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Diagnosi prenatale: in bilico tra orrore e speranza

universitari per la vita word on fire Oct 27, 2023

Diversi anni fa, una persona che lavorava a livello internazionale in difesa delle persone affette da sindrome di Down mi raccontò una storia terrificante. Una donna in un villaggio africano aveva dato alla luce un figlio con sindrome di Down e si era rivolta al guaritore locale per chiedere un consiglio. Le fu detto di lasciare il bambino sulla riva del fiume alla sera. Se il giorno dopo fosse tornata e avesse trovato il bambino vivo, allora senza dubbio si trattava di un essere umano. Se invece non avesse trovato il bambino, avrebbe significato che era tornato nella sua vera forma di serpente ed era strisciato via. Neanche a dirlo, il bambino il mattino dopo non c’era più.

Mi è tornata alla mente questa storia quando Padre Steven Grunow ha condiviso recentemente con me e altri membri dello staff un articolo che rifletteva sulle conseguenze della perdita di cultura cristiana nell’Occidente, vale a dire l’incremento delle diagnosi prenatali che portano come conseguenza ad un aumento degli aborti dei figli non desiderati e ad una crescente pressione in favore dell’infanticidio.

Molte persone non sono consapevoli delle pratiche barbare di uso comune nell’Impero romano. Le storie sugli spettacoli dove combattevano i gladiatori e dove i Cristiani venivano sbranati dalle belve sono note. Sono stati anche girati dei film su questi avvenimenti. Meno frequentemente però si è parlato del destino dei figli indesiderati, gettati nei fossi o lasciati morire sul ciglio della strada. Forse queste vicende fanno parte di una cultura antica troppo orrenda per poterne discutere. La venuta di Cristo e la risposta degli Apostoli alla Sua missione ha eliminato queste terribili usanze e anche altri assalti del paganesimo alla dignità umana.

Sebbene l’infanticidio non sia ancora legale negli Stati Uniti, sappiamo che viene praticato, di nascosto. Circa quindici anni fa, quando una coppia di amici di Houston ebbe un figlio affetto da sindrome di Down, il dottore propose di “occuparsi del problema” per loro. Fu detto loro che potevano uscire dall’ospedale e dimenticare ciò che era successo. Una versione più sofisticata, ma altrettanto orripilante delle usanze dei Romani. Ovviamente, i miei amici portarono a casa il bambino e da allora lo amano con affetto.

Che indossino camici bianchi o toghe romane, i barbari e le loro pratiche pagane si sono evolute, ma non sono scomparse. La nostra avanzata e sofisticata cultura medica ha ripulito queste pratiche rendendole culturalmente accettabili, in alcuni casi addirittura celebrandole. La differenza tra il mondo antico e l’attuale è che i genitori non devono più aspettare la nascita per decidere che non vogliono quel figlio. Già all’undicesima settimana di gestazione possono sapere se il loro figlio, in futuro,possa avere la sindrome di Down o altre anomalie genetiche.

Le tecnologie di diagnosi prenatale hanno aperto un vaso di Pandora. Per utilizzarle in modo prudente, occorre considerare tre punti:

• Qual è il fine per cui si ricorre a questa procedura?

• Come viene spiegata l’affidabilità del test alla coppia (es. vengono completamente informati in merito ai rischi e all’efficacia del test prima di dare il loro consenso)?

• In che modo viene comunicato l’esito ai genitori da parte dei medici?

La Conferenza Episcopale degli Stati Uniti ha redatto un documento, giunto alla sesta edizione, intitolato Ethical and Religious Directives for Catholic Healthcare Services. Si tratta del documento di riferimento per tutti gli assistenti sanitari cattolici degli Stati Uniti. I vescovi riconoscono che la diagnosi prenatale può avere effetti benefici fornendo «informazioni utili per la cura preventiva della madre o di quella pre e postnatale del bambino». In ogni caso, essi ribadiscono chiaramente che «la diagnosi prenatale non è permessa se effettuata con l’intento di abortire un bambino affetto da una grave malformazione».

A tutte le donne incinte verrà proposto di sottoporsi a test prenatali. L’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) raccomanda: «la diagnosi genetica prenatale dovrebbe essere valutata ed offerta a tutte le pazienti incinte senza considerare l’età della madre o il rischio delle anormalità cromosomiche». Certamente, le donne possono rifiutare questa raccomandazione se lo desiderano.

La prima cosa che i genitori devono tenere presente è che un test di indagine delle anomalie non è diagnostico. Il test più comune è il NIPT (Non Invasive Prenatal Testing – Test prenatale non invasivo). Questi test sono disponibili negli Stati Uniti dal 2011 e possono essere usati a partire dall’undicesima settimana di gravidanza. Quando arrivarono sul mercato statunitense, tali test furono salutati come rivoluzionari. La pubblicità prometteva che con un campione di sangue materno, i test avevano un’affidabilità tra il 97 e il 99% nell’individuare la trisomia 21 (sindrome di Down) e poche altre anomalie genetiche come, ad esempio, letrisomie 13 e 18.

Il problema è che queste statistiche sono fuorvianti. Esse sono basate sulla sensibilità del test e non indicano la probabilità che la donna porti davvero in grembo un bimbo con un cromosoma in più. Inoltre, c’è una possibilità su cinque che si verifichino un falso positivo o un falso negativo (per approfondire si consiglia l’ottimo lavoro di Mark Leach). Questi dati dovrebbero essere inclusi nel processo di informazione delle madri prima che diano il loro consenso per il test. C’è una differenza decisiva tra probabilità e certezza. Questi test al massimo possono indicare che c’è una probabilità che il bambino possa presentare una disabilità.

Un fattore critico per le coppie che ricevono un esito inaspettato da una diagnosi prenatale è il modo in cui i risultati vengono comunicati da parte del personale medico. Un articolo pubblicato recentemente sul Disability and Health Journal esplora l’influenza dei pregiudizi nella comunicazione da parte dei medici riguardo agli esiti dei test prenatali.

Gli autori, ricercatori dello Human Development Institute presso l’Università del Kentucky, hanno notato come i dottori siano più ben disposti a discutere riguardo a problemi medici e “opzioni riproduttive” (ossia “aborto”) rispetto a conseguenze psicologiche, sociali, supporto e servizi. Gli intervistati hanno riferito che il 61.3% dei medici che hanno comunicato la diagnosi come una brutta notizia o che hanno detto “mi dispiace” erano «significativamente meno propensi rispetto ai loro colleghi a fornire informazioni sui risultati riguardanti la vita [del nascituro ndr.], supporti e servizi, risorse specifiche per la condizione, o un’assistenza prenatale più completa». Questa percentuale ricalca da vicino i risultati di un sondaggio del 1995 tra i membri dell’ACOG: il 63% dei partecipanti ha affermato di ritenere che l’aborto fosse un’«opzione di trattamento» giustificabile per le anomalie fetali compatibili con la vita. Il 90% riteneva appropriato l’aborto se la diagnosi era incompatibile con la vita.

Allora, quanto siamo lontani dall’Antica Roma? Immagino che probabilmente stiamo uccidendo molti più bambini oggi rispetto ad allora, anche tenendo conto dell’aumento della popolazione.

Cosa dovrebbero fare i Cattolici nel caso della diagnosi prenatale? Non si deve essere necessariamente contrari, se viene usata per le giuste ragioni [es. cure prenatali ndr.]. È una questione di coscienza per ciascuna coppia. Queste dovrebbero comunque prepararsi approfondendo la conoscenza del test che viene loro raccomandato, senza farsi allarmare dai risultati. I falsi positivi sono frequenti. Se lo screening è confermato da una vera diagnosi, bisogna esser pronti a ciò che il medico potrebbe dire. Le statistiche indicano come i pagani moderni probabilmente si offrirebbero per “liberare le coppie” dal loro “fardello”.

Per concludere con una storia positiva, chiuderò con un’altra dall’Africa che è stata condivisa con me dal mio collega e direttore senior del Word on Fire Institute, Matt Petrusek.

Un suo ex studente, proveniente dalla Nigeria, gli disse che l’usanza della sua tribù era di uccidere ogni coppia di gemelli alla nascita lasciandoli nella giungla, perché dare alla luce due bambini contemporaneamente era considerata una maledizione. Stranamente, gli abitanti del villaggio non hanno mai trovato resti dei corpi dei bambini. Si pensava che gli animali della giungla li consumassero completamente al calar della notte. Tuttavia, in seguito scoprì, dopo essersi trasferito dal villaggio, che un’anziana donna eccentrica che viveva da sola alla periferia del villaggio – la “pazza della città” che evitava il contatto con gli altri – aspettava fino alla notte ogni volta che i gemelli venivano lasciati nella giungla, li prendeva e poi li portava al buio per oltre dieci miglia di distanza fino all’orfanotrofio cattolico più vicino. Avrebbe lasciato i bambini alle suore e poi sarebbe tornata immediatamente. Non aveva un’istruzione formale. Poiché a quel tempo nessun missionario era arrivato al villaggio, non aveva mai ricevuto il catechismo. Tuttavia, correndo un grave rischio per la sua vita (gli abitanti del villaggio l’avrebbero giustiziata se lo avessero scoperto) e senza nessuna ricompensa, volle comunque salvare quei bambini.

Sì, è proprio vero, ci stiamo ripaganizzando. I pagani moderni penseranno che siamo pazzi nel difendere la vita, ma Matt ha aggiunto un suo commento alla fine della sua storia: «Il paganesimo non potrà mai estinguere completamente il Logos, per quanto ci provi!». E questo è davvero il finale della storia.

Traduzione e adattamento a cura di Universitari Per La Vita

FONTE : Articolo pubblicato su  il 05/10/2023

 

 

 

 

 

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