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Il j'accuse di Benedetto XVI: «Non ho mentito»

Feb 09, 2022

La lettera del Papa emerito Benedetto XVI non è un mea culpa di responsabilità ma un duro j'accuse nei confronti di chi, strumentalizzando una svista dei suoi collaboratori, ha finito per dubitare della sua veridicità, e addirittura per presentarlo come bugiardo. Ratzinger ha osservato che avendo «avuto grandi responsabilità nella Chiesa cattolica più grande è il mio dolore per gli abusi e gli errori che si sono verificati durante il tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi». 

I giornali l'hanno descritta prevedibilmente come un mea culpa, ma la lettera del Papa Emerito sul rapporto di Westpfahl Spilker Wastl è, piuttosto, un j'accuse. Un atto d'accusa nei confronti di chi, strumentalizzando una "svista", ha finito per "dubitare" della sua "veridicità", e "addirittura" per presentarlo "come bugiardo". La svista menzionata da Benedetto XVI è quella compiuta da uno dei collaboratori che lo hanno aiutato a scrivere la memoria di 82 pagine inviata allo studio legale di Monaco e da quest'ultimo allegata nel dossier sulla gestione degli abusi nell'arcidiocesi da lui guidata tra il 1977 ed il 1982.

Come è stato spiegato ieri in un'analisi dei quattro autori della memoria (Stefan Mückl, Helmuth Pree, Stefan Korta, Carsten Brennecke), per un errore di trascrizione fatto dal canonista Stefan Korta si è sostenuto erroneamente che l'allora arcivescovo non partecipò alla riunione dell'Ordinariato del 15 gennaio 1980 durante la quale venne deciso di accogliere a Monaco Peter Hullermann, prete già responsabile di abusi ad Essen. Lo sbaglio commesso nella memoria è stato usato dai detrattori di Benedetto XVI per delegittimare tutta la sua tesi difensiva.

In realtà, la presenza dell'allora cardinal Ratzinger a quella riunione era già emersa pubblicamente nel 2010 e La Nuova Bussola Quotidiana ne aveva già parlato in un articolo precedente alla pubblicazione del report. Una buccia di banana, dunque, su cui è inciampato "il piccolo gruppo di amici" del Papa Emerito ma che certamente non è una prova della veridicità delle accuse. Come avevamo spiegato nei due articoli dedicati al caso di Hullermann, durante quella riunione incriminata l'arcivescovo si era limitato ad accettare il trasferimento del prete a Monaco ma non aveva disposto alcun incarico pastorale.

Ratzinger, peraltro, sapeva che il sacerdote pedofilo era in terapia psicoterapeutica ma non che vi fosse stato destinato per aver commesso abusi sessuali su un minorenne. Nell'analisi dei suoi collaboratori diffusa ieri dalla Sala Stampa della Santa Sede è stato infatti ricordato come gli stessi periti dello studio legale, nel corso della conferenza stampa di presentazione del report, abbiano ammesso di non avere le prove che l'ex arcivescovo sapesse, dovendo riconoscere "secondo l’opinione soggettiva" (frecciata degli amici del Papa Emerito) che questa circostanza era soltanto "maggiormente probabile”. 

L'errore commesso da Korta, in ogni caso, viene giustificato da Benedetto XVI ("non è stato intenzionalmente voluto e spero sia scusabile") che nella sua lettera ringrazia il "piccolo gruppo di amici" che "con abnegazione" ha redatto le 82 pagine difensive, ricordando come abbia provveduto a correggerlo sin da subito nel giorno della presentazione del dossier alla stampa, mediante la dichiarazione diffusa dal suo segretario personale, monsignor Georg Gänswein. D'altra parte, la partecipazione alla riunione del 15 gennaio 1980 veniva riportata anche nella recente biografia di Peter Seewald che è stata sicuramente precedentemente letta ed approvata dal Papa Emerito. 

Per comprendere come sia potuto avvenire un errore simile, però, occorre leggere le modalità in cui si sono ritrovati a lavorare i quattro autori della memoria inviata allo studio Westpfahl Spilker Wastl. Sono loro stessi a raccontarlo nell'analisi pubblicata ieri: "La visione degli atti in versione elettronica - scrive il team del Papa Emerito - fu consentita al solo Prof. Mückl, senza che fosse concessa la possibilità di memorizzare, stampare o fotocopiare documenti. A nessun altro dei collaboratori fu consentito di visionare gli atti. Alla presa in visione degli atti in formato digitale (8.000 pagine) e alla loro analisi da parte del Prof. Mückl, seguì un’ulteriore fase di elaborazione da parte del Dott. Korta, il quale ha inavvertitamente commesso un errore di trascrizione".

Una volta arrivate sulla sua scrivania le 82 pagine, "Benedetto XVI non ha notato l’errore per via dei tempi limitati imposti dai periti, e si è fidato di quanto era scritto, e dunque è stata messa a verbale la sua assenza". A questa svista si sono aggrappati coloro i quali hanno voluto attaccare il Papa Emerito novantaquattrenne, ma a dargli forza ci hanno pensato le numerose lettere d'incoraggiamento arrivate in questi giorni al monastero Mater Ecclesiae ed anche "l’appoggio e la preghiera" che il suo successore Francesco ha voluto fargli arrivare "personalmente". 

E a proposito di "mea culpa" è la locuzione del Confiteor a suscitare in Benedetto XVI una riflessione più generale sulla vergogna da provare nei confronti delle vittime di abusi commessi da sacerdoti e che sarebbe scorretto - come molti stanno facendo - calare sul caso specifico di Hullermann su cui ha chiarito con forza la propria non colpevolezza. Ricordando gli incontri con le vittime ad ogni viaggio apostolico realizzato quando era pontefice regnante, Ratzinger osserva che avendo "avuto grandi responsabilità nella Chiesa cattolica (...) più grande è il mio dolore per gli abusi e gli errori che si sono verificati durante il tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi". 

Dalle parole della lettera, specialmente quelle relative alle accuse di essere un bugiardo, appare evidente come il dossier e le reazioni mediatiche - soprattutto in patria - lo abbiano amareggiato, ma chi lo ha visto di recente riferisce comunque di un Benedetto XVI sereno, saldo nella fede e che non rinuncia al sorriso. C'è in lui, forte, la consapevolezza di ciò che ha scritto nel finale della sua lettera:

"Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito). In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte. In proposito mi ritorna di continuo in mente quello che Giovanni racconta all’inizio dell’Apocalisse: egli vede il Figlio dell’uomo in tutta la sua grandezza e cade ai suoi piedi come morto. Ma Egli, posando su di lui la destra, gli dice: 'Non temere! Sono io...'".

fonte: https://lanuovabq.it/it/il-jaccuse-di-benedetto-xvi-non-ho-mentito

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