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Fine vita, Patriarca Moraglia: «No a leggi con mentalità dello scarto»

francesco moraglia il timone vita e bioetica Mar 18, 2025

FONTE : IL TIMONE

Pubblichiamo di seguito l’intervento del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia diffuso in questi giorni a diversi organi di stampa sul tema del fine vita. Il Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, ha risposto al Patriarca su Il Mattino di Padova e a sua volta il Network associativo Ditelo sui tetti ha diramato una nota firmata dal coordinatore Domenico Menorello in cui si evidenzia come «il presidente Zaia contesta il Patriarca di Venezia facendo espressamente leva sul suo «ruolo istituzionale. Ma il presidente del Veneto sa bene non solo che il parlamento nazionale sta lavorando a un testo di legge quanto più condiviso, ma anche, e soprattutto, che, a differenza di quanto perentoriamente afferma, la Consulta non ha affatto stabilito un «diritto» dei cittadini cui debba corrispondere un «dovere» del servizio sanitario pubblico di dare la morte ai malati». (LB)

di Francesco Moraglia*

Per prima cosa desidero esprimere la mia vicinanza e la mia comprensione della sofferenza e del dolore nei confronti di quanti vivono tempi particolarmente difficili per la salute personale o di qualche familiare, avendo in passato accompagnato delle persone in tale situazione.

Mi soffermo sul significato e sul valore che ha ogni legge perché è questione rilevante e, per certi versi, dirimente. Ogni legge ha una forte valenza sociale perché riguarda la comunità: incide sulla vita di una società, è espressione di mentalità e cultura e, a sua volta, genera mentalità e cultura. Consideriamo poi un altro aspetto: per il senso comune dell’uomo quanto è affermato dalla legge è automaticamente “legale” e coincide con giustizia e verità. Ma non è sempre così: la storia presenta molti esempi di leggi che non hanno risposto a criteri di giustizia e verità.

La domanda, allora, è se di fronte a questioni riguardanti il fine vita sia corretto, in nome di una concezione riduttiva di libertà, porre come criterio la possibilità di provocare la morte o di accelerarla nel momento in cui si vive un disagio fisico, psicologico, psicofisico, esistenziale.

Tale concetto di libertà è riduttivo perché non è accompagnato da una reale tensione verso il bene e la giustizia e, quindi, risulta penalizzante e dannoso per la cultura che genera. Infatti, quando una legge tocca l’esperienza umana in punti così sensibili quali la nascita o la morte, attribuendo facoltà e diritti in un senso o nell’altro, non costituisce solo un apparato tecnico di norme e disposizioni ma interagisce con la sensibilità comune e la cultura plasmandole in modo irreversibile.

Assecondare una tale deriva conduce – favorendo una cultura ed una mentalità volte ad annullare la vita umana piuttosto che a tutelarla – ad apprezzare sempre meno la vita, specialmente innanzi alle esistenze fragili di uomini, donne e bambini. Vite che, in realtà, necessitano di maggiori attenzioni, protezioni e cure. In nome di una presunta “libertà” si rischia così di percepire sempre più come un peso – anche a livello economico ed “energetico” – malati, anziani e disabili. È questa la libertà che desideriamo per noi e per gli altri, è questo il maggior bene che vogliamo e cerchiamo?

Nelle scelte personali non devono entrare solo valutazioni di tipo individuale e soggettivo – la “mia” volontà – ma un complesso di considerazioni che tengano conto del tessuto relazionale della società. Inoltre anche l’esperienza della sofferenza e del dolore, se condivisi, esprimono il volto umano di una società solidale, più amorevole e giusta, attraverso la cura e la quotidiana attenzione verso gli altri.

È perciò essenziale promuovere e curare la vita umana in ogni momento, dal primo inizio al naturale spegnersi e per questo si dice un chiaro “no” ad ogni forma di accanimento terapeutico ma anche ad ogni volontà di abbandono terapeutico e, a maggior ragione, al suicidio assistito.

Oggi, poi, lo sviluppo sempre maggiore delle cure palliative rende concreta e praticabile la strada di un accompagnamento dignitoso della persona umana fino alla fine.

Oggi tali cure mostrano grandissima efficacia perfino nelle fasi più difficili, alleviando realmente il dolore, combattendo la depressione e recuperando una buona qualità della vita. E tutto questo, francamente, rende ancor più incomprensibile una legge o un regolamento che diano la morte.

La questione è che il sistema socio-sanitario e quanti hanno potere e responsabilità a livello politico e amministrativo devono far sì che tali terapie siano più realmente e facilmente fruibili dai cittadini, garantendo risorse e attribuendo valore a ciò che è essenziale, ovvero sostenere la cura e la vita di ogni persona, accompagnare sempre tutti, non abbandonare mai nessuno.

Davvero è una questione di libertà. Ma di quale libertà? Una libertà autentica non è mai un campo neutro; è piuttosto un orientamento sostanziale positivo verso il bene e la vita. Pensata in astratto, la libertà si riduce a spontaneità (si fa ciò che si sente) e, quindi, può inclinare anche a una logica di morte, frutto della disperazione provocata da quella miscela esplosiva che è la paura, il dolore, la solitudine.

Pensata in concreto, invece, la libertà si lega all’essere della persona umana orientata all’affermazione della vita e alla sua cura. Chi soffre ma si sente accompagnato, curato e sostenuto – dalla famiglia, dalla società, dal sistema sanitario ed anche con l’aiuto delle opportune cure palliative – ripugna la logica di morte che è effetto di disperazione e assenza di speranza.

*Patriarca di Venezia

(Immagine screen shot YouTube)

 

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