I nuovi bigotti del linguaggio corretto
Dec 20, 2024di Marcello Veneziani
Ah, le malelingue. Non mi riferisco ai pettegoli, ai maldicenti ma a quanti si ostinano ancora a parlare secondo consuetudine e senso comune, secondo realtà e verità, almeno intesa come evidenza. No, signori, dovete correggere il vostro modo di parlare, adottare un “linguaggio inclusivo”; dovete accettare precetti per “un uso rappresentativo e non discriminatorio della lingua italiana”. Ho tra le mani un documento d’istruzioni per l’uso della lingua italiana. Lo ha prodotto il Comune di Vicenza, grazie all’impegno di Isabella Sala, vice sindaco con delega alle pari opportunità, e Martina Corbetti che presiede la commissione pari opportunità. È un piccolo campionario, come ce ne saranno mille altri in Italia, di allineamento della lingua al politicamente corretto, all’ideologia woke nelle pubbliche amministrazioni.
Il primo comandamento recita di mutare al femminile tutte le definizioni che da sempre adottavamo al maschile: assessora, consigliera, direttrice, tecnica, commissaria. Il discorso si complica quando il riferimento è plurale: non chiamateli cittadini, amministratori, consiglieri è plurale maschile, ma dite la cittadinanza, l’amministrazione, il consiglio. E se parlate di un singolo, non usate al maschile la definizione di delegato, di richiedente, di detenuto, di tossicodipendente, di senza dimora, ma premettete sempre la persona delegata, la persona richiedente, la persona detenuta, la persona tossicodipendente, la persona senza dimora. E in tema di disabilità non parlate di handicappato o ritardato, nemmeno addolcendo con persona handicappata, ma dovete dire persona con disabilità, persona con ritardo cognitivo, ecc. Non parlate nemmeno di persone affette da, malate di, o costrette su sedia a rotelle, ma persona con malattia, o persona su sedia a rotelle. Pare brutto dire che è malato o è costretto; che poi sia davvero malato o costretto, che importa? Meglio non dirlo.
E le persone normali? Guai a chiamarle così o persone abili, c’è la definizione di “normodotata” che ti fa sentire un po’ felicemente anormale o trattato come un pacco postale, con dimensioni che corrispondono alla norma dei formati di spedizione.
Mai chiamare migrante o straniero un migrante o uno straniero (clandestino poi è da galera, e non per il clandestino ma per chi indica un clandestino come tale): si dice persona migrante, persona straniera, persona rifugiata, al più persona irregolare. E se è figlio di migranti va definito “persona con background migratorio”, estensibile presumo anche agli uccelli migratori. Guai a chiamarli extracomunitari perché nella definizione c’è una connotazione negativa, un “forte valore discriminatorio”.
Ecco un breve sunto del libretto d’istruzioni sul “parlar corretto” e sul parlare “inclusivo”. Come vedete, piccole trascurabili sciocchezze, in cui traspare l’inutilità pratica e sociale della pubblicazione e l’innaturale adozione di moleste perifrasi per non usare il linguaggio semplice e diretto della realtà.
Ma questo modesto vademecum stampato da un comune italiano mostra l’adesione al catechismo woke e ai suoi piccoli dogmi: primo, non potendo cambiare la realtà, si cambiano le parole per indicarla; secondo, il formalismo lessicale oltre a falsificare la realtà della vita, cancella pure l’autenticità delle relazioni, sottoposte a un rigido rococò di perifrasi, eufemismi e omissioni.
Come definire questo linguaggio inclusivo? Bigottismo ipocrita.
Qui il discorso si fa interessante soprattutto se lo paragoni al passato. Ricordo un film che vidi da bambino, ambientato proprio a Vicenza e provincia: si chiamava il Commissario Pepe, protagonista era Ugo Tognazzi e regista Ettore Scola. Narrava le ipocrisie di una provincia bigotta, che sotto la coltre devota del cattolicesimo, nascondeva tradimenti, peccati, miserie, falsità. E poi tutti a messa. Prima di questo film c’era stato un altro film di Pietro Germi, Signore e signori, che aveva raccontato le ipocrisie sotto il velo della bigotteria di una provincia non definita del Veneto. Prendersela col Veneto era un po’ ingeneroso, perché il bigottismo ipocrita era diffuso, magari in altre forme, anche nel resto d’Italia, era fiorente al sud come in Piemonte o nella capitale della cristianità. E i primi film su questo bigottismo ipocrita erano ambientati in Sicilia.
Ma è curioso pensare che sessant’anni dopo o giù di lì, il bigottismo ipocrita ha cambiato versante: non riguarda più la borghesia cattolica e conservatrice ma quella radical chic, laicista e progressista, venuta dall’irriverente contestazione del ’68. Che denunciava proprio il lessico ipocrita, i falsi pudori borghesi del tempo.
Cosa è successo, come spiegare questa trasmigrazione, questa trasformazione e insieme questa continuità di atteggiamenti?
Azzardo un’ipotesi: col passare del tempo abbiamo buttato la polpa di quella società cristiana, devota e borghese, e ci siamo tenuti la buccia, il bigottismo ipocrita. Ovvero, abbiamo perso la parte migliore di quel mondo – il senso del pudore e del limite, l’umiltà e la fede, il legame comunitario – e abbiamo invece mantenuto la cornice stucchevole, l’ipocrisia delle relazioni, la gramigna del vizio cresciuto sulla pianta della virtù. Equivale a ridurre la fede a clericalismo. Così i nipoti, nuovi farisei, si allineano al nuovo conformismo ipocrita e bigotto di oggi con lo stesso passivo automatismo con cui i loro nonni si conformavano allo spirito dominante del loro tempo.
Anche i nipoti hanno perso nel corso degli anni e nel passaggio delle generazioni, il movente primario del loro progressismo e la passione ideale per il rinnovamento, se non per la rivoluzione; e adottano questo nuovo catechismo parruccone, formalista, applicato al linguaggio. Mi ricordano le loro vecchie mamme che dicevano: questo non si dice, non si bestemmia, non si usano parolacce, state composti. Anche ieri usare un linguaggio corretto era un modo per essere inclusi nella bella società delle buone maniere. La stessa psicosi “correttiva” e manierista viene ora applicata alle nuove figure “protette” e alla nuova società.
È per questo che oggi la vera rivoluzione è cercare di dire la verità, raccontare la realtà senza veli, e la vera trasgressione è la tradizione. Il resto è fuffa, chiacchiera e ipocrisia.
La Verità – 15 dicembre 2024
FONTE : Marcello Veneziani
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