Il coraggio di abolire il femminicidio
Feb 04, 2025
di Marcello Veneziani
Bravo Javier Milei, ha avuto il coraggio di tornare alla realtà, alla verità e alla giustizia, almeno in tema di diritto. Se leggete i resoconti nostrani, il presidente argentino Milei è un mostro che vuole tranciare con la motosega le donne e i loro diritti, un orco dalla parte degli stupratori e dei femminicidi.
Invece se leggete perché il suo governo ha cancellato il femminicidio dal codice penale argentino, vi accorgete del buon senso che anima quella decisione. Il femminicidio, argomenta il ministro della Giustizia del governo Milei, Mariano Cùneo Libaroma, tradisce l’uguaglianza e l’universalità delle leggi, genera discriminazioni e scava un solco di odio, diffidenza e conflitto tra uomini e donne. Ha ragione, e lo dicevo da prima che il governo argentino assumesse questa decisione. Chi uccide una persona è un assassino, e come tale va trattato, sia che la sua vittima sia una donna che un maschio, un connazionale o uno straniero, un ricco o un povero. La prima regola del diritto è la sua universalità: la legge è uguale per tutti. Nella fattispecie, poi, ci possono essere omicidi più aberranti di altri: verso un vecchio, un disabile, un bambino, un neonato, che sono oggettivamente le categorie più fragili. Ci possono essere poi casi di omicidi più feroci e più raccapriccianti, indipendentemente se la vittima sia di sesso maschile o femminile. E comunque nel caso specifico, il giudice valuterà se ci sono aggravanti o attenuanti, specifiche o generiche, ovvero valuterà le differenze; vedrà i precedenti, la storia, lo stato mentale e generale del carnefice e della vittima. Ma non si può stabilire per principio che ci sono assassini che valgono il doppio e altri che ne valgono metà. Togliere la vita a una persona non può valere di più o di meno a seconda del sesso di chi lo commette e di chi lo subisce. Invece nel mondo a rovescio in cui viviamo si legge che questo ragionamento “fa venire i brividi perché ribalta la realtà”: è invece esattamente il contrario, fa venire i brividi chi ribalta la logica, la storia, la realtà, violando l’universalità del diritto.
L’unica vera obiezione potrebbe essere di natura pratica e morale: il femminicidio è sì una forzatura, un tradimento della legge uguale per tutti, ma serve come deterrente e come dissuasore per scoraggiare l’ondata di femminicidi. Dunque è una norma eccezionale che vale per fronteggiare un’emergenza. E invece neanche questo ragionamento funziona: in Italia, ad esempio, da quando fu introdotto il femminicidio, dodici anni fa, i femminicidi non sono diminuiti, semmai sono aumentati, così come le violenze alle donne. E in Argentina, dicono le cronache, i femminicidi impazzano nonostante la legge che fino a ieri li puniva in modo speciale. A dimostrazione che il femminicidio non funziona neanche come deterrente pratico. Semmai, se un effetto sociale diffuso produce il reato di femminicidio e la campagna propagandistica che lo enfatizza, è innalzare un muro di diffidenza tra maschi e donne e scavare un fossato di odio e disprezzo pregiudiziale verso l’altra metà del mondo.
Prevedere che ci sia un assassinio più assassinio degli altri, non è solo un’aberrazione sul piano dei principi e una violazione del diritto e del rispetto che si deve a ogni persona, ma è anche inefficace in via di fatto; non scoraggia, non frena, non limita affatto le violenze criminali verso le donne. Ma nel terrorismo mediatico e ideologico sotto la cui cappa viviamo, chi osa dire questo con realismo e ragionevole buon senso, passa automaticamente per alleato, sponsor e complice dei femminicidi.
La decisione del governo argentino non va approvata per solidarietà ideologica con Milei, semmai il contrario: personalmente non condivido la linea ultraliberista e iperglobalista che lo caratterizza, e la posizione assunta in politica estera sui conflitti in corso in Ucraina e in Israele. Piace invece il suo richiamo alla realtà e al senso comune, la sua battaglia per tagliare la burocrazia e la corruzione, per semplificare le leggi e ridare fiato allo spirito vitale del Paese, da lungo tempo depresso. Sarebbe urgente, piuttosto, riportare l’Argentina all’ordine e alla legalità; è un paese ormai lasciato a se stesso, insicuro e violento, inosservante delle leggi e inaffidabile anche nelle sue forze di sicurezza.
Il ragionamento che porta al femminicidio ha implicazioni e conseguenze aberranti anche in altre situazioni, una volta saltato il principio che la legge è uguale per tutti. Per esempio un reato compiuto da un migrante gode in molti paesi occidentali di una indulgenza umanitaria negata ai connazionali. E un reato compiuto contro di loro si carica di una specie di aggravante implicita, “razzista e xenofoba” anche quando questo elemento ideologico e motivazionale non c’è affatto. Ma è una conseguenza inevitabile dell’ingiustizia di partenza: se il diritto diventa sartoriale, soggettivo, applicato cioè secondo i soggetti, cucito su misura, allora perde la sua universalità imparziale e assume un valore ideologico e partigiano che ne decreta il rilievo, la priorità, il peso.
Per allarmarsi basterebbe fare uno studio comparativo tra processi, sentenze e pene per accorgersi che la giustizia oggi recita a soggetto e procede secondo canoni non giuridici: nel paragone non ti spieghi perché alcune condanne per reati più gravi sono più lievi rispetto alle condanne irrogate per reati meno gravi. Spesso la valenza ideologica, simbolica, soggettiva del crimine compiuto allevia o aggrava enormemente le pene. Sicché ti capita di leggere sentenze in cui un assassinio riceve una condanna più lieve di una violenza minore ma giudicata simbolicamente e ideologicamente imperdonabile. O uno stupro, un crimine efferato, siano giudicati con meno severità di un eccesso di legittima difesa, per esempio di un cittadino aggredito in casa sua che reagisce; nell’uno come nell’altro caso conta l’effetto emotivo e mediatico, il clima in cui si inserisce, il momento particolare, la condizione sociale dei soggetti. Siamo al processo-spettacolo, alla giustizia a effetto speciale, alla sentenza “emotiva” o ideologica.
Questa variabilità soggettiva, ideologica e temporale dei reati rientra in quella perdita del diritto come norma universale, impersonale che dovrebbe valere per tutti. Eppure, un tempo si diceva che l’uguaglianza universale di tutti di fronte alla legge, fosse alla base della giustizia. Ma no, quando dovrebbe valere davvero, l’uguaglianza viene cancellata. Se serve invece per cancellare i meriti, le identità personali e comunitarie e le culture, allora viene rivendicata. L’uguaglianza è un mostro che cammina con la testa e pensa con i piedi.
La Verità – 2 febbraio 2025
FONTE : Marcello Veneziani
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