Dio ci scampi dai poeti egotisti, romantici e infelici
Sep 05, 2022di Francesco Lamendola
Ci sono diversi modi d‘interpretare il fatto poetico, la sua natura e la funzione sociale che esso svolge e che è grandissima, quantunque sovente non vi si pensi o si tenda sottovalutarla. La poesia di Pindaro svolse un’altissima funzione civile nel mondo delle poleis greche; e a chi obietti che la civiltà moderna soggiace ad altri influssi ed è sensibile ad altri stimoli, vogliamo ricordare non solo il ruolo di poeta civile svolto da Carducci nell’Italia di fine Ottocento e da D’Annunzio (in parte dallo stesso Pascoli: si pensi a La grande proletaria si è mossa) per la generazione successiva, ma anche quello, più recente e non meno incisivo, svolto dai poeti “esistenzialisti” francesi, come Prévert, poco dopo la metà del Novecento, anche quando i loro versi non contenevano espliciti riferimenti politici.
Limitandoci alla poesia lirica, e tralasciando in questa sede, perché non c’interessa, la poesia epica (i poemi omerici e l’Eneide di Virgilio), la poesia satirica (gli Epigrammi di Marziale, Il giorno di Parini), quella didascalica (le Georgiche), quella filosofica (il De rerum natura di Lucrezio), ecc., si può dire che essa conosce il suo grande momento a partire dal Romanticismo: tant’è che dire poesia lirica e dire poesia romantica è quasi una sola cosa. La mente corre subito ai versi d’amore, l’amore inteso appunto in senso romantico: ed è un errore. La poesia lirica è la poesia dell’io; e sebbene la maggior pare dei poeti lirici, da Petrarca in poi, dedichino i loro versi all’amore per la donna, a ben guardare parlano sempre e solo di se stessi. Al centro del Canzoniere, non c’è la persona viva di Laura, ma l’io ipertrofico del poeta, che tutto riconduce a se stesso, alle proprie sensazioni; e lo fa anche nei momenti in apparenza più lontani da esso, ad esempio nella descrizione di un fascinoso paesaggio alpestre (si veda la lettera in cui descrive all’amico Dionigi da Borgo San Sepolcro la sua Ascensione al Monte Ventoso). Ovunque guardi, in qualsiasi cosa si specchi, il poeta lirico non vede altra immagine che la propria, né sa o vuole uscire dal cerchio stregato della soggettività malata, enfatica, ipersensibile, narcisista. E così è anche per colui che viene considerato, secondo noi a torto come il più grande lirico della poesia tedesca, Heinrich Heine: non è della donna amata che parla, anche se in apparenza ella gli presta l’occasione per scrivere, ma di se stesso, dei suoi furori, dei suoi rapimenti, dei suoi incanti, dei suoi sogni a occhi aperti, e poi, con subitaneo passaggio, delle sue ire, delle sue gelosie, dei suoi sconforti, della sua amarezza, della sua frustrazione, del suo disprezzo, del suo odio, della sua violente ribellione contro l’oggetto della sua passione che lo ha ferito e deluso.
In fondo, è terribilmente facile scrivere poesie d’amore nelle quali si dà sfogo al proprio disincanto del mondo: tutto concorre a rendere lo sfogo patetico e commovente, iniziando dall’atteggiamento rancoroso del candore offeso, della nobiltà ferita. Che è così caratteristico, ad esempio, di Catullo, e che in Heine assume forme sempre nuove e originali, ma unificate da un costante atteggiamento: quello del risentimento contro colei che lo ha deluso e contro il mondo intero che non ha rispettato il suo sogno di felicità. È facile, perché in tutti gli esseri umani c’è un tale sogno di felicità, più o meno consapevole, più o meno esplicito: e in tutti, prima o poi, arriva il disincanto. Tutti i poeti sono simili a fanciulli ancora ignari della malizia del mondo: e fin qui, niente da obiettare. Ma il poeta non è un bambino: il poeta è un uomo adulto che, oltre a dare sfogo alle sue passioni, è poi capace di universalizzarle e farne strumento di maggior comprensione della realtà. In altre parole, la responsabilità del poeta verso la vita consiste nel saper conservare la fiammella dell’incanto del mondo, della sua primitiva innocenza, così come esiste nei bambini, anche dopo che gli anni e le esperienze concrete hanno strappato il velo e mostrato che una cosa sono i sogni dell’infanzia e la purezza vagheggiata dagli animi sensibili, e altra cosa la realtà. Ma dal disincanto l’amarezza non necessariamente deve sorgere; non è scritto che la sola risposta possibile sia il rancore contro l’esistente e la pretesa di vantare di crediti nei confronti dei propri simili, solo perché qualcuno di essi ci ha deluso. Ed è terribilmente facile, per non dire puerile, dipingere il modo di rosa, descrivere meravigliose albe e tramonti, fiori delicatissimi e aromi sconosciuti, quando il proprio amore è ricambiato, o pare che lo sia; e poi abbandonarsi a improperi e maledizioni quando l’amore se ne va, e resta solo un pugno di cenere di tanti fremiti e palpiti del cuore, di tanti sogni e sospiri; e a quel punto descrivere il mondo come un luogo tetro e squallido, un orribile ergastolo, un serraglio di folli che lottano grottescamente per contendersi un ridicolo sogno di felicità.
Queste sono le reazioni del bambino viziato, dopo che ha visto andare in pezzi il suo giocattolo: ira, sdegno, furore cieco rivolto indistintamente contro tutto e tutti. Al poeta, che dopotutto non è un bambino, ma un uomo che sa conservare la freschezza e lo stupore del bambino, si chiede qualcosa di più: d’insegnare agli altri il segreto per restare innamorati della vita e del suo mistero anche dopo essere stati delusi nelle proprie più dolci aspettative. E chi sa fare ciò, è un vero poeta lirico; chi non lo sa fare, ma preferisce levare alte strida e far la vittima, imprecando con odio contro quanti lo hanno ferito e disincantato, è solo un piccolo botolo ringhioso e un cattivo maestro. Perché sono buoni maestri quelli che fanno crescere l’amore per la vita, nonostante tutto, e insegnano a medicare le proprie ferite e a continuare ad amare, anche se si è sofferto molto; cattivi maestri quelli che incrinano, soffocano, nascondono l’amore per la vita sotto una montagna di sporcizia, rancori, rimpianti e cambiali da riscuotere. Tutti, prima o poi, restiamo feriti e perciò delusi nei nostri sogni: ma non è una buona ragione per diventare odiatori del mondo e nemici di quanto è buono, vero e bello. Se ciò accade, significa che il verme del risentimento cieco e dell’incapacità di vivere in armonia con gli altri era già presente e rosicchiava in silenzio la nostra anima, anche quando tutto pareva andare a gonfie vele e l’amore si mostrava carico di promesse: era solo questione di tempo affinché si mostrasse in tutta la sua laidezza; meglio ancora: gli mancava solo un nobile pretesto per travestirsi sotto le spoglie dell’innocenza ferita, facendo ricadere ogni colpa su qualcuno o qualcos’altro.
Non è che ce l’abbiamo in modo speciale con Heinrich Hene, anche se la pretesa di presentarlo come il più grande cantore di Lieder – questa forma poetica e musicale così caratteristica della cultura tedesca, e che non si trova con gli stessi caratteri in nessun’altra – ci pare, come abbiamo detto, esagerata. Heine è per noi un esempio quasi perfetto, a suo modo, per illustrare i concetti sopra esposti. Quanto all’essere il più grande lirico tedesco, nonché il più grande europeo, tranne forse Petrarca, ne dubitiamo assai. E non solo perché Heine, come ebreo tedesco, non può rappresentare l’autentica anima tedesca: non per un fattore razziale, ma culturale. Nella cultura europea, educata da quasi due millenni di cristianesimo, c’è l’idea del pentimento del peccatore, del perdono da parte dell’innocente (Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno: Luca, 23,34) e della redenzione; mentre nella cultura ebraica post-cristiana, impregnata di talmudismo e cabalismo, non c’è posto per nessuna di tali idee: né il pentimento fecondo, né soprattutto il perdono delle offese, né, infine, la redenzione (perché esso ha rifiutato il Redentore). In questo senso appare chiaro in cosa consista la differenza fra Petrarca ed Heine: Petrarca sa perdonare, tanto più che vede con molta chiarezza le proprie debolezze; Heine no, perché oltre a idolatrare l’amata (il che è già un creare le premesse del disastro) idolatra se stesso sopra ogni cosa: e quel piccolo dio offeso, geloso e meschino che è l’io del poeta, mai saprebbe perdonare un’offesa e offrire una possibilità di riscatto. In fondo, nemmeno lo vorrebbe. Perché perdonare l’amata crudele, perché riconciliarsi con la vita, quando recitare il ruolo del povero poeta ferito a morte, crudelmente e ingiustamente, offre un tal senso di voluttà, una tale ebbrezza, da superare di gran lunga l’ebbrezza e la voluttà dell’amore, tanto più se al fondo della propria anima non c’è alimento sufficiente per amare sempre, senza condizioni (perché colui che pone condizioni non sa cos’è l’amore), ma solo una suscettibilità e un amor proprio capaci d’infiammarsi alla prima offesa?
Prendiamo ora, a titolo d’esempio, il saggio introduttivo di Salvatore Barbaglia all’Intermezzo lirico di Heinrich Heine (in: Heine, Poesie d’amore, Newton Compton Editori, 1992, pp. 8-9; 11-13):
Sono poesie molto brevi [i 66 Lieder del “Lyrisches Intermezzo”] che formano come una specie di diario poetico in cui Heinrich ha annotato giorno per giorno le emozioni del suo cuore e che, anche se diverse per tono e per sentimento, trovano nella personalità del suo [sic] autore la più stretta unità. L’io di Heine ne costituisce il soggetto e la materia unica, per cui il “Libro dei Canti” è la raccolta più soggettiva e più egotista che sia mai stata scritta. Una certa monotonia potrebbe necessariamente sorgere dall’uniformità dell’argomento, ma queste poesie si salvano per la profonda sincerità delle emozioni che traducono. (…)
Il dubbio, il dubbio eterno o piuttosto la certezza della fine sempre imminente della felicità e dell’amore, ecco il tormento orribile che costituisce il sostrato delle poesie di Heine e che lo perseguita anche nei momenti di felicità (…).
Queste lacrime senza a oggetto e senza un apparente motivo non sono l’effetto di una gioia straripante, è invece l’ingenua natura dell’essere amato che le strappa al poeta innamorato e sono anche il presentimento delle sofferenze che gli riserva l’avvicinarsi di una inevitabile delusione.
Grazie a questa dissonanza di sentimenti, Heine è riuscito a esprimere lo spaventevole stato d’animo che si chiama disinganno, con una energia che nessun altro poeta ha mai eguagliato. Forse neanche Petrarca, perché l’aretino, molto più cristiano di Heine, ha trovato più facilmente quegli accenti di cristiana rassegnazione che sono mancati al poeta renano che, se è più di lui appassionato, è però meno umano. Nonostante questo, Petrarca è l’unico rivale che Heine poteva temere, proprio per il contrasto che li opponeva l’uno all’altro, come i due interpreti più dissimili dell’eterna illusione che guida l’umanità, illusione maledetta o benedetta secondo le circostanze, che ora porta alla salvezza e alla vita, come in Petrarca, ora invece, come in Heine, conduce alla dannazione e alla morte. (…)
In questo alternarsi di sentimenti di amore-odio (vedi Catullo!) c’è chi ha visto una dissonanza tra l’amore e il suo oggetto, discrepanza che dà spesso origine al’ironia , al sarcasmo, alla bestemmia. Ma non sono affatto in dissonanza! Ironia, sarcasmo e derisione sono al contrario in perfetto accordo cin un amore di tal genere; ne attestano ani la crudele armonia e la profonda originalità, provano la sincerità del poeta e confermano fino a che punto egli è rimasto fedele alla verità.
Sarebbero invece false e bugiarde se, col pretesto dell’unità artistica, queste poesie conservassero sino all’ultimo l’accento del lamento, se il tono elegiaco bandisse del tutto quello satirico e ironico. L’ironia (che Schumann non è riuscito a evidenziare nei suoi Lieder, perché vedeva tutto con gli occhi incantati d’un eterno fanciullo), le rappresaglie di un orgoglio ferito, o scherno, sono le armi di difesa di un cuore tenero che si ribella al gioco della perfidia; lo scetticismo, che potrebbe anche offendere il lettore, è lo stato d’animo naturale di un cuore che crede con un ardore quasi fanatico e che ha dovuto smettere di credere agli esseri che l’ispirano. Questi sentimenti non solo vogliono provare – come qualcuno ha scritto – la scarsa sensibilità del poeta, ma piuttosto l’energia della sua passione. Anche quando scherza o si diverte, Heine lo fa con la more nell’anima, proprio come il pagliaccio di Leoncavallo che era costretto a ridere mentre il dolore gli avvelenava il cuore (…).
Per concludere infine, con tono apodittico e quasi trionfale (id., p. 15):
In realtà, però, la sola fonte essenziale della poesia heiniana è la sincerità. Ogni verso dell’”Intermezzo” è la prova eloquente, angosciosa e assoluta dell’immensità del suo amore per Amalie [un cugina di Amburgo, figlia dello zio Solomon] e delle ripercussione di questo amore nelle intime profondità dell’animo del povero studente respinto.
Ma la sincerità non basta per fare un grande poeta: se così fosse, quasi chiunque ama e soffre per amore sarebbe, ipso facto, un gran poeta. No: il vero poeta sa andare oltre il proprio dolore e la propria delusione; sa trarre anzi proprio da essi i colori per dipingere un mondo ancora bello. Perché il mondo è bello per lo sguardo limpido che l’ammira pieno di magia; è brutto per lo sguardo torbido che si nutre di passioni oscure. Se l’incanto del mondo dovesse dipendere dal fatto che ogni cosa vada per il suo verso, sarebbe un incanto posticcio, come un fondale di teatro. Ma col cuore puro e lo sguardo terso, il mondo conserva il suo incanto anche se l’anima affronta le prove più dure.
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