Il distributismo, una via d’uscita dall’attuale palude economico-sociale e politica
Jun 23, 2022di Pietro Licciardi
UNA VISIONE ECONOMICA E SOCIALE NATA NEL 1926 CHE SI ISPIRA IN LARGA PARTE ALLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA E CHE METTE AL CENTRO LA FAMIGLIA E LA PICCOLA PROPRIETA’
Secondo molti per uscire dall’attuale crisi economica e sociale occorre percorrere strade nuove e diverse da quelle fallimentari già sperimentate, come il liberismo e il socialismo, le cui “dottrine” hanno forgiato – e tuttora forgiano in una inquietante simbiosi – le attuali società occidentali.
Già, ma quali strade?
Una di queste è senz’altro il distributismo, ovvero una visione dell’economia, della moneta, della politica e della vita sociale che si ispira in larga parte ai principi della Dottrina sociale della Chiesa e all’organizzazione sociale del Medioevo cristiano. Il distributismo nasce ufficialmente il 19 settembre 1926 con la creazione a Londra della Lega Distributista nella Essex Hall di Hessex Streete i suoi fondatori furono Gilbert Keith Chesterton, Hilaire Belloc ed il padre domenicano Vincent McNabb ma i semi di questa teoria possono essere rinvenuti nel libro Cosa non va non il Mondo del 1910 di G.K. Chesterton e Lo Stato Servile del 1912 di H.Belloc del 1912. Anche in Italia il distributismo ha dei seguaci i quali hanno fondato il Movimento distributista italiano, il cui presidente è il dottor Matteo Mazzariol, che InFormazione cattolica ha intervistato.
Dottor Mazzariol, in sintesi cosa dice il distributismo?
«L’essenza del pensiero distributista può essere riassunta in quattro punti non negoziabili. Il primo è che la famiglia naturale, creata dall’unione di un uomo ed una donna aperti alla procreazione ed all’educazione responsabile dei figli, è al centro delle libertà economico-sociali. Il secondo punto è la necessità in economia di favorire l’unione tra capitale e lavoro, cioè favorire la massima diffusione della proprietà produttiva contro ogni tendenza ad accentrare il capitale nelle mani di pochi, come avviene nel monopolismo e con le oligarchie economico-finanziarie. Il terzo punto riguarda la necessità di restituire il potere politico reale al corpo sociale attraverso l’aggregazione organica e naturale dei comparti socio-lavorativi sui vari territori in contenitori partecipativi – come le gilde o le corporazioni di arti e mestieri diffuse in epoca medievale – entro cui discutere e decidere tutte le questioni più importanti del proprio settore e della vita sociale; il che significa tra l’altro la conseguente messa in soffitta della partitocrazia. Infine la necessità di reintrodurre una moneta al momento dell’emissione libera da debito e da interesse, in modo da restituire al denaro la funzione di strumento al servizio dell’economia reale e dei suoi bisogni».
Ha appena parlato della necessità di restituire il potere politico reale al corpo sociale, il che sembra ricordare certe teorie di stampo socialista…
«Il distributismo è quanto di più lontano ci possa essere dal socialismo. La visione socialista infatti è antitetica a quella distributista perché prevede una forte concentrazione del possesso dei mezzi di produzione e di potere politico nelle mani dello Stato. Lo Stato socialista è uno Stato che occupa quanto più spazio possibile, a partire dall’educazione, dall’università, dalla sanità, dall’economia, dalla produzione. Viceversa lo Stato distributista è uno Stato che devolve la maggior parte dei poteri reali nei comparti socio-lavorativi alle gilde o corporazioni di arti e mestieri, secondo il principio di sussidiarietà della Dottrina sociale della Chiesa, e riconosce alla famiglia naturale autonomia e libertà economico-sociale massima. Se il compito dello Stato socialista è plasmare e controllare la maggior parte della società, quello dello Stato distributista è innanzitutto quello di preservare e tutelare la libertà dei corpi naturali della società stesso – famiglie e gilde o corporazioni – ed assicurarsi, se necessario con un forte intervento, che essi rispettino gli interessi del bene comune. Sono due visioni opposte e non conciliabili».
In cosa invece il distributismo si differenzia dal liberalismo così come lo conosciamo nelle nostre società consumistiche?
«Va detto innanzitutto che il distributismo considera social-comunismo e liberal-capitalismo non come due realtà in opposizione sostanziale ma come due facce diverse di una stessa medaglia. Ciò che accomuna social-comunismo e liberal-capitalismo per il distributismo è essenzialmente considerare buono e giusto che capitale e lavoro siano separati e che quindi sia buono e giusto che il possesso dei mezzi di produzione e del potere reale siano nelle mani di una minoranza. Il social-comunismo, come abbiamo visto, intende questa minoranza con l’apparato burocratico-amministrativo dello Stato, il liberal-capitalismo con il ristretto numero dei detentori delle principali risorse economico-finanziarie. Il distributismo su questo punto va oltre è sostiene che negli ultimi secoli si è operata una vera e propria alleanza tra social-comunismo e liberal-capitalismo nella figura dello Stato servile. Lo Stato servile è per il distributismo l’assetto economico-politico-istituzionale attuale, in cui il grande capitale, attraverso le banche internazionali e multinazionali, detiene il potere reale e lo esercita attraverso il grande Stato ed in particolare attraverso lo strumento della partitocrazia, che nella visione distributista è la negazione strutturale della vera partecipazione e libertà politica».
Perché il distributismo oggi comincia a vedere aumentare il numero dei simpatizzanti?
«Perché il distributismo si basa su una visione antropologico-filosofica – il realismo aristotelico-tomista – basata sulla retta ragione, il senso comune e l’adesione al reale. La gente oggi percepisce che le cose non vanno, che la libertà economica e politica di cui si tanto si parla è solo finzione, che andare a votare non serve a niente, che i partiti non saranno mai in grado di risolvere i nostri problemi, che le grandi banche e le grandi multinazionali dominano incontrastate, che l’orizzonte quindi diviene sempre più tetro ma è priva di strumenti concettuali per dare una forma ed un senso a tutto ciò. Così quanto la gente acquisisce consapevolezza dell’esistenza della via distributista ha come un senso di sollievo e gratificazione. Quello che era un disagio diffuso e vago non solo trova una spiegazione ragionevole ma anche una strada percorribile e sostenibile per essere superato. Il distributismo in questo senso non vuole essere l’ennesima ideologia messianica che promette il paradiso in terra ma la proposta a riprendere seriamente in considerazione la possibilità di applicare la retta ragione agli ambiti dell’economia, della moneta e della vita politica e sociale»
Poco fa ha accennato alla Dottrina sociale della Chiesa…
«Il distributismo ha lì le sue radici, a cui attinsero a piene mani i fondatori: i cattolici G. K. Chesterton, H. Belloc e padre V. MacNabb. La Rerum Novarum di Leone XIII nel 1891 e poi la Quadragesimo Anno di Pio XI nel 1931 da una parte ed il pensiero aristotelico-tomista dall’altra furono le pietre miliari intorno a cui si sviluppò il pensiero distributista. Se la Dottrina Sociale della Chiesa è però l’enunciazione di una serie di principi e valori di riferimento a cui si dovrebbero ispirare i laici cattolici e tutti gli uomini di buona volontà, il distributismo rappresenta invece un passo oltre, cioè quello di dare forma e contenuti più specifici e precisi a questi valori, di incarnare cioè tali valori in paradigmi o tendenze molto chiare ed esplicite, valide in tutte le epoche ed in tutti i periodi storici – i quattro punti a cui ho fatto riferimento sopra – per tentare di risolvere concretamente e praticamente i gravi problemi che attagliano le comunità nei vari contesti culturali, geografici e temporali. Dottrina sociale della Chiesa e distributismo sono quindi complementari ma non sovrapponibili. Si può dire che il distributismo rappresenti la Dottrina sociale della Chiesa sviluppata secondo le categorie filosofico-antropologiche del pensiero aristotelico-tomista ed in questa senso abbia una validità metastorica»
Ritiene che il distributismo possa veramente riuscire a cambiare le nostre società, ormai irreggimentate in regimi burocratici e finanziari, in cui le famiglie sono sempre più spremute e impoverite da regimi fiscali voraci che mettono a rischio la proprietà privata?
«Il distributismo da questo punto ha un ruolo fondamentale ed essenziale perché è in grado di risolvere tutti i nostri problemi, non magicamente ma fornendo la mappa per uscire passo dopo passo, senza alcuna rivoluzione o bagno di sangue, dalla palude in cui siamo. Quello che sostiene il distributismo, ed in particolare G. K. Chesterton, è che la maggior parte dei nostri mali: crisi della famiglia, cronica instabilità ed insicurezza economica, debito pubblico e privato endemico, tasse esose, disoccupazione galoppante, sperequazione sociale crescente, non sono dei fatti ineluttabili ma la conseguenza logica del prevalere, innanzitutto nelle nostre menti, di paradigmi economici e politici assolutamente incongrui e fallimentari come quelli che ho esposto sopra. Una via d’uscita non solo esiste ma è facilmente praticabile. Il problema è che senza mappa rimarremo invischiati in questa sorta di trappola o vicolo cieco. Il distributismo rappresenta a tutti gli effetti questa via d’uscita; non verso il paradiso terrestre ma verso una società a misura d’uomo e costruita secondo il disegno di Dio. La Via d’Uscita è proprio il titolo di un libro di H. Belloc del 1938, che abbiamo recentemente tradotto ed inserito nel panorama editoriale italiano, con lo scopo di favorire questo processo virtuoso»
Vi sono esperienze “distributiste” già avviate e in buona salute da qualche parte? E con quali esiti?
«Senza dubbio. Posso citare per esempio la rete cooperativa Mondragon in Spagna, nei Paesi Baschi, composta da circa 80.000 soci, di cui almeno l’80% proprietari dei mezzi di produzione. Questa cooperativa, fondata negli anni ’50, è stata ed è ancora il motore trainante dell’economia di quella regione ed è stata in grado di resistere a tutte le crisi congiunturali che si sono succedute. I lavoratori-proprietari in essa non sono considerati merce economica e partecipano a tutte le decisioni importanti del loro settore aziendale, comprese quelle relative alla determinazioni dei salari, dello sviluppo professionale, delle scelte strategiche-operative. Negli Stati Uniti il distributismo ha dato vita al Catholic Worker Movement di Dorothy Day e Peter Maurin, il più grande fenomeno sociale cattolico statunitense del XX sec., che perdura tuttora. Iniziative distributiste sono poi presente a macchia di leopardo in tutto il mondo: la fondazione Res Pubblica di Phil Mollon a Londra, il Sierra Leone Chesterton Center di John Kanu in Africa e numerose associazioni e gruppi in varie paesi dell’America Latina sono il segno che il distributismo è vivo, oltre che dal punto del dibattito pubblico, anche dal punto di vista pratico-operativo. In Italia, oltre al pensiero del più grande sociologo cattolico, G. Toniolo, che presentò molti punti simili al distributismo, posso segnalare le Scuola Parentale G. K. Chesterton di San Benedetto del Tronto ma forse il segno più evidente e macroscopico della presenza del distributismo nel nostro paese è costituito da quella vasta platea di piccole e medie imprese famigliari, di piccoli artigiani, di piccoli negozianti e di libero professionisti che costituiscono la spina dorsale della nostra economia».
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