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Dopo Diòniso e Cristo, verrà un terzo Redentore?

francesco lamendola Jan 28, 2023

di Francesco Lamendola

Sarebbe un discorso troppo ampio e difficile stabilire se l’umanità, nel suo insieme e in tutte le sue popolazioni e civiltà, si strugga in un desiderio di redenzione; certamente ciò è vero per la nostra civiltà, dai drammi si Sofocle a quelli di Shakespeare alle più recenti manifestazioni del teatro e della letteratura, da Sei personaggi in cerca d’autore ad Aspettando Godot. Ma anche negli autori e nei filosofi presso i quali meno ce lo si aspetterebbe, si trova questa sotterranea frenesia di redenzione: redenzione dal passato, per esempio, con le sue colpe e i suoi rimorsi. Un caso per tutti,  quello del troppo frainteso Friedrich Nietzsche. Anche Kierkegaard ha scritto delle pagine memorabili su tale argomento: è come se l’uomo occidentale, dopo  il peccato originale e la caduta, non avesse più ritrovato il proprio equilibrio e tutto ciò che fa – arte, guerra, religione, scoperte, invenzioni, provvedimenti legislativi e sanitari – lo faccia per esorcizzare questo antico e insopprimibile bisogno.

Ma redenzione da cosa, innanzitutto? Abbiamo accennato alla redenzione dal passato, cui Nietzsche reagisce opponendo l’eterno ritorno dell’uguale: se ogni cosa ritorna puntualmente, fatalmente, e nulla mai di nuovo appare sotto il sole, quanto meno possiamo considerarci redenti dall’ansia del tempo che fugge. O forse no; ma l’illusione è quella, o le somiglia parecchio. È strano, però: la vita è breve, fragile, continuamente minacciata: fin dagli antichi poemi babilonesi, Gilgamesh darebbe qualsiasi cosa pur di strappare agli dei il segreto dell’immortalità; come mai allora sentire il bisogno di redenzione da questo breve, tormentato e quasi sempre deludente lasso di tempo che viene concesso agli uomini, insieme alle sue effimere e ingannevoli occasioni di gioia e di piacere? Ragionando freddamente, verrebbe semmai da pensare che gli uomini siano tormentati dalla impossibilità di redimersi dalla vita in quanto tale. È strano, infatti, che solo pochi filosofi ci abbiano pensato: Schopenhauer, Moritz von Hartmann. In effetti, l’uomo moderno è come preso in una morsa (Leopardi, Sartre): da un lato la vita gli appare un peso intollerabile, di cui vorrebbe sbarazzarsi al più presto; al tempo stesso, però, pur con tutte le sue limitazioni e sofferenze, essa continua a sedurlo, ed egli vorrebbe prolungare il più possibile la propria vita, in qualsiasi modo, fosse anche d’un giorno solo.

D’altra parte, una volta voltate le spalle al cristianesimo, che una risposta e un senso glieli aveva sempre dati, che cosa resta da fare all’uomo moderno, se non aggrapparsi all’idea di una redenzione che venga da qualche nuova fede, o dalla bellezza creata dall’arte e dalla poesia, o dal superamento dei conflitti interiori in un una “superiore” psicologia pacificata; oppure, ancora, in una scatenata benché illusoria volontà di potenza? Sono, appunto, le redenzioni che hanno conquistato il cuore e la mente di Hölderlin (la poesia), Jung (la psicologia che risana le anime), Nietzsche (la volontà di potenza); guarda caso, tutti e tre tedeschi, cosa che suscita qualche domanda e merita un approfondimento. Dei nuovi culti di redenzione e di salvezza, meglio non parlare: è merce talmente pacchiana e dozzinale, che gli pseudo guru della California la vendono a qualche migliaio di dollari sotto forma di corsi di consapevolezza spirituale per milionari. Sono per lo più l’equivalente “civilizzato” dei culti del cargo della Melanesia, roba per individui che credono di avere un cervello solo perché dispongono della tecnologia.

Nessuno dei tre si è accontentato di essere l’annunciatore generico della nuova redenzione dell’umanità; ciascuno a suo mood si è sentito investito del compito divino di aprire la strada al Redentore: Hölderlin con tutta la tragica serietà del poeta-vate; Nietzsche con la foga iconoclasta di chi vuole anche liberare gli uomini dalla maledizione del cristianesimo: Jung con la sua flemma un po’ arrogante e compassata di medico-professore che si pone al centro della sua piccola personale religione di salvezza dell’inconscio collettivo (cambiando a suo piacere, con l’intelligente paziente Sabrina, le regole deontologiche della professione medica, ben supportato da Freud per l’occasione, secondo le quali la  prima cosa da non fare è, per l’analista, avere una relazione intima con le sue pazienti). Dunque non solo tre profeti, ma tre autentici messia (asteniamoci dal citare il quarto e il più lugubre, sempre tirato in ballo a proposito e sproposito, perché la sua sfera è quella prettamente politica).

Resta comunque la domanda impertinente: perché tutti tedeschi, e nello spazio di neppure un secolo? Si potrebbe pensare che la Germania, a differenza di Paesi già “arrivati” e unificati, come la Francia e l’Inghilterra, era tuttora alla ricerca di un proprio centro unificatore spirituale. Soffriva, per questo, di un complesso d’inferiorità non dichiarato, né riconosciuto. Per Hölderlin tale centro sarebbe stato la rinascita dell’arte: il suo romanticismo coincideva con una vera e propria rinascenza, che avrebbe dato all’ultima arrivata fra le nazioni la palma della nuova capofila. Ma l’arte, per quanto sublime, può redimere una civiltà? In primo luogo, bisogna vedere da che cosa ci si vuole redimere. Se si tratta, secondo il linguaggio comune, di scuotere una condizione di sudditanza, qual è il nemico che tiene soggiogati gli uomini? Non basta rispondere: la bruttezza e la mancanza di poesia. Primo, perché la maggioranza degli uomini, checché se ne dica, non ha e mai avrà la sensibilità necessaria per trasformare la propria vita alla luce della bellezza. In secondo luogo perché la bellezza è un valore, importante fin che s vuole, ma non è un ente,  che divenga atto di essere in maniera definitiva. È come un soffio di vento, un profumo che si espande e poi si disperde. Non ha la propria ragion d’essere in se stessa, ma la riceve.

E chi ha questo potere, se non Dio? Perciò troviamo vera arte solo laddove c’è un’ispirazione perfettamente religiosa. Sia in Hölderlin che nel suo tardo emulo musicale, Wagner, l’ispirazione “pura” è frammista ad elementi ideologici che la inquinano, primo fra tutti l’idea del trionfo della cultura germanica. L’arte non può redimere la vita, se non per brevi istanti e con fugaci visioni di pace e di assoluto. Tanto meno può farlo la psicologia dell’inconscio, collettivo o individuale che sia, e del resto neppure Jung era un pensatore abbastanza “puro”. Per essere i profeti e i redentori di un’era nuova, bisogna essere di una purezza totale. Hölderlin e Nietzsche hanno bensì sfiorato tale condizione, ma non era un volo cui bastassero penne umane: l’uomo non ha la facoltà di auto-deificarsi. Se ci prova seriamente, con tutte le sue forze, perde il lume della ragione e il contatto con la realtà: tragica esperienza che toccò ad entrambi.

Così si esprime il germanista Vincenzo Errante, a proposito delle velleità di Hölderlin, di veder tornare l’èra degli dèi fra gli uomini, nel suo studio La lirica di Hölderlin (vol. 1, Firenze, Sansoni, 1943, pp. 93-95):

L’ellenismo di Hölderlin non è, come quello di Keats, fuga dalla realtà terrena in un sopramondo ideale. Ma, anzi, un perpetuo accorrere verso la realtà terrena, con la volontà fattiva di ellenicamente redimerla. L’Ellade, con tutto ciò che le sillabe di questo magico nome significano nella storia dello spirito umano, non rappresenta per lui un paradigma di realtà storica  distrutta dietro le spalle, verso la quale sogguardare, in inerte contemplazione, col viso rivolto. L’Ellade è, per Hölderlin, una realtà storica che fu. Ma che, tutt’ora assente, non si dimostra affatto scomparsa. Che, anzi, tornerà ad essere, in un non lontano domani. Sorge innanzi agli occhi suoi, per ciò, come una terra promessa, alla quale è certo l’approdo da una parte di un’umanità naufraga, ma non ancora sommersa. È certo l’approdo, purché l’umanità voglia, e sappia, rigenerarsi. Ma anche purché all’approdo vogliano, e sappiano, condurla i Poeti.

Questa fede eroica nella divina missione del Poeta, profeta e redentore, è l’imperativo categorico, insistiamo, che arde al centro della personalità hölderliniana. Come un immenso impetuoso braciere. Di qui prorompe, senza residui, l’energia del suo potenziale lirico. Spengete quel fuoco: e avrete spento , alle scaturigini stesse, la poesia di Hölderlin. Che non è ebbrezza di estatico canto solitario, soltanto. Ma, più spesso, bruciante ardore di sacerdozio umano, tra gli uomini fratelli. Attività di sacerdozio, che in un primo tempo delimita perfino il proprio campo di azione entro i termini dio un’ideale patria germanica, trascendente la storia contemporanea.

La Terrasanta, destinata a reincarnare, nel mondo scaduto e corrotto, il reduce sogno dell’Ellade perfettissima è, per Hölderlin, la Germania. Quella Germania che, politicamente ancora discissa ai suoi tempi, in molteplici signorie centrifughe, costituiva già tuttavia una indissolubile unità spirituale, nel fiorire in essa e per essa dell’ultimo in ordine di tempo dei Rinascimenti europei. Hölderlin è l’inconsapevole araldo infatuato di questo prodigio: il prodigio di un’epoca d’oro nella storia dello spirito umano, che tornava, proprio durante il dorso della sua cita, ad essere TEDESCA nel mondo, dopo essere stata, attraverso i secoli, greca con L’Atene di Pericle, latina, con l’età di Augusto; italiana, con la Firenze medicea; francese, con la Versailles del Re Sole; inglese, con la Londra elisabettiana. Aedo inconsapevole, perché l’avvento di quell’epoca d’oro lo vaticinava in un prossimo domani, senza avvedersi che già gli rifulgeva attorno: nel grande secolo, ormai al proprio centro, della luminosa Rinascenza tedesca. Egli avverte che alla stirpe germanica spetta, adesso, di assumersi in turno il compito di redentrice dell’umanità; e che, di conseguenza, al Poeta germanico s’impone di guidar la propria stirpe in quel compito quasi divino.

Poi, in cerchi sempre più ampi, la veggenza di Hölderlin delira, con orgasmo visionario, m verso prospettive anche più vaste e lontane. Il mito nazionale della Germania redenta e redentrice trapassa e assurge al mito d’una nuova religione a venire. Una nuova grande èra si annunzia per gli uomini: èra in cui, dopo Diòniso e dopo Cristo – araldi entrambi, vedemmo, dell’unico Iddio – un terzo Redentore verrà: per ricondurre sulla terra la vivente presenza di quest’unico Iddio, da troppo mai tempo scomparso nei cieli, lassù.

Siamo alla grande poesia degli ultimi inni orfici. Qui, il Poeta, al quale era riuscito di figgere lo sguardo nell’al di là misterioso e terribile ove si prepara l’avvento dl nuovo Redentore, ravvisa in se stesso il San Giovanni Battista del Cristo venturo. Colui che non aveva avuto unicamente da Dio il compito di preannunziarlo: ma anche quello di preparargli, nel mondo, le vie.

In quest’ultimo immenso delirio visionario, Ma creduto con le forze di tutto quanto se stesso, la ragione umana di Hölderlin naufragò, abbagliata da una troppo vivida luce.

La redenzione di cui ha bisogno l’uomo non va confusa con un nuovo stato di grazia (l’arte, il superuomo), perché, in ogni caso, per redimere qualcuno bisogna anzitutto rimuovere ciò che faceva ostacolo. E che cosa rappresenta l’ostacolo fondamentale alla pienezza e alla felicità dell’uomo, se non il Peccato originale con le sue conseguenze? La Redenzione è un concetto religioso e, per quanto si possa coltivare religiosamente la poesia (a proposito, anche lo Zararathustra è assai più opera di poesia, e di bella poesia, che di pensiero filosofico: ecco perché sbagliano il bersaglio quanti rimproverano Nietzsche di non fare della speculazione rigorosa), essa non è tutt’uno con il Vero ed il Bene, che è Dio. Lo è la Bellezza: ma la bellezza prodotta dalla poesia e dall’arte è una bellezza riflessa, come a suo modo osservava già Platone.

In breve: Dio solo può redimere l’uomo, e non un dio qualunque, non il dio dei teosofi, degli antroposofi, degli spiritisti o delle false religioni; né il dio dei filosofi, costruito a tavolino secondo i loro gusti e le loro necessità. La storia umana ha conosciuto un solo Redentore, ed è sempre a Lui che l’uomo deve guardare, se vuole tirarsi fuori dalla palude nella quale si è invischiata, inseguendo folli sogni di grandezza, di potere e persino di felicità. No, l’uomo non sarà mai felice se prima non si riconcilia con se stesso, con le sue ferite, con i suoi rimorsi, con i suoi vani desideri di rivalsa: e tale riconciliazione non viene da Diòniso o dal Superuomo, ma ancora e sempre da Gesù Cristo, il Figlio di Dio che si è sacrificato volontariamente per amore degli uomini. Chi va in cerca di un altro Redentore rifiuta per ciò stesso quello vero e indica agli uomini la via della menzogna, una via fatta d’inganni, delusioni, amarezze senza fine, in fondo alla quale c’è il contrario della redenzione, ossia l’inferno.

È forse un caso che sia Hölderlin, sia Nietzsche abbiano pagato con lunghi anni di tenebra mentale l’impossibile scalata fino al Cielo, perché si erano illusi di poter compiere da soli, con le loro forze? L’uomo deve accettare la differenza ontologica: è quello lo scoglio, lo scoglio della sua superbia, che gl’impedisce di trovare pace e riposo  presso Colui che dice: Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi, e Io vi darò ristoro (Mt 11, 28-30).

 

 

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