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Ecco perché la luce diviene l’anima dell’arte cristiana

francesco lamendola Dec 23, 2022

di Francesco Lamendola

Ogni civiltà possiede ed esprime una propria idea del bello; non esistono civiltà che perseguano scientemente il brutto, l’orrido, il malato, il disgustoso. Se ciò avviene, siamo in presenza di una degenerazione, che ha condotto quella civiltà in uno stato di profonda malattia. Agli esseri umani, in tutti i tempi e sotto ogni cielo, si addice la ricerca istintiva del bello, così come si addice l’inclinazione al vero e  al buono. Il bello (e il sorriso che l’accompagna, come espressione di una gioia interiore), il vero e il bene sono tutte manifestazioni di amore per la vita e attestano lo stato di salute di una società. Una società che ama le cose belle, che apprezza l’arte e i poeti, che ascolta la musica e dove la gente canticchia volentieri; una società che ama i bambini e la famiglia, che sopporta i piccoli inconvenienti della loro presenza talvolta esuberante; che onora e rispetta i vecchi, che li ascolta, che li obbedisce con riverenza, che evita in ogni modo di contristarli nei loro ultimi anni, è una società sana, protesa verso la vita perché ricca di energie vitali che hanno bisogno di esprimersi.

Queste riflessioni, applicate alla cosiddetta arte contemporanea (e naturalmente anche alla musica), ci porterebbero piuttosto lontano, all’inseguimento di cause sempre più sfuggenti e con la dura necessità di fare i conti con uno stato di cose profondamente innaturale, che noi sopportiamo da così tanto tempo come se ci fossimo ormai abituati. Se così fosse, ci troveremmo alle prese con una vera e propria mutazione antropologica o, come oggi va di moda esprimersi, ad una forma di transumanesimo in atto. L’uomo non sarebbe più quello che abbiamo sempre conosciuto, o creduto di conoscere; sarebbe un estraneo, un intruso che si è intrufolato fra di noi, che veste e parla più o meno come noi, ma che non sogna più, da bambino non desidera giocare, né giocattoli; ma è tutto proteso al risultato pratico delle sue azioni: e, quel che è peggio, essendo terribilmente efficiente e determinato, nel giro di un paio di generazioni ci butterà tutti quanti fuori dal nido, noi che non ci adatteremo, come il cuculo si sbarazza dei passeri non appena diventa abbastanza grosso e robusto per farlo.

Bisogna anche dire che lo slancio universale dell’anima, e delle civiltà, verso la bellezza, può anche assumer forme parziali, artificiose, devianti e ossessive: in altre parole, come tutte le passioni, deve essere vigilato affinché si esprima in maniera ordinata e costruttiva e non divenga esso stesso un fattore di confusione estetica e di corruzione morale. Nel caso della civiltà greca classica, per fare un esempio, l’attrattiva verso la bellezza del corpo fisico, inteso come proporzione di membra giovani e atletiche e dando per scontato che ciò rechi impresso il sigillo di un’eccellenza di tipo anche spirituale, degenerò per tempo nel culto dell’efebismo, che tanto peso ebbe poi nel deviare il normale istinto sessuale dell’uomo in direzioni impreviste, non solo verso il maschio anziché la donna, ma verso il giovanetto impubere, dando luogo a quella particolare forma di esperienza pseudoeducativa chiamata Paideia che a stento celava un rapporto di natura tutt’altro che platonica fra l’uomo già fatto e il giovinetto.

Come ha osservato lo storico dell’arte aretino Barna Occhini (1905-1978), fiera e indipendente figura d’intellettuale a tutto campo, nella sua opera in tre volumi L’arte classica e l’arte italiana, Milano, Paravia, vol. 1, Dalle origini a tutto il Trecento, p. 41):

Il tipo di umanità che predilessero gli artisti del quinto secolo fu una creatura giovine, nel primo fiore della maturità, dal corpo intatto e rigoglioso, forte e asciutto, ma senza l’asprezza dei contorni che è nell’adolescente. Apollo, il dio della giovinezza e della bellezza, fu l’invisibile archetipo di quell’epoca. Scacciarono i gobbi, gli storpi, i rachitici, i malati, i neonati, i fanciulli, i vecchi. Ed è curioso notare che quando, per la necessità del soggetto, non poterono fare a meno di raffigurare un fanciullo o un cittadino di molta età, lo schiavo deformato dalla fatica o l’uomo del basso popolo, rude e grossolano per non aver mai frequentato la palestra, cancellarono l’agrore della puerizia, il raggrinzimento senile e ogni deturpazione e bruttezza e volgarità, onde riaccostarsi all’ideale efebico, solo indicando per accenni discreti le discrepanze fisiche e psicologiche. Il medesimo avvenne quando ebbero da raffigurare non Apollo, Ma l’annoso Zeus, lo zoppo Efesto, il barbuto Poseidon, Dioniso il turbolento. E mascolinizzarono la donna, conferendole una forte complessione e virile compostezza di atti.

La donna comincia ad esser veramente tale sul finire del 400. Nella Nike di Peonio (c.4209, che è un originale, e nelle Nike scolpite a bassorilievo sulla balaustra del tempietto di Athena Nike, sull’Acropoli di Atene (c. 408), magistralmente drappeggiate, la tunica aderisce in più parti così intimamente, che le forme traspaiono come in nudità; e sono come molli, tondeggianti, che fluiscono per via di morbide flessioni in curve dolci. La donna è entrata nell’arte della pienezza della sua femminilità agli onori e ai trionfi dei secoli successivi.

Questo, però, non prima di tutto il quinto secolo, quando le ragazze erano ancora rappresentate come degli agili ragazzi, con le spalle larghe, le gambe lunghe e i fianchi stretti, e alle quali fossero stati aggiunti sul petto un paio di seni. A tal punto era giunta l’ossessione greca per la bellezza efebica del corpo umano! Ed è logico: per apprezzare e valorizzare al giusto grado la donna nella sua autentica femminilità, è necessario non solo amarla, ma apprezzarla, considerarla e stimarla, cosa che la società greca – la spartana più di tutte, ma anche l’ateniese e le altre poleis – era ben lontana dall’aver raggiunto.

È pur vero che se la scultura e la pittura ci danno l’orientamento estetico più particolareggiato di una civiltà artistica, l’elemento centrale, che dà la nota a tutto il resto, è l’architettura: ed è appunto nella smaterializzazione dell’architettura, nella riduzione dei volumi a masse di luce o chiaroscuro, insomma nel massimo sforzo di purificare il lato fisico della bellezza per sfiorare le altezze inesprimibili dell’anima soprannaturale, l’arte paleocristiana si è impegnata con la massima coerenza e con perfetta padronanza dei mezzi stilistici e prospettici. Ciò appare particolarmente evidente nelle chiese a struttura basilicale, ispirate, a loro volta, alle basiliche civili romane, ma straordinariamente alleggerite, addolcite e trasfigurate dalle linee morbide create dai giochi d’ombra e di luce, specialmente nella scansione dei volumi e nelle corrispondenze fra l’ampio respiro della navata centrale, in genere molto più alta, e quello più angusto delle due o quattro navate laterali; oltre che dall’effetto prospettico delle linee di colonne in fuga, che non di rado sono impreziosite, come nell’esempio forse più puro di basilica paleocristiana, quello di Santa Sabina sull’Esquilino, dal riutilizzo di colonne scanalate tratte da templi pagani recentemente abbattuti o chiusi al pubblico (in questo caso, provenienti da un monumento tardo-antico forse mai posto in opera), e inserite con mirabile effetto d’insieme nel nuovo ambiente religioso. Meraviglioso esempio della capacità d’innestare il vecchio nel nuovo, facendo dialogare costruttivamente le due civiltà (un esperimento che verrà ripetuto, con esiti splendidi e duraturi, nel campo delle lettere e in quello della filosofia).

Scrive Giulio Carlo Argan nella sua Storia dell’arte italiana (Firenze, Sansoni, 1977, vol. 1, pp. 192-194):

Il fatto saliente, nelle prime basiliche cristiane, è il ritorno a una spazialità prospettica e rettilinea, impostata sull’asse ingresso-altare-abside. Da qualsiasi punto dell’interno lo sguardo va sempre, in linea retta, all’altare: soltanto al di là di esso, le linee rette che definiscono lo spazio per esatti piani prospettici si allentano, si flettono, convergono nel chiaroscuro che si gradua sulla curva della conce absidale. Il Vano luminoso della navata si espande però lateralmente, nelle navate minori meno illuminate, e, in alto, nel vuoto ombroso della copertura a tetto, tra le strutture nude delle capriate. Tra la navata mediana e le laterali il rapporto è, essenzialmente, di volumi e piani luminosi: i fusti delle colonne, al limite tra il grande spazio fortemente illuminato e gli spazi minori meno luminosi, graduano il trapasso e stabiliscono una relazione proporzionale tra i valori di ampiezza e di luce. La decorazione si riduce a pochi, semplici elementi con una loro ragione funzionale e simbolica: i capitelli, le cornici, le transenne che isolano, nello spazio della chiesa, la zona specialmente sacra del PRESBITERIO intorno all’altare.

Il processo di riduzione della spazialità articolata e avvolgente del tardo-antico  alla spazialità per piani giustapposti dell’architettura paleocristiana appare chiaro nella chiesa di SAN SALVATORE di Spoleto, del IV secolo, e nella basilica romana di SANTA SABINA, del principio del V. In Santa Sabina la luminosità delle pareti nude, la mancanza di membrature aggettanti, la sobrietà della decorazione rispondono certamente ad un programma. La chiesa esprime con sobrietà e schiettezza la propria funzione: è il sito ideale dove all’armonia spirituale della comunità adunata corrisponde l’armonia e la chiarezza delle forme che definiscono lo spazio. Le distanze e i volumi non sono più determinasti dalla capacità portante degli elementi o dal peso delle masse murarie, ma dal loro equilibrio proporzionale, dal corrispondere delle parti a una verità metafisica. Si ritrova così, su tutt’altro piano, la purezza del tempio greco: l’architettura è misura, costruzione dello spazio, ma lo spazio non è altro che luce, naturale e soprannaturale. Con trasparente polemica verso l’architettura “imperiale” si contrappone la forma alla forza, la sottile dottrina delle proporzioni alla brutale rettorica delle dimensioni, l’eternità dello spirito alla stabilità della potenza. Un’idea cristiana del BELLO, naturale e spirituale ad un tempo, è già nata: dal germe remoto dell’idea platonica, attraverso il pensiero plotiniano e cristiano e del superamento della MATERIA, intesa come opacità o mancanza di luce, nella LUMINOSITÀ PURA, intesa come spazio universale.

Sì, come osserva Barna Occhini, a prima vista si direbbe che la smaterializzazione dei volumi e delle superfici e l’aver reso la luce il vero elemento architettonico portante denoti la persistenza di un elemento filosofico di origine platonica, plotiniana e agostiniana. D’altra parte – e lasciando da parte, in questa sede, i futuri sviluppi della filosofia della luce di Roberto Grossatesta - bisogna notare che il percorso seguito dagli scalpellini  e dagli architetti dell’età paleocristiana, bizantina e altomedievale, se da un lato appare conforme alla teoria platonica del graduale e naturale processo d’innalzamento dell’anima dal bello sensibile al bello ideale, dall’altro rischia di cadere in una contraddizione altamente drammatica, di celebrare con tale fervore il bello corporeo da non poterlo poi separare dalla concupiscenza sensibile e di restarvi impigliato, scambiando il mezzo per il fine, senza lo slancio d’innalzarsi ai livelli superiori. A ciò crediamo sia legato proprio l’ideale tipicamente greco dell’efebismo, che si può accostare al mito platonico dell’ermafroditismo originario (narrato nel Simposio). In nuce, infatti, che altro è l’ideale di una bellezza vigorosa ma gentile, eternamente giovane, che non è del tutto virile ma neppure femminile, se non una reminiscenza o un inconscio tentativo di replicare quello che Platone aveva descritto come il più perfetto e felice stato originario degli esseri umani, traendone occasione per celebrare altissime lodi dell’eros omosessuale, quale tentativo di ricostruire la magica unità perduta?

Con infallibile intuito, gli artisti cristiani hanno visto la trappola e si son guardati bene dal cadervi. L’arte deve essere, sì, sublimazione delle passioni e aspirazione alla pura essenza originaria: ma per fare questo è necessario che l’anima si spogli di ogni desiderio carnale e si abbandoni alla guida sicura di Dio, grazie al quale la bellezza si rivela nella sua luce trasparente e liberatrice, ove ogni cosa è pura perché ogni cosa è un bene voluto da Dio.

Come osserva il filosofo siciliano Pietro Mignosi (1895-19379, un pensatore cattolico che meriterebbe di essere riscoperto e studiato con attenzione, la filosofia è la vita dell’indagine sulla vita, mentre l’arte è l’espressione della vita stessa: tra le due vi è quindi un nesso inseparabile. La vita è spirito e materia, così come l’arte è contenuto e forma; l’errore consiste nel voler materializzare lo spirito o nel voler materializzare la vita. L’essere umano è armonica fusione di carne e spirito: tale, e non altra, è la sua vita. Non lo si può separare dal corpo, come se questo fosse un elemento meramente estrinseco; e neppure si deve disprezzare la sua fisicità. Iddio, che ha fatto con amore e sapienza ogni cosa, ha dato all’uomo un corpo ammirevole sotto ogni punto di vista, ma guai a dimenticarsi che è solo l’involucro temporaneo, il veicolo per tornare alla patria celeste. Se ciò accade, si diventa schiavi di brame disordinate che non avvicinano,  ma allontanano la meta; e quel corpo, che doveva diventare il corpo di vita della resurrezione, diviene invece un corpo di morte.

 

 

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