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Fermi tutti! Il piccolo tifoso col copricapo indiano non è un razzista: è un nativo americano

caterina giojelli tempi Dec 05, 2023

di Caterina Giojelli

Pluripremiato giornalista perde la testa davanti a un bambino allo stadio con la guancia nera e la corona piumata. Blackface! Appropriazione culturale! Doppio razzismo! E invece no. Ma tutti gli vanno dietro. Un caso clamoroso di woke nel pallone

«Ci vuole tanto per mancare di rispetto a due gruppi di persone contemporaneamente. Ma domenica pomeriggio a Las Vegas, un fan dei Kansas City Chiefs ha trovato il modo di odiare i neri e i nativi americani allo stesso tempo».

Ci vuole tanto anche per prendere due granchi woke in colpo solo e affossare allo stesso tempo tutte le fregnacce predicate dalla categoria. Ma Carron J. Phillips, giornalista pluripremiato e candidato al Pulitzer, autore di questo articolo che esorta la National Football League a insorgere contro il pericoloso razzista in tribuna, ha trovato il modo.

Blackface! Appropriazione culturale! L’editorialista contro un piccolo tifoso

Domenica scorsa infatti Phillips, raddrizzatore di torti sportivi che divide il mondo in razzisti e attivisti Black Lives Matter, si è imbattuto in una immagine terrificante: tra i 65mila spettatori delll’Allegiant Stadium c’era lui, un ragazzino, di profilo. Con la faccia pitturata di nero. E il copricapo piumato da nativo americano. Psicodramma. Blackface. Appropriazione culturale. Un minore vietato ai minori.
E così ha affidato queste righe scomode al sito sportivo Deadspin:

 

«Perché il cameraman ha prestato attenzione a questo fan?
Perché il produttore ha permesso che quell’angolazione della telecamera venisse trasmessa?
Quel fan è un bambino/adolescente o un giovane adulto?
A prescindere dall’età, chi ha insegnato a quella persona che ciò che indossava era appropriato?».

Phillips non sa rispondere a queste domande, ma di una cosa è certo come un Berizzi a Repubblica: si trova davanti a un caso lampante di doppio razzismo e la colpa è tutta della Nfl, la Lega del football americano. «Anche se non è sua responsabilità impedire che il razzismo e l’odio vengano insegnati in casa, la lega ha contribuito incessantemente al pregiudizio». Secondo lo scrittore «non saremmo arrivati a questo» se la Nfl avesse fatto cose come bandire il gesto denominato “tomahawk chop” o pretendere che si cambiasse nome alla squadra («Non c’è posto per un marchio chiamato “Chiefs” in una lega che ha già sradicato i “Redskins”», sic!) e si fosse impegnata concretamente e non solo ipocritamente con gli slogan per combattere il razzismo. Bene, applausi, bis, sono anni che diciamo che inginocchiarsi alle semplificazioni non serve a nulla. Non fosse per diciamo così, un paio di particolari.

Colpo di scena: il bambino col copricapo indiano è un indiano

Il primo. Il doppiamente razzista bambino non aveva la faccia dipinta solo di nero: ma pure di rosso. Un lato rosso e un lato nero, come i colori dei Kansas City Chiefs: si chiama facepaint, non c’entra una mazza col blackface ed è in voga tra tanti tifosi, non solo quelli dei Chiefs. Il secondo. Il bambino si chiama Holden Armenta, è nato in una famiglia di nativi americani e suo nonno, Raul Armenta, siede nel consiglio della tribù Chumash a Santa Ynez. Un indiano col copricapo indiano, nipote di un capo indiano, signoramia.

 

 

Il terzo. Il pluripremiato Carron J. Phillips è la testimonianza vivente di cosa succede quando si va anche a letto con quella camicina di forza al pensiero libero chiamata woke: basta un bambino con la faccia truccata per perdere la ragione. Prova ne è che invece di incassare di colpo e scusarsi per avere dato per certo che quel bambino fosse cresciuto a «odio e razzismo in casa», il giornalista ha ribadito il concetto: «Per gli idioti che commentandomi trattano questo fatto come un atto innocuo solo perché l’altro lato della faccia era dipinto di rosso, rispondo che anzi rende le cose ancora peggiori. Siete come quelli che odiano i messicani ma indossano i sombreri su Cinco».

Ma la reazione è significativa: nessuno ha messo in dubbio la versione di Phillips, rilanciata da colleghi e Cbs con tanto di zoom sull’“outfit” del povero Holden – talmente offensivo per i giocatori che perfino loro si erano uniti al gesto del piccolo che dagli spalti mimava il colpo di tomahawk. Al fact checking questa volta hanno dovuto pensarci gli impresentabili ultras e tifosi dei Kansas City, fino al verdetto di mamma Shannon su Facebook rivolta ai giornalisti di Deadspin: «La smettete? Mio figlio è un nativo indiano». Troppo tardi. È bastato mostrare un solo lato – letteralmente – della vicenda perché chi sedeva dal lato giusto della storia perdesse completamente la testa.

 

FONTE : TEMPI

 

 

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