Credi, per poter capire: Fides et Ratio a 25 anni dalla pubblicazione
Mar 05, 2024di Redazione Blog di Sabino Paciolla
Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da mons. Charles J. Chaput, O.F.M. e pubblicato su whatweneednow. Ecco l’articolo nella traduzione di Occhi Aperti ! (pseudonimo di una persona realmente esistente).
Nel 1970, Michael Polanyi scrisse un saggio intitolato “Perché abbiamo distrutto l’Europa?” In esso, l’autore rifletteva sulla diffusione cancerosa delle ideologie e sulla guerra nel XX secolo. Egli sosteneva che il razionalismo scientifico inizialmente aveva avuto “una grande influenza sul progresso intellettuale, morale e sociale”. Ma quella sua postura cronica di scetticismo e di dubbio finì col compromettere la ragione umana stessa, generando un nichilismo di grandi proporzioni. Il nichilismo era stato armato dalle false teorie “scientifiche” del marxismo e del nazionalsocialismo con risultati letali.
Nonostante le sue conquiste, il razionalismo scientifico, in effetti, era “diventato un pericolo per la concezione spirituale dell’uomo”. E questo “ha causato la distruzione delle società liberali su vaste fasce d’Europa”.
Nei suoi libri e saggi, Polanyi – un membro della Royal Society e uno stimato chimico fisico prima di dedicarsi alla filosofia – ha avvertito che la vera minaccia per l’umanità moderna era una bizzarra forma di “inversione morale” alimentata da una crisi della ragione. Convertito al cristianesimo all’età di trent’anni, il suo pensiero è stato profondamente influenzato dall’opera dei primi Padri della Chiesa, in particolare da Sant’Agostino e dalle sue famose parole Crede, ut intelligas (“Credi, per poter capire”).
Per Polanyi, l’essere umano è fatto per cercare la verità. Tutta la conoscenza richiede una sorta di cornice, come quella di convincimenti preesistenti, a sostegno della sua coerenza. Rifiutare i tradizionali fondamenti filosofici della cultura occidentale dà origine a una confusione spirituale che la scienza, la tecnologia e il benessere non possono sedare. E quando l’anima è privata della verità, cerca surrogati tossici.
Polanyi scrisse in tutta tranquillità dall’Inghilterra, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma un contemporaneo polacco dell’ungherese Polanyi, soffrì in prima persona proprio a causa di quei “sostituti tossici”. Il suo nome era Karol Wojtyla. Sacerdote per vocazione e filosofo per formazione, Wojtyla sperimentò sia il nazismo che il comunismo sulla propria pelle. E una volta divenuto Papa Giovanni Paolo II, trattò la crisi moderna della ragione nella sua ormai intramontabile enciclica del 1998, Fides et Ratio (“Fede e Ragione”), che segna già il suo 25esimo anniversario.
Giovanni Paolo II ha scritto Fides et Ratio come un seguito e un ulteriore sviluppo della sua enciclica Veritatis splendor del 1993 (“Lo splendore della verità”). Esse sono strettamente collegate. (Se vi siete persi il precedente articolo di Mons. Chaput su Veritatis Splendor cliccate qui per leggerlo in italiano). Ma in Fides et Ratio, il papa cerca soprattutto di concentrarsi
. . . sul tema stesso della verità e sul suo fondamento in rapporto alla fede. Non si può negare, infatti, che questo periodo di rapidi e complessi cambiamenti esponga soprattutto le giovani generazioni, a cui appartiene e da cui dipende il futuro, alla sensazione di essere prive di autentici punti di riferimento. L’esigenza di un fondamento su cui costruire l’esistenza personale e sociale si fa sentire in maniera pressante soprattutto quando si è costretti a costatare la frammentarietà di proposte che elevano l’effimero al rango di valore, illudendo sulla possibilità di raggiungere il vero senso dell’esistenza. Accade così che molti trascinano la loro vita fin quasi sull’orlo del baratro, senza sapere a che cosa vanno incontro. (FR 6)
L’obiettivo di Giovanni Paolo II, in tutto il suo testo, è la sfida dello scetticismo post-moderno. L’affermazione chiave post-moderna è che tutta la verità è costruita sulla cultura. Le “verità assolute” sono semplicemente il prodotto di un dato tempo e luogo culturale, soggette a critiche e cambiamenti. In questa visione, gli appelli alla verità sono spesso strumenti dei potenti, celati da un sacro linguaggio e usati per soggiogare le minoranze le cui voci sono soffocate. In risposta, Giovanni Paolo II sostiene che la ricerca della verità è centrale per ogni cultura veramente umana. La spinta a comprendere il mondo e il nostro posto in esso è una delle più elementari aspirazioni umane. La verità non è nemica della libertà ma il suo fondamento, poiché ci dà la capacità di amare la realtà così come realmente è.
Ripensando all’ultimo quarto di secolo, Fides et Ratio è profetica. Il clima sociale e il discorso pubblico – compreso il dibattito all’interno della Chiesa – sono ora governati da ciò che il filosofo Alasdair MacIntyre chiama “emotivismo etico”. Noi classifichiamo implicitamente i sentimenti ad un livello superiore rispetto a quello che dovrebbe essere un giudizio scrupoloso, così la “compassione” ha la meglio sulla verità, la sincerità sui fatti, e la nostra originalità anche quando questa possa comportare danni collaterali per gli altri. Ogni persona è libera di pensare tutto ciò che vuole sull’universo, la moralità, l’individualità, la religione (o la mancanza della stessa), ma solo finché ognuno evita di offendere lo spazio sovrano degli altri.
Naturalmente, questo standard viene applicato in modo selettivo. Ed è guidato dal criterio del “politicamente corretto” che riflette le agende della classe dirigente. Gli inni che cantiamo alla tolleranza sono teatrali e superficiali. Al centro dell’emotivismo di oggi c’è un paradosso. L’etica laica moderna si basa sull’autonomia individuale. In teoria, ogni persona forgia il significato della vita come più gli aggrada. Ma questa autonomia può essere esercitata solo all’interno di un quadro strettamente conformista: prendendo parte al mercato laico liberale secondo le sue proprie istanze e i suoi propri piaceri. Sempre più assente è la disciplina intellettuale e morale che deriva dall’essersi formati all’interno di comunità modellate secondo certi valori classici. Ognuno è invitato a sviluppare una visione autonoma, distinta dalla massa. Ma al contempo ognuno è anche spinto a conformarsi alle opinioni e ai comportamenti della collettività. Ciò porta inevitabilmente alla cultura di un egocentrismo concomitante e di un pensiero di gruppo che si para davanti a noi in quotidiani riscontri.
Fides et Ratio offre un rimedio a questo individualismo malato e alla perdita del buon senso che lo precede. Lo fa anzitutto sottolineando l’unità che esiste tra la ricerca della verità e la nostra capacità di amare, tra la ragione filosofica e l’intima comunione umana. Giovanni Paolo II è stato influenzato dal pensiero di San Tommaso d’Aquino e di Max Scheler, fenomenologo tedesco del XX secolo. Egli guarda alla filosofia, quindi, sia come attività vitale dell’intelletto umano sia nel suo esercizio concreto come dimensione delle relazioni umane.
Quando cerchiamo la verità, cerchiamo di conoscere la vera natura dell’universo. Che cosa è un essere umano? Cosa ci dice la scienza sul cosmo? Come dovremmo vivere nel nostro corpo? Ci sono ragioni filosofiche per credere in Dio? Qual è la natura della bellezza? Possiamo identificare norme morali oggettive?
Concretamente, la persona che persegue tali domande ha una storia fatta di amicizie, esperienze, intuizioni, amori e risentimenti, presentimenti e paure da condividere. Tutto ciò condiziona la nostra ricerca della verità. Se poniamo troppa tensione sull’idea astratta di “verità” senza soppesare la sua dimensione personale, rischiamo di usarla come arma contro gli altri. Per contro, l’emotivismo – con il suo venerare i sentimenti piuttosto che i “legalismi” – enfatizza gli elementi soggettivi della nostra ricerca della verità. Ma questo, a sua volta, perde di vista troppo facilmente un punto chiave: possiamo risolvere le nostre confusioni interiori sulla vita solo cercando l’oggettiva realtà delle cose, ed esplorando quella verità con altri che ci rendono responsabili di quella realtà. Come afferma senza mezzi termini Giovanni Paolo II, “Verità e libertà, infatti, o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono” (FR 90).
Gli esseri umani sono più fecondi e autentici nelle loro relazioni e nella loro vita interiore quando sanno di essere legati da una verità che va al di là di loro stessi. Fides et Ratio mostra quel legame tra la verità e la libertà umana. Saper distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è, ci rende liberi di essere noi stessi, di vivere per ciò che è reale e di apprezzare la sacralità degli altri. La vera conoscenza delle persone porta ad una dilatazione dell’amore umano. Questo fa parte di ogni sana filosofia.
Una caratteristica chiave dell’enciclica è la sua risposta al principale problema intellettuale della nostra epoca: il suo pregiudizio (o forse paura) nei confronti della trascendenza. La ragione umana è naturalmente orientata verso l’esplorazione delle realtà più profonde della vita. Cerchiamo il significato ultimo. Vogliamo conoscere la vera origine delle cose. Noi poniamo i nostri perché. Ed è questa ricerca che ci porta alla questione di Dio. Nelle parole di Giovanni Paolo II:
“Ovunque l’uomo scopre la presenza di un richiamo all’assoluto e al trascendente, lì gli si apre uno spiraglio verso la dimensione metafisica del reale: nella verità, nella bellezza, nei valori morali, nella persona altrui, nell’essere stesso, in Dio” (FR 83).
Ma la nostra razionalità moderna è spesso prigioniera di un tipo di scetticismo invalidante che ci imprigiona nel mondo creato della politica, dell’economia e della tecnologia.
Un altro problema che Fides et Ratio affronta è la crisi di verità all’interno della Chiesa cattolica stessa. Che cosa succede alla teologia in assenza di una sana filosofia, che sia veramente aperta al mistero della trascendenza di Dio? Le dottrine fondamentali della Chiesa diventano incomprensibili a molti cattolici. E così tentiamo di coniugare la fede cattolica alle ultime tendenze culturali o politiche. Rilevanza anziché sostanza. I Cattolici cadono in quella corrosiva corrente di pensiero che chiamiamo “storicismo”.
Come osserva Giovanni Paolo II:
“La tesi fondamentale dello storicismo consiste, invece, nello stabilire la verità di una filosofia sulla base della sua adeguatezza ad un determinato periodo e ad un determinato compito storico. In questo modo, almeno implicitamente, si nega la validità perenne del vero. Ciò che era vero in un’epoca, sostiene lo storicista, può non esserlo più in un’altra” (FR 87).
Sotto le pressioni di questo modo di pensare, la teologia cattolica diventa semplicemente una storia di opinioni: la Chiesa era solita insegnare questo; poi quello; ora un’altra cosa ancora.
John Henry Newman insegnò che lo sviluppo della dottrina della Chiesa è organico, in modo tale che i progressi successivi si fondano sugli insegnamenti precedenti e li preservano, in una continuità di significato. Il Concilio Vaticano II e il Concilio di Trento necessitano di essere letti in stretta relazione tra loro. Lo storicismo nella teologia la trasforma in un processo di divisione o di cambiamento arbitrario. E questo a sua volta divide la Chiesa, che è il corpo di Cristo. La vita della Chiesa scivola così nell’emotivismo. In nome della “pastoralità”, la Chiesa rischia di diventare tutta tolleranza, arrendevolezza, affettività e utilità; in una parola, anti-intellettuale.
Dirigendosi verso un ambiguo “sinodo sulla sinodalità”, vediamo che questa è esattamente la crisi che stiamo affrontando.
Viviamo in un tempo in cui la verità cristiana è sempre più fraintesa, disprezzata o semplicemente sconosciuta, anche tra i battezzati cattolici. Michael Polanyi avrebbe riconosciuto le contraddizioni della nostra cultura e la forma emergente di queste contraddizioni, specialmente nei nostri campus universitari: un miscuglio di “scetticismo morale aggressivo [paradossalmente] armato da indignazione morale. La sua struttura è esattamente la stessa del sovvertimento etico alla base dei totalitarismi moderni” – cioè, un disprezzo per la morale tradizionale, che fa corpo unico ed è alimentato da feroci moralismi verso i cambiamenti sociali. La coerenza logica è irrilevante. Il sentimento è la sua unica giustificazione. Scrivendo a seguito del Vaticano II, il filosofo cattolico italiano, Augusto Del Noce, fece tre semplici osservazioni. In primo luogo, la nostra era è una “combinazione peculiare della più grande perfezione dei mezzi con la più grande confusione di obiettivi”. In secondo luogo, di fronte all’ateismo moderno – spesso è meno l’odio di Dio che un’indifferenza nei suoi confronti indotta dalla tecnologia – “gran parte del pensiero religioso [di oggi], questa istanza di aggiornamento, significa semplicemente arrendersi all’Avversario”. E in terzo luogo, gran parte di ciò che si definisce progressivismo cristiano, non importa quanto buone siano le sue intenzioni, non è altro che uno strumento per quella resa.
Per Del Noce, la missione della Chiesa in ogni epoca è quella di allineare il mondo ai principi eterni nel rispetto del bene che pur vi è in quelle cose che sono nuove. Il progressismo fa “l’esatto opposto, poiché [cerca] di allineare il cattolicesimo al mondo moderno”. Favorendo nettamente l’azione rispetto alla contemplazione e la politica rispetto alla metafisica, il progressismo riduce il nucleo soprannaturale della fede cristiana a un sistema di etica sociale – una sorta di cappellania umanitaria battezzata in un mondo che non ne ha bisogno o non la vuole. Il risultato è evidente. La prova, per Del Noce, starebbe in uno svuotamento generale di tutte le chiese nazionali, e ora in gran parte dell’Europa. La Germania è ovviamente l’esempio più lampante.
Giovanni Paolo II ha parlato dal cuore della Chiesa perché, oltre ad essere un pensatore rigoroso, era anche profondamente in sintonia con il Verbo fatto carne, la sapienza incarnata. La confusione che ha perseguitato il mondo cattolico negli anni immediatamente successivi al Vaticano II in parte è dovuta all’assenza di quella speculazione intellettuale rigorosa, fusa con una fede profonda e sincera. Giovanni Paolo II fece molto per sanare la confusione. Ma non è mai del tutto scomparsa, e – purtroppo – è ancora viva nell’attuale pontificato con rinnovato e deleterio vigore.
Per questo Fides et ratio rimane così importante nella sua sostanza, non solo per gli studiosi, ma per tutti noi; per ogni cristiano che si rivolge alla Chiesa in cerca di una guida e di un cammino che conduca alla vita eterna. Ciò di cui abbiamo bisogno ora è un ritorno ai suoi principi fondamentali.
Charles J. Chaput
Charles J. Chaput, O.F.M., è l’arcivescovo emerito di Philadelphia. Questo articolo è rivisto e adattato dall’autore in base a precedenti commenti apparsi (2018) sulla rivista First Things.
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