubblicità. Vi è anche quella relativa al mondo cosiddetto LGBT eccetera, eccetera (l’acronimo si allunga sempre di più). E non ci riferiamo qui alla propaganda di regime fatta di spot ministeriali che hanno lo scopo di “rieducare le masse” inculcando l’accettazione sociale delle coppie omosessuali e che intimano la delazione a enti governativi nel caso di presunta “omofobia”, spot pagati con i nostri soldi e che probabilmente è una rappresaglia per la mancata approvazione della legge Zan.
No, spesso compaiono immagini, più o meno palesi, più o meno accennate, più o meno ambigue, più o meno veloci, al limite del subliminale, di outing di gesti omosessuali in passaggi pubblicitari di vario genere. Come nella pubblicità di una carta di credito americana. Molto più esplicita è una scenetta trasmessa nella pubblicità di un sito di compravendite immobiliari. Non solo propaganda omosessualista, ma anche l’annuncio di un supporto al gay-pride. Iniziò la nota marca di pasta, il cui proprietario era stato posto sotto minaccia dalle lobby omosessualiste per aver parlato bene della famiglia normale, poi seguirono altre marche. Il fenomeno non è aumentato di molto, segno che ancora il pubblico, in buona parte ancorato alla morale tradizionale, gradisce poco queste esibizioni e quindi c’è ancora qualche prudenza da parte di aziende che poi spesso finanziano anche i gay-pride e l’indottrinamento obbligatorio dei dipendenti. Ambigua la pubblicità di una marca di prodotti avicoli che esordisce con la frase “Le famiglie sono cambiate”. In che senso? Cosa sottintende? A cosa allude? Che lo chiarisca, così possiamo indirizzare meglio i nostri acquisti.
Un altro messaggio, ispirato alla politically correctness, è quello veicolato dalla presenza sempre più frequente di persone di colore nella pubblicità. Con gli attuali tassi di immigrazione clandestina, ci avviamo a diventare una società multirazziale, con tutto quello che ciò comporta. In parte lo siamo già e lo vediamo da quello che succede nelle periferie delle grandi città, ma non solo: disordini, sistematiche aggressioni di massa a donne bianche, rapine seriali, violenze sui mezzi pubblici, località di villeggiatura occupate e saccheggiate dagli immigrati che ne rivendicano il possesso: “Questa è Africa”, urlavano a Peschiera.
Tuttavia per la pubblicità tutto ciò è normale. Gli spot “multietnici” sono un minaccioso invito, un’intimazione ad accettare il fatto che la Grande Sostituzione è in marcia e, ci dicono, è una marcia inarrestabile. Avremo ancor più problemi nelle periferie: continue violenze, devastazioni, incendi come nelle banlieue francesi, svedesi e di altri paesi europei. Saranno quartieri off-limits per la polizia, dominate dalla cupa legge della sharia. Avremo la versione italiana dei terroristi dei Black Lives Matter. La pubblicità ci stata preparando, o meglio educando, ad accettare un futuro coloured. A proposito, segnaliamo che, per dovere di antirazzismo, L’Oreal ha eliminato le parole “bianco”, “sbiancante” e “chiaro” dalle sue comunicazioni. La formulazione cosmetica della cancel culture.
Alcuni osservatori, più attenti, si sono resi conto di questa forma di propaganda. Tra questi dobbiamo segnalare lo scrittore Rino Cammilleri che, sul suo blog, ha così ironizzato sul fenomeno: “Gli immigrati africani hanno trovato un lavoro sicuro: fare la comparsa in tutti gli spot pubblicitari. Tutti.” E ancora: “Mi fa morire lo spot che mima la Primavera di Botticelli: sono riusciti a mettere un negro pure lì.” Caustico anche il giornalista Mario Giordano che, nella sua risposta a un lettore su LaVerità, commenta la nuova pubblicità di Dolce e Gabbana: “Non l’ha vista? Le consiglio di farlo subito. Ieri occupava due paginate sul Corriere della Sera: laddove un tempo c’erano Monica Bellucci e Bianca Balti, adesso posa una matrona, diciamo formato extralarge, tutta nuda e con le forme in vista. Che cos’è che la rende attraente? Ovvio: è nera. E oggi se non fai una campagna pubblicitaria con un nero, un afroamericano, almeno un mulatto tendente allo scuro, non sei nessuno. Se arrivasse sulla terra un alieno e volesse farsi un’idea dell’Italia guardando gli spot pubblicitari, penserebbe che siamo diventati il Senegal. E, purtroppo, avrebbe persino ragione.”
Sì, c’è un problema: molte multinazionali sono sempre più impegnate, al loro interno e nel contesto sociale, a sostenere, assai spesso in modo estremo, le cause liberal: l’abortismo, il femminismo, l’omosessualismo, la società multirazziale, la decostruzione ideologica della figura e della cultura del vituperato “maschio bianco eterosessuale”. Amazon ha deciso di pagare, come fosse un qualsiasi benefit aziendale, l’aborto e relative spese di viaggio per le proprie dipendenti, considerato anche che sono sempre più numerosi gli Stati degli USA che introducono limitazioni all’interruzione di gravidanza (e sempre di più lo saranno dopo la benedetta sentenza della Corte Suprema) e ciò ha generato un certo “turismo abortivo”. Purtroppo, Amazon non è la sola a finanziare gli aborti: anche Starbucks, Levi Strauss, Apple, Google, Meta (cioè Facebook e Instagram), Citigroup, Microsoft, Netflix, Condé Nast, Sony, Warner Bros e molte altre. Alcune di queste finanziano non solo gli aborti, ma anche i “cambiamenti di genere” e Planned Parenthood, la multinazionale dell’aborto.
E non c’è solo l’aborto. Il fondatore Walt Disney, che era notoriamente un feroce anticomunista e un sostenitore del patriottismo e della famiglia, si starà rigirando nella tomba nel vedere la sua azienda impegnata nel più sfrenato attivismo omosessualista (come ha ben documentato Mario Di Giovanni in un suo articolo su questo sito https://www.ricognizioni.it/loccidente-libertino-in-guerra-contro-lordine-cristiano/): abolizione dei generi nei suoi parchi, adesione alla campagna contro lo Stato della Florida che ha vietato l’introduzione dei temi gender negli asili e nelle elementari, propaganda sodomita nelle fiction con un “bacio gay” in Toy Story e in altre produzioni, i gay-pride ospitati a Disneyland. Ma l’impazzimento delle aziende non finisce qui: la Lockheed Martin invia i suoi dirigenti in corsi per decostruire la loro “cultura di uomini bianchi” e ad espiare il loro “privilegio bianco”. La Coca-Cola esorta i suoi dipendenti ad essere “meno bianchi”, e si potrebbe continuare in questa galleria degli orrori.
Ecco, quante volte sentiamo cianciare di “acquisti responsabili” da parte di lobby ambientaliste, associazioni di consumatori, gruppi di presunti cattolici “equosolidali”, cooperative immigrazioniste e terzomondiste? Perché allora non pratichiamo anche noi gli “acquisti responsabili”, ma a modo nostro, boicottando sistematicamente le aziende, multinazionali e no, che finanziano e appoggiano la perversione, gli aborti, le politiche denataliste? Perché non boicottare tutte quelle aziende e tutti quei prodotti che ci molestano con la loro pubblicità “verde”, con i loro menzogneri slogan ecologisti o con immagini multikulti fasulle e falsificanti che non rappresentano la società reale e normale, almeno non quella che la maggioranza delle persone per bene vuole preservare? Ovviamente, facendolo sapere in giro e invitando gli altri a fare lo stesso.
Ci ammoniva Aleksandr SolĆŸenicyn nel suo messaggio dal titolo Vivere senza menzogna, indirizzato al popolo russo prima del suo esilio: “Il nostro modo di vivere dev’essere il seguente: mai sostenere coscientemente le menzogne”. Accogliamo il suo invito.
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