Il tempietto longobardo a Cividale, perla misteriosa
May 22, 2022di Francesco Lamendola
Se vi capita di arrivare a Cividale, deliziosa cittadina friulana a cavallo dei Natisone e ai piedi delle Prealpi Giulie, non dovete mancare di recarvi a vistare il cosiddetto Tempietto Longobardo, che è forse la sua perla storico-aristica più preziosa, anche e non molto conosciuta a livello nazionale e, soprattutto, avvolta da un certo qual fascino di mistero. Infatti sono molte le cose che non si sanno a proposito di questo straordinario edificio e delle opere che contiene, specie i pregevolissimi stucchi con le immagini dolcissime delle Sante dai morbidi panneggi e i tralci di vite carichi di grappoli che corrono fra due cornici attorno alla lunetta con l’affresco, purtroppo assai deteriorato, del Verbo incarnato. Molti turisti arrivano fin qui e vistano il Duomo e il Museo longobardo, ammirano il ponte spettacolare che scavalca il corso incassato del fiume Natisone, noto popolarmente come il Ponte del Diavolo, perché, come altri ponti medievali, la sua costruzione è abbellita da leggende relative alla cooperazione involontaria del diavolo, utilizzato e abilmente ingannato per superare le grandi difficoltà costruttive; ma il tempietto Longobardo non lo vanno a visitare, o perché ne ignorano l’esistenza o perché ne sottovalutano, l’importanza, ma a torto. Di fatto, è il più notevole manufatto artistico della regione relativo ai secoli dell’alto Medioevo, fatta eccezione per alcuni edifici altrettanto importanti che sorgono nell’area di Aquileia e Grado e per la chiesa di Santa Maria di Castello, sul colle di Udine.
Sono contrastanti le impressioni che si provano allorché ci si trova all’interno di questo piccolo, raccolto e suggestivo edificio, che sorge quasi a picco sull’alta sponda del Natisone, e che sarebbe più giusto chiamare semplicemente Oratorio di Santa Maria in Valle, dal nome dell’antico convento femminile benedettino entro il quale si trova (poi delle Orsoline), perché in effetti non è un tempio e non è nemmeno longobardo, in quanto non è riferibile all’ambito artistico longobardo, chiunque fossero le maestranze che l’hanno realizzato. Colpisce l’idea che nel 760, cioè in pieno alto Medioevo e prima della Rinascenza carolingia, vi fossero degli artisti capaci di modellare forme e figure così squisite, di animare con un soffio di vita le figure sorridenti e soavissime delle Sante e di scolpire dei viticci e dei grappoli d’uva di una tale vivacità corposa e realistica, per non parlare della eccezionale leggiadria e armoniosità dei motivi decorativi che incorniciano sia il corteo delle Sante, sia i pampini d’uva, talmente ariosi e leggeri che paiono quasi dei merletti senza peso ricamati sulla tela e sottratti alle leggi della materia.
Questa, dunque, ci domandiamo senza raccapezzarci, sarebbe l’età buia per eccellenza, questa sarebbe l’epoca tenebrosa nella quale gli uomini vivevamo in condizioni materiali e intellettuali poco più che animalesche, guidati quasi solo dal puro istinto della sopravvivenza, o così almeno ci hanno detto e ripetuto senza sosta i signori che egemonizzano la cultura moderna e che indottrinano senza posa i giovani, per tirarli su secondo gli schemi, banalmente utilitaristi, del progressismo? È chiaro che la sorpresa sarà tanto più grande, quanto più il visitatore è imbevuto di pregiudizi scientisti e modernisti e quindi è del tutto impreparato ad una simile sorpresa. Ammesso che sia ancora capace di sorprendersi di qualche cosa: sarebbe interessante sapere ad esempio cosa dicono gli insegnanti di una scolaresca – quelli cresciuti ascoltando alla televisione i documentari di divulgazione scientifica di Piero e Alberto Angela, o leggendo i libri di astronomia di Margherita Hack, e che trovano Il nome della rosa di Umberto Eco uno dei più bei romanzi che siano mai stati scritti - quando portano qui in viaggio d’istruzione i loro studenti e devono pur spiegare loro, in qualche modo, lo sbocciare d’un fiore artistico così meraviglioso nelle tenebre fitte dell’ignoranza e della superstizione.
Per aiutare il nostro lettore a visualizzare lo spettacolo dei bellissimi stucchi scolpiti del Tempietto Longobardo, ci affidiamo alla descrizione di Giuseppe Bergamini, una importante figura di studioso dell’arte in Friuli, classe 1940, nato a Modena ma udinese d’adozione, che è stato dal 1980 al 1987 direttore dei Civici Musei di Storia e Arte di Udine e autore di numerose pubblicazioni (da: Il Tempietto Longobardo, Gli stucchi del Tempietto longobardo e Affreschi nel Tempietto Longobardo, in Agenda Friulana 1979, a cura di G. Bergamimi, Reana del Roiale, Udine, Chiandetti Editore, 1978, pp. 6-7; 12-13; 29):
IL TEMPIETTO LONGOBARDO.
È il monumento di maggior prestigio e senza dubbio il più conosciuto tra quelli esistenti a Cividale, in virtù dell’eccezionalità delle opere d‘arte in esso custodite, tanto che per molti il nome stesso della cittadina idealmente si identifica con quello del Tempietto Longobardo. Eppure ancora fitto è il mistero che circonda il piccolo edificio. Ne sono ignote sia l’originaria destinazione che la struttura primitiva, che le maestranze che vi operarono. Il nome stesso di “Tempietto Longobardo” è improprio, giacché tempietto non è e l’appellativo “longobardo” va riferito all’epoca della sua costruzione non già all’appartenenza dei suoi edifici a quel mondo artistico. Improprio, d’altra parte, è anche il titolo di “Oratorio di Santa Maria in Valle”, acquisito allorché divenne il fulcro del convento benedettino di Santa Maria in Valle. Cosa certa è, invece, che costruzione e decorazione in stucco e a fresco furono eseguite poco dopo la metà dell’VIII secolo, verso il 760.
L’edificio consta di un corpo centrale (esternamente a pianta quadrata, a debole croce all’interno) e del presbiterio a tre absidiole, di cui la centrale più ampia. La volta è a crociera nell’aula, a botte nelle absidiole. Architravi monolitici di età romana, sostenuti da colonne binate di spoglio con capitelli corinzi separano le navatelle, mentre un’iconostasi con plutei lisci lì delimita la zona dell’aula del presbiterio.
GLI STUCCHI DEL TEMPIETTO LONGOBARDO.
Poco dopo la metà dell’VIII secolo viene eseguita, nella parete d’ingresso del Tempietto Longobardo di Cividale la celebre decorazione in stucco (composto di gesso, calce e polvere di marmo). Essa si svolge su due registri: in quello superiore due fasce orizzontali, lavorate con motivi a rosette incise, con cavità al centro un tempo riempita con pasta vitrea, delimitano uno spazio nel quale trovano posto le sei Sante in altorilievo addossate al muro, affiancate in gruppi ternari, a destra e a sinistra di una monofora cieca, adorna di un archivolto, anch’esso in stucco, con finissimo motivo simile a trina, poggiante su due colonne sormontate da capitelli corinzi.
Nel registro inferiore una mirabile fascia lavorata a giorno corre con funzione decorativa attorno alla lunetta del Cristo Logos in affresco. Elemento principale dell’ornamento è il bel tralcio di vite a spirale con grappoli e pampini, racchiuso entro doppia cornice terminante con bordi a ovuli e sferette di vetro verde (nella maggior parte non più esistenti) al centro.
L’importanza degli stucchi cividalesi è rilevante, non solo in quanto essi sono praticamente l’unico esempio nella regione di decorazione attuata con l’uso di tale materiale, ma soprattutto per la finezza d’esecuzione e l’alta qualità stilistica con cui sono stati realizzati.
AFFRESCHI NEL TEMPIETTO LONGOBARDO.
Nel Tempietto Longobardo di Cividale, gli affreschi originali sono ormai ridotti a pochi episodi: il Cristo Logos tra gli arcangeli Michele e Gabriele, e alcuni martiri (resti di una teoria che doveva svilupparsi in almeno tre pareti) nella parete d’ingresso; un S. Adriano nella parete settentrionale. Le figure, tutte in pessimo stato di conservazione, sono caratterizzate dalla fissità delle posizioni, dai tratti espressionistici dei volti, dall’uso delle terre verdi per dare effetti chiaroscurali. Risalgono al 760 circa.
La cosa che più colpisce, davanti alle meravigliose sculture di questo luogo eccelso, è l’atmosfera serena, naturale, armoniosa che le pervade: sia nel sorriso appena accennato, ma evidentissimo, delle Sante, sia nel loro incedere solenne e pur così spontaneo, sia, infine, nella gioiosa consistenza di quei tralci, di quei grappoli d’uva, che paiono usciti da un autentico vigneto più che dalle mani di un abile decoratore. Ciò che si percepisce è che quell’ignoto artista, così come, in varia misura, il pubblico, se così vogliamo chiamarlo (ma è una bruttissima espressione) al quale si rivolgeva, avevano un sentimento della vita assai più lieto, più ottimistico, più “caldo” del nostro. Se si confrontano quei volti con quelli dei quadri espressionisti, di un Edvard Munch, per esempio, e quei pampini d’uva con gli elementi d’un paesaggio moderno, poniamo di E. L. Kirchner, o con gli strani animali d’uno scultore informale come Mirko Basaldella (tanto per restare in ambito friulano), una cosa emerge chiara: l’uomo contemporaneo non è felice, è contorto e ripiegato in se stesso, ossessionato da mille spettri e mille demoni, mentre l’uomo medievale possedeva la compostezza e l’equilibrio di chi sa di occupare un posto nel mondo e sa che la sua vita, come quella di ogni altra creatura, è dotata di senso e ordinata a un fine.
Attenzione: non vogliamo idealizzare il passato, né intendiamo fabbricare un’anti-ideologia da opporre all’ideologia dominante della modernità, lasciando fuori dal quadro ciò che ci potrebbe dare fastidio, che potrebbero incrinare la nostra prospettiva. Nel mondo dei secoli cristiani c’erano la miseria, l’insicurezza materiale, l’ingiustizia, la fatica ingrata, lo sforzo non premiato né riconosciuto, la delusione, la stanchezza. C’erano, eccome: e c’erano malattie, carestie, disastri naturali che egli non riusciva a controllare e neppure a prevedere; c’erano guerre, invasioni, soprusi d’ogni genere; e c’era molta, molta crudeltà. E tuttavia, proprio attraverso la sofferenza, proprio attraverso la quotidiana constatazione che il bene, umanamente parlando, non sempre trionfa, anzi sovente trionfa il male, o pare che trionfi; proprio l’impotenza davanti alle guerre, alle malattie, alle devastazioni, proprio queste cose, e inoltre i sacrifici, la povertà, la morte, facevano l’uomo medievale più forte, più coraggioso, più costruttivo, più innamorato della vita. Egli credeva nella vita perché credeva nella vita dopo la morte; e metteva al mondo numerosi figli perché pensava di onorare Dio e di fare ciò che Egli vuole da noi; ed era orgoglioso se alcuni di essi si facevano suore o sacerdoti, perché pensava che le loro preghiere e la loro vita santa avrebbero contribuito alla sua stessa redenzione, e sarebbero state preziose, al momento della morte, sotto forma di un’estrema preghiera al Signore Gesù Cristo e alla Vergine Santissima. Mentre l’uomo moderno non sa più nulla, ha scordato ogni cosa, e non ama la vita perché non crede nel domani, anche se si riempie la bocca con le litanie sul progresso, che hanno preso il posto delle preghiere recitate dai suoi nonni e dai suoi avi. E siccome l’uomo di allora amava la vita, amava anche la bellezza: perché era abbastanza sensibile da apprezzare opere come quelle del Tempietto Longobardo, e gli sguardi delle Sante in processione erano rivolti a lui, parlavano alla sua anima, e il loro lento incedere gl’indicava la strada, gli mostrava la direzione da seguire nel corso della vita terrena: che è quella verso l’alto, verso la trascendenza, verso il superamento delle miserie terrene, non cercando di evitarle con spasmodica attenzione, bensì affrontandole e accettandole, e offrendo a Dio le relative angustie e sofferenze, come un atto d’amore e di fede
E queste riflessioni non possono non investire anche la sfera del pensiero, perché è da lì che scaturisce l’immagine del mondo che gli uomini si formano, e di conseguenza il tipo di vita che decidono di vivere. Quanto sono chiare e luminose le sculture di questo oratorio medievale, tanto son chiare e persuasive le strutture del pensiero di san Tommaso d’Aquino. L’uomo dei secoli cristiani pensa con chiarezza perché ha un’idea chiara del reale: una mela è una mela; e chi pensa che sia qualcos’altro è già fuori dalla realtà, parla una lingua che le cose non capiscono e che il mondo in cui vive non riconosce: da qui la pazzia lucida, implacabile, crescente, che serpeggia lungo tutti i secoli della modernità. Al tempo della civiltà cristiana gli uomini avevano una percezione sana e concreta del reale: a sentire i sofismi e le fumisterie di Cartesio, di Kant o di Hegel, avrebbero scosso il capo, proprio come avrebbero fatto i nostri nonni che avevano fatto sì e no la quinta elementare, ma che intelligenza ne avevano, eccome, e sapevano riconoscere un pensiero sano e razionale da un pensiero malato e schizofrenico, come sapevano riconosce una cosa bella da una brutta, e apprezzavano d’istinto le cose belle perché amavano la vita e si ritraevano dalle cose brutte, che recano con sé un inequivocabile odore di morte. Chi cerca la bruttezza non ama la vita; chi ama il falso pensiero è lontano dalla vita; chi non sa porsi con semplicità e con fede innanzi allo splendore del reale, all’infinita varietà degli enti, dei suoni, dei colori, dei profumi, è un povero essere da compatire, un relitto umano che trascina i suoi giorni come un cadavere vivente.
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