Cure palliative: misure sufficienti contro il suicidio assistito?
Mar 31, 2025
In una intervista, pubblicata il 16 marzo su La Verità, a firma di Martina Pastorelli, dal titolo “Invocare la libertà di uccidersi non obbliga la medicina ad adeguarsi”, il Cancelliere della Pontificia accademia per la vita, don Renzo Pegoraro, ha commentato negativamente la corsa di alcune Regioni ad approvare il suicidio assistito. Secondo il sacerdote, andrebbe superata «una visione individualistica e capito che davanti a situazioni difficili o gravemente compromesse c’è una terza via: il mondo, riconosciuto ed efficace, delle cure palliative». Inoltre, ha asserito, bisogna «recuperare una dimensione di accettazione della nostra mortalità, e un senso trascendente. Tenendo presente che una risposta alla sofferenza viene dalle cure palliative e dalle terapie del dolore oggi a disposizione […]». Limitandosi poi a richiamare al rispetto dei “valori della Costituzione”, ha concluso affermando che la sfida «sta nel riconoscere che ogni vita ha valore e quindi ha senso, per me e per gli altri, anche quando si sta spegnendo. Se la misuriamo solo in termini di qualità, prestazioni, utilità allora si stabiliscono priorità sulle vite che hanno valore e quelle che, come dice papa Francesco, diventano “scarto”. E questo diventa un grosso problema».
D’altro canto, è notizia del 20 marzo scorso che a Roma è nato il Bioethical Committee for Relationships of Dignity and Guidance in End-of-life Care (BRIDGE), un comitato «interprofessionale, laico e interreligioso che riunisce esperti sanitari, giuristi, umanisti ed esponenti religiosi per promuovere il dialogo e la riflessione sulla dignità della relazione nel fine vita tra paziente, familiari e personale medico». L’obiettivo sarebbe quello di «supportare sia i pazienti che le loro famiglie, promuovendo una umanizzazione delle cure nel rispetto della dignità individuale». Se non fosse per la strana commistione di esponenti islamici, ebrei e buddisti, si potrebbe pensare ad un meritorio tentativo per lenire la deriva eutanasica anche se nulla ancora si sa di come si espliciteranno gli obiettivi dichiarati.
Ciononostante, resta un fatto: per quanto possa esserci del vero in tali affermazioni o iniziative, questi non sembrano che timidi miagolii in confronto al poderoso ruggito eutanasico e suicidario dei fautori della “morte pietosa”. Sembra quasi che il bene, anziché contrattaccare, proceda “col freno a mano tirato” e abbia paura di esporre le ragioni più profonde affinché le persone non cedano alle allettanti tentazioni di chi in verità vuole solo il loro male. Cos’è che manca? Una voce disposta, anche a costo del pubblico dileggio, a ribadire che la sofferenza ha un senso. Ben vengano le cure palliative e il sollievo mediante la terapia del dolore: atti di carità se ben intesi e non sfociano in una accelerazione della morte. Questo è quanto ribadito dallo stesso Pio XII, in occasione del suo famoso discorso sull’analgesia del 24 febbraio 1957: «è illecita ogni forma di eutanasia diretta, cioè la somministrazione di sostanze stupefacenti allo scopo di provocare o accelerare la morte, perché in questo caso si pretende di avere un controllo diretto sulla vita. […] l’uomo non è padrone e possessore, ma solo usufruttuario del suo corpo e della sua esistenza. Il diritto di disposizione diretta viene rivendicato ogniqualvolta l’abbreviamento della vita sia voluto come fine o come mezzo». E proseguiva chiarendo che «se non esiste un nesso causale diretto tra la narcosi e l’accorciamento della vita, stabilito dalla volontà degli interessati o dalla natura delle cose e se, al contrario, la somministrazione di stupefacenti determina di per sé due effetti distinti, da un lato il sollievo del dolore, e dall’altro l’accorciamento della vita, essa è lecita». Resta chiaramente importante domandarsi se la scienza non consenta attualmente l’utilizzo di mezzi alternativi.
Ciononostante, fa bene ribadire che la sofferenza, se sopportata, può essere occasione di purificazione e merito. Questo significato è occultato agli occhi di chi vive in una prospettiva meramente temporale, dove l’unico “valore” è il piacere attuale, destinato a dissolversi con l’ineluttabilità della morte. Ma esso assume fulgida chiarezza quando opportunamente collocato nella prospettiva dell’eternità, della visione beatifica cui le anime possono giungere nella contemplazione del fine ultimo. L’anima umana, affiorata all’esistenza per diretta azione creativa di Dio, come ben dimostra mons. Pier Carlo Landucci (1900-1986) nella sua opera Il Dio in cui crediamo (Edizioni “Pro Sanctitate”, Roma 1967, pp. 255-258) esiste ed è immateriale. Tale totale indipendenza dalla materia «implica, non solo mancanza di parti quantitative disgregabili – semplicità – ma anche sussistenza, ossia indipendenza essenziale dal disfacimento di morte del corpo. E quindi: spiritualità e immortalità».
Già in un precedente articolo è stata ricordata la necessità di una sanzione conseguente ai nostri atti: rimuneratrice per atti moralmente buoni, vendicatrice per atti moralmente malvagi. Dall’immortalità dell’anima si deduce chiaramente che, tuttavia, come ricorda il prof. Régis Jolivet (1861-1966) nel suo Trattato di Filosofia (Morcelliana, Brescia, 1959, p. 221) «il bene e il male morale non trovano in questa vita una sanzione adeguata» e «che il fine ultimo non può essere raggiunto qui nella sua perfezione. Servendoci di considerazioni distinte perveniamo ad un’identica conclusione e ciò prova ancora che, nell’ordine morale, la sanzione e il fine ultimo sono tutt’uno. L’uno e l’altro punto di vista ci rinviano al di là di questa vita, in un mondo in cui l’infelicità sarà unita al male morale e la felicità riconciliata col bene».
È dunque nella prospettiva della felicità futura che dobbiamo collocare i perché della sofferenza in questa vita. Come ricorda padre Frédéric Rouvier (1851-1925) nel suo libro Saper Soffrire (Edizioni Fiducia, Roma 2023, pp. 63-65), «fatti per le cose eterne, ci sprofondiamo nelle cose effimere di quaggiù; creati per Dio, preferiamo a Lui le creature. Ci lasciamo sedurre così facilmente dalle poche gioie che l’amicizia ci può dare, dalle tenerezze del focolare, dai beni esteriori, ma soprattutto dal fascino del mondo e dalle sue promesse. Queste cose accrescono ogni giorno le nostre catene. Ancora un po’ di tempo e l’anima nostra, fatta segno a tutti questi assalti moltiplicati, non potrà più spiegare le sue ali». Ricorrendo alle parole del vescovo Jacques Bossuet (1627-1704), p. Rouvier ricorda come Dio «che ci ha plasmato, che conosce le molle segrete, le quali mettono in moto le nostre inclinazioni, sa che, se ci abbandoniamo a tutto ciò che ci è permesso, con ogni facilità cadremo in quello che ci è proibito». L’avversità è proprio «uno dei mezzi coi quali Dio ci richiama alla giusta valutazione delle cose» (p. 67). Per di più, «non è soltanto sulle anime nostre che la sofferenza può far discendere la rugiada purificatrice del cielo, ma su ben altri ancora. Dio, infatti, ha voluto che essa costituisse non solo un tesoro individuale, strettamente riservato a chi soffre ma, nella sua misericordia, ha permesso che essa formasse inoltre un tesoro il cui beneficio può essere trasmesso ad altri. Questo è uno dei punti più consolanti del dogma della Comunione dei Santi» (p. 69).
Ancora, la sofferenza, pena del peccato, se santificata per mezzo di una rassegnazione piena di pazienza «alimenta in noi la virtù, e ciò che era castigo per il peccatore, diventa merito per l’uomo giusto […] L’intenzione di Dio, quando ci mette a tu per tu con la sofferenza, non è dunque soltanto quella di preservarci dal male prima di tutto e poi di purificarcene, permettendoci di espiarlo; ma è altresì quella di farci meritare, accumulare meriti sopra meriti e così innalzarci ad un più alto grado di gloria in cielo» (p. 70).
Ecco il vero ruggito del bene: la bellezza della dottrina cattolica sulla sofferenza.
Fonte: CR
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