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Gli Alleati fecero la guerra all’Italia, non al fascismo

francesco lamendola Sep 20, 2022

di Francesco Lamendola

Una leggenda dura a morire, messa in giro nel 1943 dagli stessi Angloamericani per bocca di Churchill e Roosevelt, e che poi ha retto a ogni senso critico per ragioni interne che non ci fanno onore, è che essi, nella Seconda guerra mondiale, non perseguissero lo scopo di annichilire l’Italia e ridurla al rango di potenza di secondo ordine, per i loro fini imperialistici di egemonia mondiale, ma che combattessero “semplicemente” per abbattere la dittatura fascista e quindi, in un certo senso, almeno dopo l’8 settembre, non contro, ma per il bene del popolo italiano e del suo vero interesse nazionale. Caso più unico che raro di due potenze che fanno la guerra ad una terza per restituire al suo popolo la libertà conculcata, in veste di amici e liberatori, se non proprio di benefattori e filantropi, meritevoli di eterna gratitudine dai liberati, ad onta dei sempre più selvaggi e inutili bombardamenti aerei, dai quali si poté misurare il grado di quel disinteresse e di quella supposta amicizia: bombardamenti indiscriminati e crudeli che fecero dieci volte più vittime di tutte le rappresaglie tedesche messe insieme (ma questo viene taciuto alle nuove generazioni, le quali ancor oggi nulla sanno di ciò).

È evidente perché e nell’interesse di chi sia stata diffusa questa leggenda che ha finito per usurpare il nome di verità storica. Quella piccola minoranza di italiani che odiava o a tal punto il fascismo da bramare una guerra mondiale e una sconfitta della patria pur di vederlo nella polvere, e alcuni dei quali, essendosi portati all’estero, tramavano e intrigavano con le potenze anglosassoni sin da prima del 10 giugno 1940, diciamo almeno dall’epoca della guerra di Spagna, per veder realizzate le loro aspirazioni, e per i quali venne poi sancito, quale attestato di benemerenza dei vincitori riconoscenti, l’obbrobrioso articolo 16 del Trattato di Pace, che faceva divieto al governo italiano di perseguire i traditori che da ben prima dell’8 settembre 1943, cioè (almeno) dal 10 giugno 1940, si erano adoperati per la vittoria della causa “alleata”, vale a dire per la sconfitta catastrofica della propria Patria e per rendere vano il sacrificio dei soldati, dei marinai, degli aviatori e dei civili che avevano dato la vita per  difenderla. E si è arrivati al punto che fior di ammiragli italiani sono stati insigniti, al termine della Seconda guerra mondiale, di prestigiose decorazioni al merito dalle Forze armate statunitensi: perché mai? Forse per l’eroismo con cui avevano ceduto le piazzeforti e consegnato intatte le belle navi da battaglia, senza sparare un colpo di cannone? Possibile che nessuno, in Italia e nelle Forze armate italiane, si sia fatto questa semplicissima domanda: perché l’ex nemico avrebbe dovuto premiare così vistosamente, in maniera retroattiva, il comportamento dei nostri alti ufficiali?

L’Italia democratica e repubblicana del dopoguerra è nata così: è nata male, sotto la tutela del nemico diventato, a parole, improvvisamente amico; insultando e vanificando il sacrificio dei valorosi caduti per la Patria, anzi nascondendolo per quanto possibile (quanti studenti sanno dell’impresa di Alessandria d’Egitto contro la flotta inglese?), o presentandolo in una luce falsa e ingannevole, così da riversare il massimo discredito sul caduto regime (leggende come quelle delle suole di cartone dei nostri soldati nella campagna di Russia, per esempio, ormai quasi impossibili da confutare) e mostrare che quella sconfitta, oltre che benefica perché foriera della tanto agognata libertà, era anche inevitabile (una necessità storica, l’ha definita l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano), così come inevitabile era stato il prezzo da pagare perché finisse: le criminali distruzioni aeree (eravamo pur sempre in guerra!) e le rappresaglie tedesche (tacendo o alterando le circostanze che le avevano causate).

Quante falsità, quante menzogne. Così, ancora oggi, al popolo italiano viene taciuto che quei bombardamenti aerei, inutilmente crudeli perché non rallentarono d’un giorno la produzione bellica e pertanto puramente terroristici, erano sovente suggeriti e diretti da elementi della cosiddetta Resistenza; e che le rappresaglie tedesche, specie nella fase finale del conflitto, erano provocate a bella posta da partigiani comunisti che poi si eclissavano, lasciando la popolazione inerme e incolpevole a pagare i costi della vendetta tedesca, al preciso scopo di far crescere l’odio e di spingere il popolo nel senso da loro desiderato. Che non era certo quello della libertà e della democrazia, ma del comunismo staliniano, ossia di un totalitarismo cento volte più spietato e tremendamente efficiente di quello del Ventennio fascista.

Non che ci volesse molto coraggio ad assassinare per la strada, sparando loro nella schiena, dei podestà o dei dirigenti fascisti che se ne tornavano a casa, a piedi e senza scorta; o a sparare dal finestrino dell’automobile ad un vecchio professore che di nulla era colpevole, come Giovanni Gentile, se non di aver parlato in favore della riconciliazione nazionale per fronteggiare il mortale pericolo che incombeva sulla Patria tutta. E neppure sparare a tradimento sulle colonne tedesche in ritirata, nell’aprile del 1945, premute da presso dalle armate angloamericane avanzanti: neppure questo richiedeva una gran dose di coraggi; né rispondeva alla benché minima logica di guerra. A nemico che fugge, ponti d’oro, recita una massima conosciutissima, espressione di puro e semplice buon senso. Perché quei soldati, disciplinatissimi e valorosi anche nella disfatta (e questo si può dire, o è politicamente scorretto?) se ne stavano andando via e non chiedevano altro che di poter rientrare al loro Paese: non avevano alcuna voglia di fermarsi a rastrellare le case e bruciare i paesi, a meno che qualcuno non tentasse di ammazzarle sparando loro addosso alle spalle. Perché attaccarle dunque? A quale scopo, se non quello di farle infuriare e provocarne l’inevitabile reazione? L’importante, evidentemente, era che tedeschi e fascisti rispondessero con rappresaglie sanguinose, sì che l’odio crescesse e la gente guardasse ai comunisti come i soli capaci di opporsi a quella barbarie e di costruire un nuovo orizzonte di speranza, a guerra finita, grazie al prestigio guadagnato in guerra (una ben trista guerra in verità: la guerra civile, iniziata già in Spagna nel 1936, combattuta in terra straniera ma fra italiani, prova generale di quell’altra, come profetizzato allora: oggi in Spagna, domani in Italia).

A prova di ciò, la stranissima moria di capi partigiani non comunisti che si verificò nell’aprile del 1945: quando non si trattò di eliminazione pura e semplice, senza finzioni né sotterfugi, condotta dai comunisti a viso aperto (e magari per conto del Partito comunista jugoslavo) e ben prima della conclusione del conflitto, come accadde alle malghe di Porzus, sui monti del Friuli, al principio di febbraio del ‘45, tre mesi prima che le armi tacessero in quella parte d’Italia. Si vada a vedere la storia delle brigate partigiane nelle ultime settimane e negli ultimi giorni di guerra, e si scoprirà che un numero impressionante di capi delle formazioni cattoliche, monarchiche, azioniste, socialiste e perfino anarchiche, sono caduti sotto il fuoco del tedesco in ritirata. Strano, molto strano: specie se poi si va a verificare caso per caso, e ci si accorge che tedeschi, in quel luogo e in quel momento, praticamente non ce n’erano più: si erano già tutti avviati sulle strade della ritirata verso la Germania. A meno che qualche valoroso partigiano comunista non avesse segnalato agli “alleati” i loro movimenti, provocando bombardamenti aerei che distruggevano le colonne in fuga; le quali, metti caso, trasportavano anche ingenti somme di denaro, poi misteriosamente non più ritrovato. Sta di fatto che, negli anni seguenti, si videro ex partigiani, notoriamente di modestissima condizione economica, aprire attività imprenditoriali grazie ad una improvvisa disponibilità di capitali che nessuno sapeva donde venissero.

Ci piace riportare qui una pagina dello storico piemontese Piero Operti (1896-1975), uno storico di valore ma pressoché ignorato dalla cultura dominante, perché dichiaratamente monarchico e conservatore (basti vede il giudizio sprezzante e ingiustissimo di Luciano Canfora, intriso di cieca faziosità ideologica), tratta dal suo saggio La partita a due (il Re e il Duce), pubblicato in due parti sulla rivista mensile Historia, Milano, Cino Del Duca Editore, seconda parte, Anno VII, n. 65, Aprile 1963, pp. 62, 63):

Fino alla seconda guerra l’opposizione di ogni tinta non costituì neppure l’ombra di una “alternativa” che il Re potesse prendere in considerazione; essa aveva i quadri, non la truppa, che si trovava quasi tutta nell’altro campo e passò di qua quando di là cominciò a grandinare.

L’antifascismo divenne indomabile come torrente ch’alta vena preme per effetto dei rovesci militari, ossia il regime cadde sulla politica estera, non sulla politica interna; non fu abbattuto dagli italiani ma  dalle nubi di aerei, dagli sciami di navi, dalle falangi di carri, dalle moltitudini d’armati d’ogni razza e colore che si rovesciarono sulla nostra terra. (…)

La comune ignoranza della Storia favorisce la confusione fra la CAUSA e l’OCCASIONE di una guerra, e e quindi il convincimento che senza quella determinata occasione la guerra si sarebbe evitata. Dopo Roma antica, l’Italia non è mai stata di statura tale da determinare la CAUSA di un conflitto generale e ha potuto soltanto determinare l’OCCASIONE del proprio intervento, d’altronde ineluttabile.

Da quando si combatterono in Europa conflitti di opposte coalizioni, cioè dal Cinquecento con la guerra di predominio fra Francia e Impero, salendo nei secoli alla guerra dei Trent’Anni, alla guerra della Lega d’Augusta, alle tre guerre di Successione, al periodo napoleonico, l’Italia non poté mai tenersi in disparte.

Nelle branche della tenaglia non ci siamo messi noi, ci ha messi la geografia. La prima e la seconda guerra mondiale rientrano nella serie, ed è inutile richiamare la Spagna, che si trova in una diversa posizione geografica, o la Svizzera, alla cui neutralità tutti sono interessati, mentre nessuno è interessato alla neutralità dell’Italia.

L’ultima volta il nostro intervento poteva forse venir procrastinato, scongiurarlo non si poteva. In una conflagrazione generale le basi terrestri aeree e navali della Valle Padana e dell’Italia peninsulare sono troppo importanti perché nessuno voglia impadronirsene. Unica nostra scelta era di ricevere in prevalenza le bombe tedesche o quelle “alleate”, e dal momento che gli strumenti bellici divenivano il fattore determinante, dinanzi alla strapotenza industriale dei tedeschi, degli angloamericani e dei russi noi eravamo in qualunque caso il vaso di coccio costretto a viaggiare coi vasi di ferro, con la sola consolazione, a viaggio finito, di cercare dentro di sé capri espiatori da incolpare delle rotture.

Per aver determinato il 10 giugno 1940 l’occasione dell’intervento, Mussolini divenne per l’opinione media, naturalmente volta alle idee più facili, il responsabile della guerra, nella convinzione che senza il suo atto l’Italia sarebbe potuta passare indenne attraverso il cataclisma come la salamandra nel fuoco. (…)

Che Inghilterra e America abbiano sbagliato nemico è un’opinione sorta all’indomani della loro vittoria e che gli avvenimenti successivi hanno progressivamente diffusa in quei paesi. Hitler sarà stato demente, paranoico, schizofrenico, criminale, tutto ciò che si voglia, ma che per togliere di mezzo un uomo si debba scardinare il mondo e distruggere le secolari forze che arginavano la pressione dell’Asia sull’Europa significa, oltretutto, attribuire a quel mortale una grandezza immeritata; e non dimentichiamo che il Fuehrer non avanzava alcuna pretesa a Occidente e che il conflitto generale sorse dalla garanzia dell’Inghilterra alla Polonia. Mikolajczyk, capo del governo polacco esule a Londra, seppe, alla fine, cosa valesse quella garanzia; sicché il finimondo derivò dalla volontà di osservare un impegno che poi non fu osservato.

Entra l’Italia nel roveto ardente, l’opposizione attraverso un disfattismo sistematico e onnipresente conseguì nella seconda guerra ciò che non aveva conseguito nella prima, e la giustificazione del tradimento contro la patria era nell’idea che la patria non c’entrasse per niente, perché quello che si combatteva era un conflitto non nazionale bensì IDEOLOGICO, nel quale i singoli cittadini dovevano trarre ispirazione unicamente dalla propria coscienza politica e avevano il diritto di schierarsi e dalla parte che incarnava il loro ideale politico. Il sottofondo di codesta aberrazione era la totale mancanza di spirito nazionale negli oppositori, per i quali (salvo alcune eccezioni che si contavano sulle dita) gli interessi permanenti, morali e materiali, del Paese non erano nulla, il regime era tutto. Essi anteponevano una interna diatriba, un litigio comunque aspro di famiglia, alla tragica prova che impegnava l’intera famiglia italiana dinanzi al mondo e che avrebbe determinato nel futuro la sua condizione e il suo onore; le guerre infatti sono scritte nella roccia della politica estera, i regimi sono scritti nella sabbia della politica interna.

Saremmo stati sconfitti egualmente – dicono – e si deve ammetterlo; senonchè vittoria e sconfitta  sono fatti enormi ed esclusivi nel momento in cui si avverano; allontanandosi nel tempo le loro dimensioni si riducono e ciò che conta, ciò che rimane stabilente acquisito e incide sulla quotazione internazionale di un popolo è il suo essersi dimostrato idoneo agli esami prescritti dalla irrecusabile Storia, è il documento di energia morale e di coesione nazionale che esso ha saputo dare. L’estero guarda al comportamento del paese belligerante, civili e militari, E NON CONOSCE ALTRO, come non è ammissibile che un pugile sul quadrato non s’impegni sul serio per far dispetto al suo manager. Sostenendo bene la priva, qualunque ne fosse l’esito non si sarebbe avvalorato il fascismo, si sarebbe avvalorato il popolo italiano; e la prova fu sostenuta male perché fu sabotata benissimo. Al sabotaggio venne dato il nome di libertà, e il pensiero del valore che potesse attribuirsi ad una libertà politica ricevuta dagli stranieri al prezzo della nostra retrocessione non sfiorava gli oppositori, per i quali ciò che importava era la SUCCESSIONE comunque realizzata. Il nostro “declassamenti” non lo dobbiamo a Mussolini e alla sua gente, lo dobbiamo a costoro, che col loro settarismo hanno vulnerato il prestigio militare faticosamente acquistato in un secolo di vita unitaria, hanno dissolto il senso nazionale che avevamo ereditato dal Risorgimento, hanno mortificato la fiducia degli italiani in se medesimi.

“Perdere per vincere”, “guerra ingiusta”, “guerra non sentita”, “il male minore”, “quanto prima tanto meglio”, erano le formule prese di peso dalla propaganda radiofonica del nemico (il quale aveva compiuto la sua invidiabile carriera storica praticando la massima: «right or wrong my country» per disgregare lo spirito pubblico, senza il cui sussidio nessun esercito può adempiere validamente il compito suo. Si volle ignorare che Mussolini e il suo regime erano per i nostri nemici il falso scopo, vero scopo essendo colpire l’Italia, scacciarla dall’Africa dove si era insediata a loro dispetto, diminuirla nel Mediterraneo e alle frontiere terrestri, ridimensionarla conforme alle loro convenienze, averla al proprio servizio. E che le cose stessero così e non altrimenti lo dimostrò il Dettato di Parigi del febbraio 1947(…)

È un brano di prosa notevole, ed è notevole che un testo simile venisse pubblicato su una rivista di divulgazione storica nel 1963: ai nostri dì la cosa sarebbe impensabile. Una cappa di conformismo e di servilismo è calata su ogni discussione, talché risulta impensabile porre in forse, anche solo in maniera cauta e argomentata, la Vulgata resistenziale, antifascista, democratica e repubblicana. Sì, perché se i capi dell’opposizione antifascista, andati al potere, portati dalle baionette straniere, nel 1945, avevano molte cose da nascondere e farsi perdonare, e molte connivenze con l’ex nemico da occultare (salvo poi esibire senza vergogna le medaglie da lui ricevute!), anche la maggioranza del popolo italiani aveva qualcosa da nascondere: il consenso al regime fascista (entusiastico, ai tempi della proclamazione dell’Impero); il voltafaccia dell’estate del 1943; la finzione di non esser mai stato fascista, per ricevere l’oltraggiosa elemosina degli invasori anglo-americani e godere poi, a guerra finita, della loro simpatia politica e del loro sostegno finanziario (e sia pure al prezzo, ma questo si fece e si fa finta d’ignorarlo, di vedere l’Italia ridotta al rango di una colonia, governata in ogni caso secondo i loro interessi e desideri, in saecula saeculorum. Il voltafaccia più disinvolto di tutti – se vogliamo adoprare il concetto di disinvoltura, che in effetti è leggermente eufemistico - è stato comunque quello dei comunisti, o post-comunisti: i quali, rimasti orfani dell’Unione Sovietica, si sono fatti i più strenui difensori dell’alleanza, vale a dire della sudditanza, verso gli Stati Uniti d’America: proprio loro che avevano sempre descritto il capitalismo come la forma più atroce di barbarie. Dimostrazione eloquente che, nella psicologia comunista, l’importante è sentirsi schiavi felici e quanto mai collaborativi di un padrone potente: che sia Mosca o Washington fa poca differenza.

Tornando a Piero Operti, siamo certi che ben pochi italiani, e soprattutto ben pochi giovani, lo hanno mai sentito nominare. Nelle grandi case editrici, tutte debitamente antifascista e progressiste, non c’era posto per studiosi come lui; ce n’era poco, a dire il vero, anche solo per i romanzieri o i poeti che non fossero di sinistra e non avessero dato prova della loro correttezza politica scagliando qualche strale e lanciando qualche insulto all’indirizzo del cadavere di Mussolini (come fece, con infamia, Carlo Emilio Gadda) e contro i vinti di Salò. E oggi, se possibile, ce n’è ancora di meno: anche se, a parole, la libertà di ricerca e di opinione e il pluralismo culturale vengono non solamente ammessi e rispettati, ma addirittura celebrati. La cosa notevole è che Operti è stato uno studioso di sentimenti dichiaratamente monarchici, e che ha fatto quanto poteva per giustificare il comportamento (a nostro parere ingiustificabile) di Vittorio Emanuele nei confronti di Mussolini. E tuttavia – onore all’onestà intellettuale, da qualunque prospettiva ci si ponga - egli non ha fatto quel che tanti altri, al suo posto, avrebbero fatto: non ha sparato a zero su Mussolini per alleggerire la posizione di Vittorio Emanuele III di fronte alla storia. Anzi, è stato così equanime e signorile da mostrare come anche certe scelte di Mussolini, prima fra tutte quella di entrare in guerra nel 1940, erano state pressoché obbligate; che qualunque altro statista e qualsiasi altro governo, diverso dal fascismo, in quelle tali circostanze, si sarebbero regolati non diversamente. E soprattutto ha fatto notare che il fascismo, a quel punto, e cioè dopo il 10 giugno del 1940, era divenuto tutt’uno, nella grande partita mondiale che si era accesa, con le sorti dell’Italia; che la disfatta del fascismo sarebbe stata non la resurrezione, ma la disfatta definitiva dell’Italia e la sua retrocessione al rango di potenza marginale; che quanti si adoperavano per la sconfitta del fascismo, in quella situazione, che vedeva traballare la stessa unità nazionale e messa a rischio tutta l’opera del Risorgimento, si adoperavano in realtà, consapevoli o meno che fossero, per la sconfitta dell’Italia e il suo duraturo asservimento alle potenze vincitrici (e qui bisognerebbe fare un po’ di pulizia linguistica e chiarire che non ha senso chiamare “alleati” quelli che erano i nostri nemici, a meno di voler falsificare intenzionalmente tutto il giudizio storico, e quindi anche il giudizio sull’Italia del dopoguerra. Cioè una nazione restituita alla democrazia (o meglio introdotta alle meraviglie della democrazia, perché l’Italia del 1922 possedeva uno sconquassato sistema liberale, né mai aveva avuto un sistema democratico) grazie alle bombe dei “liberatori”, all’invasione dei loro esercirti, agli stupri di massa delle truppe coloniali francesi, all’umiliazione nazionale aggravata da una guerra civile che gli “alleati” avevano incentivato  e favorito con armi, denaro e lancio aviotrasportato di ”consiglieri” ed esperti. Esperti di terrorismo: quel terrorismo che provocava la reazione imbestialita dei tedeschi e dei fascisti.

Onore a storici come Piero Operti, dunque: due volte signore e due volte onesto, perché da monarchico non sputava sulla memoria di Mussolini, e da italiano non sputava sulla guerra per la sopravvivenza (e solo apparentemente guerra di aggressione) che era stata dichiarata il 10 giugno del 1940, smascherando le vere intenzioni di gran parte degli antifascisti che, privi di seguito, credibilità e autorevolezza e costretti per vent’anni a masticare il fiele della loro impotenza, videro nella guerra e nella sconfitta della Patria la sola possibilità di prendere il potere, fare le loro vendette e inserirsi in un Nuovo Ordine Mondiale dominato dalla grande finanza internazionale: la vera protagonista, benché occulta, degli eventi del 1939-45. Quella grande finanza che hanno poi servito così bene per oltre un settantennio e che oggi stanno servendo ancor meglio, adattandosi a introdurre nel nostro Paese la malvagia volontà di un potere disumano, che si serve di qualsiasi mezzo, dalla menzogna alle false pandemie, per raggiungere i suoi scopi: lo sfruttamento delle nazioni e la sottomissione dei popoli.

 

 

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