I bambini, quei terribili veicoli di contagio di Rachele Sagramoso e Cristina Tamburini
Aug 22, 2021I bambini, quei terribili veicoli di contagio
In tempi non sospetti il noto virologo e frontman Roberto Burioni scriveva questo su twitter: «I figli sono gioie, felicità etc. ma anche maligni amplificatori biologici che si infettano con virus per loro quasi innocui, li replicano potenziandoli logaritmicamente e infine li trasmettono con atroci conseguenze per l’organismo di un adulto». Era il lontano 31 marzo 2019, le mascherine non facevano parte dei nostri outfit, quando si starnutiva in pubblico qualcuno diceva “salute” senza fare un balzo per allontanarsi e DAD voleva dire solo papà in inglese.
Ora dal Canada rincarano la dose: “i bambini under 3 anni più contagiosi degli adolescenti”. Pare che i neonati siano i peggiori.
Salviamo la società dall’attacco dei bambini
Siamo assolutamente d’accordo: i neonati sono contagiosi, contagiosissimi. È urgente e necessario intraprendere azioni serie ed importanti per mettere in salvo la popolazione: proponiamo anzitutto che ogni donna così scellerata da decidere di partorire si prenda totalmente carico della cura e dell’accudimento del piccolo untore. L’uomo che insieme a lei ha deciso di correre un rischio così grave quale mettere al mondo un tale rischio si prenda la responsabilità di mettere in salvo il resto del mondo, assumendosi totalmente il carico di accompagnare e proteggere la donna impegnata in tale ardito compito. Amici, parenti e conoscenti stiano accuratamente fuori dalla porta di quella casa: possono, se la loro abnegazione li porta a voler contribuire al ménage della sciagurata famigliola, preparare piatti pronti, da lasciare rigorosamente sulla soglia di casa, dove eventualmente ritirare panni sporchi, da trattare indossando guanti e mascherina, igienizzare e restituire al mittente – procedura consigliata solo ai più ardimentosi.
Mariti e mogli vengano lasciati loro alle prese con i loro pargoli; già in gravidanza, infatti, si evidenza la dipendenza della donna dal “parassita” che le cresce in grembo (giovani donne ideologizzate parlano dell’embrione proprio come tale), legame che l’allattamento – ovviamente normale mezzo di nutrizione dell’infante, in quanto evita il contatto delle sue mucose con qualsiasi oggetto che qualcun altro potrebbe accidentalmente sfiorare – non farà che consolidare. Sarebbe davvero auspicabile che lo Stato si impegnasse per permettere alle donne che hanno partorito di ritirarsi dalla vita pubblica, per dedicarsi esclusivamente alla “difesa” della società dai terribili rischi corsi nella frequentazione dei minori: andrebbe valutata l’eventuale chiusura degli asili nido, visto che a nessun individuo estraneo alla famiglia dovrebbe esser permesso di entrare in contatto con il “portatore di virus” a meno di ferma e lucida determinazione (eventualmente da premiare con medaglie al valore). La società va difeso dalla minaccia dei bambini: come nel profetico film di animazione Monsters & Co sarà necessario organizzare una CDA (Corpo Decontaminazione Antibambino) che isoli le minacce e sterilizzi il mondo dal virulento attacco degli infanti.
I reali effetti della “malattia” figlio
Vediamo infatti quali enormi conseguenze può provocare la vicinanza di un bambino ai due giovani adulti che l’hanno messo al mondo: anzitutto un senso di appartenenza spropositato. Quel figlio è IL loro bambino, quell’unico e irripetibile essere umano è stato generato dall’unione della loro carne, ed esiste come testimonianza perenne del loro legame. Inscindibile. Il primo effetto che un figlio genera in una coppia è cementarne l’unione: quei due saranno per sempre – ontologicamente, e non moralmente – uniti, un’unione che si identifica in un altro essere vivente. Uno più uno fa tre.
La donna che ha gestato e partorito il cucciolo di uomo sarà follemente innamorata, come mai non è stata in vita sua, la sua vita sarà totalmente a disposizione di quell’esserino. Ricordo che dopo pochi giorni dalla nascita della nostra prima figlia mio marito guardandomi mi disse: «In questo momento, se qualcuno ti tagliasse via un braccio, ti limiteresti a pulire e andresti avanti ad occuparti di tua figlia, come se niente fosse accaduto». Non era poi così lontano dal vero dato che gli ormoni implicati nelle relazioni d’amore sono sempre i medesimi: l’ossitocina, tanto per dirne una, è potente mezzo di collegamento, legame, connessione nelle relazioni. Sia l’uomo, sia la donna secernono ossitocina quando fanno l’amore (attenzione, non quando giocano coi genitali e non quando non c’è fiducia reciproca: le prostitute possono avere l’orgasmo, ma non producono ossitocina come le donne che ce l’hanno con il loro “romantic partner”) e quando tengono tra le braccia il loro bambino. Che poi l’ossitocina nella donna sia strettamente connessa con endorfine e prolattina (mamma=mammiferi=mammelle), mentre nell’uomo sia connessa con l’istinto di protezione verso la diade (mamma+figlio/a) dipende dagli ormoni principali prodotti (estrogeni o testosterone).
Un uomo che veda la moglie tenere tra le braccia il figlio generato dalla loro unione si sentirà un patriarca, un capo tribù, il presidente della repubblica, un pari del regno, un imperatore: è sua la responsabilità di proteggere quelle due vite, totalmente a lui affidate. Lui è l’uomo su cui quella donna si appoggia, mentre diventa madre.
Il sorriso di un neonato ha un potere devastante: vedere il proprio figlio sorridere per la prima volta genera una risposta neurologica nel genitore, tale per cui rivedere quel sorriso sembrerà l’unico vero scopo della vita. A volte ci si rende conto che da quel momento la vita sarà legata per sempre al bene di quel microscopico individuo. Che gravidanza, parto e accudimento di un neonato possano innescare fenomeni di dipendenza lo testimoniano per altro le vite due donne che stanno scrivendo questo pezzo a quattro mani: 14 figli in due. Virus intestinali, bronchiti e pidocchi compresi. O è masochismo, o c’è sotto qualcos’altro…
L’antidoto, insieme al “virus”
Certo, il pianto inconsolabile del neonato genera frustrazioni importanti nei genitori: il senso di impotenza a volte è devastante. Ottima palestra per quando il fagottino sarà un uomo fatto, porterà il 44 di scarpe e si avventurerà da solo nel mondo: in quel momento l’ipotesi di tentare di calmare il pianto di un neonato sembrerà il Paradiso Terrestre. Eppure, questi figli portano l’antidoto insieme al “virus”: da quando per la prima volta un neonato riuscirà a rotolare sul fianco, disteso sul suo tappetino sotto la palestrina con le apine, i genitori si rendono conto che non possono “controllare” nulla (se non se ne accorgono, come spesso capita, né in quel momento né più avanti, scattano grossi guai per tutti: l’essere genitore implica il maturare come adulti). Il figlio gattonerà dove non deve gattonare, picchierà quel suo enorme testone in tutti gli spigoli che gli capiteranno a tiro, cercherà modi sempre più creativi ed imprevedibili per accorciare la sua esistenza (e la nostra, di riflesso). È tutto un’ottima palestra per i genitori: quegli esserini che quando erano in pancia erano totalmente sconosciuti, ma di cui percepivamo ogni microscopico movimento, una volta usciti mostrano il loro volto (finalmente li “incontriamo” faccia a faccia), ma da lì in avanti la loro vita è affar loro. Nostro compito è condurli per mano, finché ne avranno bisogno, verso sentieri noti e sconosciuti, affrontando momenti di indicibile bellezza ed abissi di angoscia e timore. Ma mentre ci chiedono quel che mai ci saremmo aspettati di saper fare, proprio nel medesimo istante, ci insegnano – loro a noi – che siamo capaci. Che la loro fiducia è ben riposta, perché potremo fare mille errori ogni giorno, ma non sbaglieremo mai nell’avere come unico obiettivo il loro bene, il loro compimento umano totale. La felicità vera.
La contagiosità del bene
Hanno dunque ragione quegli individui, totalmente interessati al proprio benessere, alla propria serenità e alla mancanza di fatica e disturbo nella vita: i bambini sono degli untori terribili, la loro presenza modifica le nostre vite, ci impedisce di restare impermeabili. Siamo sotto attacco, costante e implacabile, con le armi più diverse, da tutte le diverse sfumature del pianto dell’infante (che solo una madre capace di guardare per davvero al bambino, superando la sua stanchezza e il suo senso di – apparente – inadeguatezza, sa interpretare) ai martellanti: “mamma, ho sete”, “mamma, ho sonno”, “mamma, mi scappa la pipì”, “mamma dove sei?”, “mamma come sta su il sole?”; per passare all’età scolare con i suoi: “mamma non lo so fare”, “mamma mi aiuti?”, “mamma sono stanco” (sugli eventi collaterali indiretti – tipo le chat delle mamme di scuola – conviene tacere per non scatenare il panico generalizzato), fino alle armi più sottili, quegli “esco” seguiti dal rumore della porta che sbatte, fino al silenzio, cuffiette nelle orecchie, degli adolescenti entrati nella “fase oscura”, quando una madre sarebbe disposta ad infinite altre ore di sonno mancato, o di operazioni anti pidocchi – sottovalutate gioie del passato – per sentire ancora quella voce rivolgersi loro con attesa e desiderio (sempre che accada, questi eventi a lungo termine sono effetti probabili ma non ineludibili della malattia “figlio” Dicono che in certe famiglie, certo affiatamento e certa complicità non vengano meno neppure durante l’età peggiore. Dicono…).
Insomma, chi avesse deciso di non difendere la propria vita dall’intrusione violenta e pervasiva di un figlio, sa perfettamente di essersi caricato sulle spalle un fardello che non si potrà mai più togliere (pena la perdita di una parte di sé), non sarà mai più “libero”, nel senso di svincolato e solo, ma costantemente “dipendente”, cioè “in balia di” qualcuno che lo amerà incondizionatamente (almeno per tutta la prima infanzia) e insieme gli presenterà tutti i conti della sua debolezza. Una presenza che gli ricorderà che la propria identità non gli è totalmente disponibile, non può far di sé tutto quel che vuole, quando vuole e come vuole, ma che l’esistenza è tutta determinata dal proprio fine, compimento della propria essenza. Sono così infettivi, questi nostri figli, che ogni minuscola particella di bene che ricevono da noi, la amplificano, moltiplicandola esponenzialmente, “infettando” tutto quello che li circonda con quel che hanno ricevuto. Si chiama “evangelizzazione”: l’avvenimento di quell’opera compiutamente umana che è la famiglia.
Cristina Tamburini
Rachele Sagramoso
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