Da Gentile a Bergoglio: Dio non è Dio senza l’uomo
Sep 08, 2022di Francesco Lamendola
Ma in che cosa consisteva, esattamente, la religione di Giovanni Gentile? Perché il filosofo dell’attualismo disse più volte, e lo ribadì sino alla fine, di essere, o meglio, di considerarsi, non solo cristiano, ma cattolico. Ora, ciò contrasta irrimediabilmente con tutto l’impianto della sua filosofia, che è di tipo radicalmente immanentista; e contrasta anche con ciò che sappiamo essere vero di un concetto: che cioè non può essere inteso soggettivamente da ciascuno, ma che deve essere usato secondo il significato universalmente riconosciuto. In questo caso, il concetto di cattolico: ha ragione Gentile, quando sostiene che ciascuno è libero d’essere cattolico alla propria maniera; e che tale soggettivismo è del tutto normale, poiché fa parte del dispiegarsi della vita dello spirito?
Per rispondere a queste domande, vediamo cosa scrive lo stesso Giovanni Gentile nel breve saggio La religione, del 1942, che si può considerare, per molti aspetti, una sorta di testamento spirituale del filosofo (da: Gentile, La religione, Firenze, Sansoni, 1965, pp. 406; 408-409; 422):
Ripeto dunque la mia professione di fede, piaccia o non piaccia a chi mi sta a sentire: io sono cristiano. Sono cristiano perché credo nella religione dello spirito. Ma voglio subito aggiungere, a scanso di equivoci: io sono cattolico. E non da oggi; sia anche questo ben chiaro. Cattolico a rigore, sono dal giugno del 1875, ossia da quando sono al mondo. E sono perciò desolato di non potervi annunziare anch’io una crisi, una tempesta dell’anima, una subita conversione, un colpo di fulmine. Sto, prosaicamente, percorrendo fin dal giorno della mia nascita il cammino della via di Damasco. Vengo, da allora, pensando e approfondendo ogni giorno le mie idee (“nulla dies sine linea”): e se si vuol parlare di conversioni, posso dire che la mia conversione è la storia d’ogni giorno, sempre.
Perché cristiano, l’ho detto. La religione cristiana è la religione dello spirito, per la quale Dio è spirito; ma è spirito in quanto l’uomo è spirito; e Dio e uomo nella realtà dello spirito sono due e sono uno: sicché l’uomo è veramente uomo nella sua unità con Dio: pensiero divino e divina volontà. soltanto E Dio da parte sua è il vero Dio in quanto è tutt’uno con l’uomo, che lo compie nella sua essenza: Dio incarnato, fatto uomo e crocefisso. Perché cattolico? Perché religione è Chiesa: come ogni attività spirituale (scientifica, filosofica, artistica, pratica) è universale, proprio perché di un soggetto che si espande all’infinito: comunità illimitata, nella quale il mio Dio è Dio se è Dio di tutti. L’errore della Riforma, come videro bene i pensatori del Rinascimento, fu quello di aver voluto fare della religione un affare privato di quel fantastico individuo che non è uomo, spirito, ma un semplice fantoccio d’uomo collocato nella spazialità e temporalità della natura. Tant’è vero che ogni cristiano, che voglia essere puro cristiano, è portato per la natura stessa dello spirito a fare proseliti, a far setta, a creare una chiesa: e cioè ognuno è cattolico a modo suo. Cattolico, s’intende, di una Chiesa che come ogni società abbia un ordinamento e un’autorità che lo faccia valere: diciamo pure un papa. Un papa, un’autorità che approvi o condanni; e un sistema da cui il suo operare tragga norma e valore.
Ma questo così definito puramente e semplicemente – si dirà – non è il cattolicesimo storico; il cattolicesimo della Chiesa cattolica: sarà il cattolicesimo vostro. –
Vecchia obbiezione, con cui han dovuto in ogni tempo fare i conti tutti i grandi cattolici, i quali, per esser grandi con l’originalità che è l’impronta della grandezza, sono stati sempre, volenti ma anche nolenti, riformatori; e nei loro tentativi di riforma hanno urtato nella struttura disciplinare e ideale della Chiesa, nel positivo dell’elemento in cui operavano e nelle forze conservative che dal positivo non potevano non sprigionarsi e reagire. Storia di tutti i tempi; la storia di tutto ciò che è il vivo della Chiesa cattolica. E quale è sempre stata la risposta dei riformatori? Quella che più efficacemente di tutti diede uno dei più grandi riformatori che la Chiesa abbia avuto in Italia: il Gioberti. Il quale nella sua “Riforma Cattolica” (§ 101) ragionando della «poligonia del Cattolicismo» che «deve avere un lato positivo che risponda ad ogni qualità subbietiva», per cui «vi sono tanti cattolicismi quanti gli spiriti umani» formanti una Chiesa sola: la CHIESA NON SOLO PRESENTE E PASSATA, MA FUTURA, ABBRACCIANTE NON SOLO TUTTI I CERVELLI REALI, MA I POSSIBILI, prevede infatti l’obbiezione che il papa, i vescovi, ecc. non intendano il Cattolicismo a questo modo. E risponde con queste parole che giovane io lessi come parole illuminatrici, e mi sono rimaste poi sempre nella memoria: «Coloro [dice Gioberti] che mi fanno questa obiezione, non m’intendono. Rispondo che, se [Papa e vescovi] lo intendessero a mio modo, non avrei ragione, ma torto». (…)
Scetticismo? Protagorismo? No. Gioberti non era un sofista; e se peccò forse in qualche parte del suo filosofare, il suo peccato non fu certo quello dello scetticismo. La sua poligonia del vero non è un lato solo del poligono: è verità, che sta al di sopra di ogni verità particolare, e così di ogni cattolicismo e ne garantisce il valore assoluto. Come nessuno mi contesterà il diritto di professarmi idealista perché il io idealismo è il mio idealismo, e non l’idealismo di tutti (che non è mai esistito e non esisterà mai), così avrò pure il diritto di professarmi cattolico, di un cattolicismo che sarà bensì e non potrà non essere altro che il mio cattolicismo. (…)
Voglio sperare che tra i miei ascoltatori nessuno voglia accusarmi che la mia religione umanizzi Dio, o divinizzi l’uomo e finisca col ridurre ad uno i due termini essenziali del rapporto.
Dove è si vede fino a che punto la dialettica hegeliana ha tolto al filosofo il ben dell’intelletto: perché asserire che tutti i cattolicesimi sono egualmente validi, tanto quello interpretato, insegnato e difeso dalla Chiesa cattolica, quanto quelli – diciamo la parola, che a Gentile rimane nella penna, forse perché lo turba il caro ricordo della madre che lo accompagnava a Messa, e che a lui pare del tutto in linea con la propria fede odierna – eretici, non è che l’applicazione della formula idealista secondo cui tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale. E inoltre di quell’altra formula, più specificamente hegeliana, secondo cui la tesi produce spontaneamente l’antitesi, ma l’una e l’altra si completano e si arricchiscono, “superandosi” - non si sa bene come - nella sintesi: e dunque nulla va gettato via dalla storia, perché tutto è razionale, e tutto ciò ch’è razionale ha eo ipso il diritto di cittadinanza. Solo che a Gentile sfugge un dettaglio da nulla: che il cristianesimo non è semplicemente la storia del cristianesimo, realtà sempre in divenire; o meglio: lo è dal punto di vista antropologico, ma non certo in quanto dottrina definita, volta a stabilire una verità assoluta e definitiva, cioè una verità dogmatica. Egli rivendica, da filosofo, il diritto di non accettare dogmi; e sia: ma erra e fa torto alla storia quando sostiene che tutti i grandi cattolici sono stati tali ciascuno a suo modo (sembra una tesi di Pirandello), cioè da riformatori e, anche se egli non vuol dire la parola, da eretici. Non si accorge che i più grandi spiriti del cattolicesimo, e proprio nel campo del pensiero, come sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino, non sono stati riformatori nel senso che intende lui, perché hanno avuto la modestia e l’umiltà intellettuale di non porre mai la ragione naturale al disopra della fede ed eventualmente contro di essa; ma, al contrario, specie il secondo, in armonia con la fede, pur nella sua piena autonomia. E infatti, quando passa a fare il nome di un grande cattolico che è stato anche un grande riformatore, non fa quello di san Francesco d’Assisi, che rimase sempre umilmente e devotamente all’interno della Chiesa e sottomesso all’autorità papale, ma quello di Vincenzo Gioberti, cattolico liberale che, da liberale, pensava la Chiesa e la fede in termini assai più liberali che cattolici; né fa il nome dell’altro grande pensatore cattolico liberale del XIX secolo, Antonio Rosmini, perché questi, seppure a un passo dal ciglio dell’abisso, seppe fermarsi e accettare le decisioni dell’autorità ecclesiastica magisteriale, che Gentile invece riduce ad un semplice momento dialettico, e perciò transitorio e necessariamente superabile, nella vita dello spirito.
Peccato che un così grande ingegno non abbia sentito da se stesso il suono falso delle proprie parole, quando dice che La religione cristiana è la religione dello spirito, per la quale Dio è spirito; ma è spirito in quanto l’uomo è spirito; e Dio e uomo nella realtà dello spirito sono due e sono uno.
Sembra un gioco di parole, quasi uno scioglilingua: Dio è spirito in quanto l’uomo è spirito; ma che vuol dire? L’uomo non è puro spirito; è anche spirito: e comunque, è spirito nello stesso senso in cui lo sono i puri spiriti, in cui lo è specialmente Dio? In tal caso, Gentile potrebbe risparmiarsi che l’uomo e Dio sono due e sono uno: questi giochi di prestigio vanno bene per la dialettica hegeliana, ma non convincono per niente, non diciamo un cattolico, ma chiunque possieda un poco di senso logico. Principio d’identità: A è A; principio di non contraddizione: A non è B. Ora Gentile ci viene a dire, con la massima naturalezza, che A è pure B, perché non v’è differenza sostanziale fra uomo e Dio; ed è inutile che alla fine insorga sdegnato contro quanti potrebbero accusarlo di umanizzare Dio o di divinizzare l’uomo. Abbiamo compreso che, per lui, i due termini sono inseparabili, e ricevono sostanza l’uno dall’altro: Dio dall’uomo e l’uomo da Dio. Ma se questo è vero per la seconda coppia di termini, cioè che l’uomo non è più veramente uomo senza Dio, non lo è per la prima coppia, perché è falso affermare che Dio non sia Dio senza l’uomo. Invece è proprio quel che dice Gentile: ossia che Dio da parte sua è il vero Dio in quanto è tutt’uno con l’uomo; e giustifica tale asserzione precisando che l’uomo lo compie nella sua essenza: Dio incarnato, fatto uomo e crocefisso. Ma questo è un barare al gioco e confondere volutamente i concetti: Dio non è meno Dio prima dell’Incarnazione del Verbo, e ciò per l’ottima ragione che fra Dio e uomo vi è una differenza ontologica. Dio basta a se stesso e nulla manca alla sua perfezione, con o senza la creazione: il fatto dell’Incarnazione, poi, è un dono gratuito e non una necessità.
Vero è che questa assurda proposizione, Dio non sarebbe Dio senza l’uomo, piacerebbe molto a certi sedicenti cattolici odierni, a cominciare dal signor Bergoglio, il quale ha detto pubblicamente uno sproposito analogo, senza che nessun cardinale, nessun vescovo – a loro perenne vergogna – sia insorto per denunciare il gravissimo errore teologico e la radicale distorsione dottrinale contenuta in un simile assunto. Nell’udienza generale tenuta in Piazza San Pietro nel giugno 2017, concepita come parte d’una catechesi ultramodernista sulla speranza cristiana, Bergoglio ha testualmente affermato, davanti a migliaia di sedicenti cattolici, nessuno dei quali ha fatto una piega, né mostrato il benché minimo disagio:
Non siamo mai soli. Possiamo essere lontani, ostili, potremmo anche professarci “senza Dio”. Ma il Vangelo di Gesù Cristo ci rivela che Dio non può stare senza di noi: lui non sarà mai un Dio “senza l’uomo”, è lui che non può stare senza di noi. Questo è un mistero grande. Dio non può che essere [sic: evidentemente intendeva dire, stando al suo ragionamento: “Dio non può essere”] Dio senza gli uomini. Questa certezza è la sorgente della nostra speranza, che troviamo custodita in tutte le invocazioni del Padre nostro.
Ora, a parte il fatto che per Bergoglio cambiare le parole del Padre nostro non è certo un problema, ha fatto anche questo e neppure in quel caso si è udita una sola voce di critica o dissenso, ci piacerebbe proprio sapere da quali “invocazioni” del Padre nostro si evince un simile concetto: che Dio ha bisogno degli uomini e che senza di essi è perduto, non è più veramente Dio, ma è un Dio inutile e impotente; un Dio disperato, da rottamare. Mentre l’uomo, a quanto pare, può fare benissimo a meno di lui: può anche prendersi il lusso di rifiutare e perfino di odiare Dio (ché tale è il significato, nella nostra lingua, non sappiamo nella lingua di Bergoglio, di espressioni come essere ostili e professare se stessi “senza Dio”; ma ciò non sarebbe comunque un male irreparabile, neanche indipendentemente dal ravvedimento e dal pentimento dell’uomo (come avviene nella parabola del padre misericordioso, da lui tante volte citata, e come ha fatto anche in quella occasione), ma così, semplicemente perché Dio sta incollato all’uomo come la calamita al ferro, dal momento che Lui, non l‘uomo, ha bisogno di tale relazione. E Bergoglio sottolinea, con ostinata protervia (un tempo si diceva: con eresia pertinace), tutto contento, come suo solito, di confondere le menti e scandalizzare le anime dei buoni: è lui che non può stare senza di noi.
In questi ultimi anni abbiamo appreso, sempre da Bergolio, altre verità sublimi; fra l’altro, che un regista da lui molto amato è Pier Paolo Pasolini, e il suo prete modello è don Lorenzo Milani. Vuoi vedere che, se qualcuno lo informa della filosofia di Gentile, questi diverrà il suo pensatore preferito?
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