Come è narrata ai giovani la cultura degli anni ‘30, Francesco Lamendola
Jul 01, 2022In che modo viene narrata ai giovani la cultura italiana, e in particolare la letteratura, degli anni ’30 del Novecento? Poiché si tratta dell’innominabile ed esecrabile periodo della dittatura fascista, essenzialmente in due modi: o si racconta loro che l’intelligenza, l’arte e le belle lettere degli italiani sono andate in vacanza fino al 1945, o almeno fino al 1943, perché esse, come teneri fiori, non possono germogliare senza l’aria e il fertilizzante della libertà; oppure che bisogna cercarle sia negli scrittori e intellettuali espatriati appunto per assaporare quell’aria e per nutrirsi di quel fertilizzante (ma furono pochini, quindi la coperta risulta un po’ troppo corta per coprire il re nudo), sia fra quelli che restarono sì in Italia, ma ringhiando minacciosamente il loro scontento e i loro astratti furori di vittoriniana memoria, pronti a bazar fuori non appena fosse risuonata la squilla della libertà sotto forma di lotta antifascista (per tacere pudicamente l’espressione guerra civile, debitamente finanziata e diretta dal nemico esterno). E dunque valorizzando al massimo il Vittorini di Conversazione in Sicilia, il Moravia de Gli indifferenti, il Pratolini de Le amiche e “silenziando”, per converso, opere come Il borghese di Salvatore Gatto (il quale fu uno degli ultimi vice-segretari nazionali del Partito Nazionale Fascista) o Questi inglesi di un giornalista coi controfiocchi come Concetto Pettinato, per la buona ragione che avrebbero mostrato come si possa restare fedeli a un’idea anche quando essa viene abbandonata dal favore degli dèi, e testimoniare così un minimo di dignità e coerenza intellettuale e morale.
Prendiamo un fortunato testo scolastico ad uso dei licei, La letteratura, di Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria (Paravia, 2007, vol. 6, pp. 466-468):
LA SOCIETÀ ITALIANA FRA ARRETRATEZZA E MODERNITÀ. IL CONTRASTO TRA CITTÀ E CAMPAGNA
Il quadro del gusto e degli orientamenti culturali che si verifica nel passaggio dall’Otto al Novecento, fra tramonto del Positivismo e influssi del Decadentismo, è dovuto anche alle accelerazioni che, pur registrando il ritardo dell’Italia rispetto ai più avanzati paesi europei, subiscono i processi dello sviluppo industriale. Sarà soprattutto il romanzo, genere letterario che si caratterizza per le sue capacità analitiche e per la possibilità di stabilire un confronto critico più diretto con la realtà, a farsi carico dei problemi sociali, sia cogliendone le spinte della “modernità”, sia individuando le persistenti sacche di “arretratezza”. (…)
A queste forme di sviluppo economico, contadino-artigianale e industriale, corrisponde la contrapposizione fra “campagna” e “città” che, ancora viva nel corso del secolo, dà luogo a due movimenti antagonisti: stracittà, promosso da Massimo Bontempelli, che cerca di aprirsi a una tradizione più modernamente europea (da qui il termine “novecentismo”, dal titolo della rivista “900”); Strapaese, che si propone invece la difesa a oltranza dei presunti valori di una tradizione nazionale, se non nazionalistica (come risulta sin dal titolo delle riviste cui fa capo, “L’italiano” e “Il selvaggio”).
Riflettendo su questa situazione, e confrontandola con un’esperienza analoga maturata negli Stati Uniti, Cesare Pavese, nel saggio del 1931 su Sherwood Anderson – scrittore statunitense che nelle sue opere dà voce al disagio crescente degli individui nella società industriale – ne individuerà i limiti, dandone un giudizio particolarmente duro e severo: «Per Anderson, tutto il mondo moderno è un contrasto di città e di campagna, di schiettezza e di vuota finzione, di natura e di piccoli uomini. Quanto tocchi anche noi questa idea, credo inutile dire. E di quanto noi siamo inferiori in potenza vitale alla giovane America, possiamo vedere da questo: un problema che ha dato all’America opere come quelle di cui parlo non ha dato tra noi che una caricatura letteraria: stracittà e strapaese».
Il problema va quindi ricondotto a condizioni diverse di sviluppo economico. Il grande tema del «contrasto di città e di campagna», in Italia, vede prevalere nettamente la rappresentazione del mondo contadino, che conserva spesso le caratteristiche di una società arcaica; al contrario, lo sviluppo industriale appare ancora piuttosto lento e faticoso, e non tale da modificare radicalmente le abitudini del paese.
MONDO CONTADINO E DISORDINI SOCIALI NEL PRIMO NOVECENTO
Un’implacabile denuncia nei confronti dell’arroganza e della brutalità di una borghesia terriera rozza e ignorante è contenuta nelle opere di Federigo Tozzi. Solo in parte le sue tematiche si possono ricondurre a quelle tipiche della stagione “verista”, ad esempio per quanto riguarda il motivo della “roba” verghiana; la figura del padrone, che si è arricchito in maniera cinicamente spregiudicata, coincide in Tozzi con quella del padre, coinvolgendo più complesse e profonde radici autobiografiche. Di qui il valore simbolico che assumono episodi e situazioni, in un contesto di repressioni e crudeltà che riguarda la società e l’individuo, e che solo la psicoanalisi consente di interpretare, anche se non può offrire speranze di una facile guarigione.
La cieca fiducia nel progresso alimentata fra Otto e Novecento aveva avuto una battuta d’arresto con la Prima guerra mondiale, che doveva tragicamente rivelare quanto fragili e pericolose fossero le illusioni legate al progresso di un’industria poi convertita nella produzione di armi. Il primo dopoguerra farà avvertire i segni di una crisi profonda, sia per quanto riguarda l’acuirsi delle contraddizioni sociali, sia per quanto riguarda la delusione degli intellettuali che in gran parte avevano creduto nella guerra.
Il ritorno all’ordine voluto e imposto dal fascismo si basava su una repressione che, mentre fingeva di avere risolto i confitti di classe, non aveva di certo eliminato i mali atavici che affiggevano l’Italia. Tra questi figurava la questione meridionale, irrisolta a causa del persistere di strutture economiche che lasciavamo in vita rapporti addirittura “feudali”, come quelli basati sul latifondo e sull’impiego della manodopera dei braccianti.
Il discorso poi prosegue citando Alvaro (Gente in Aspromonte) e Silone (Fontamara) come esempi virtuosi di scrittori “rurali” che guardano in faccia i problemi sociali della classe contadina, e Massimo Bontempelli (La vita operosa) e Carlo Bernari (Tre operai) come esempi del pari virtuosi di scrittori “urbani” che affrontano i problemi della condizione moderna e in particolare della realtà industriale. Silenzio totale su altri scrittori, non diciamo “fascisti”, come appunto Maccari o il “primo” Vittorini, ma anche cattolici, come Nicola Lisi o Domenico Giuliotti, evidentemente perché non affrontano le questioni sociali, né sanno vedere nella modernità, pur fra le sue molte contraddizioni, il “giusto” e necessario orizzonte letterario ed esistenziale di qualunque autentico scrittore, che non nasconda i problemi sotto il tappeto e non scantoni, indicando al pubblico evasioni mistiche o soluzioni culturali e politiche di stampo reazionario. Insomma gli Autori riprendono e sottoscrivono al cento per cento le tesi dell’intellettuale gobettiano Leo Ferrero (Torino, 1903-Santa Fe, Nuovo Messico, 1933) e del suo articolo Perché l’Italia abbia una letteratura europea, pubblicato su Solaria del 3 gennaio 1928, nel quale egli accusava la letteratura italiana di due gravi difetti: il provincialismo e la mancanza di “sentimento morale”, frutto, a suo dire, dell’atmosfera grigia e opaca della nostra cultura, priva d’impegno e di generosità, chiusa in se stessa e incapace di confrontarsi con la cultura europea.
Gira e rigira, siamo sempre lì: all’idea, tutta progressista, illuminista e giacobina, del “ritardo storico” delle società contadine, o comunque delle società pre-moderne rispetto alla meta irrinunciabile della piena industrializzazione e della piena modernità, che si decina dapprima come americanismo, poi, ai nostri dì, come globalizzazione e mundialismo di tipo massonico, gnostico e nichilista, con un centro plutocratico che tutto decide e delle periferie appunto “arretrate” che devono adeguarsi e mettersi velocemente al passo, bon gré mal gré, perché il treno della storia è quello, uno e uno solo, e chi si ferma è perduto, precipita inesorabilmente nell’inferno della irrilevanza e della regressione. Un discorso del tutto analogo a quello che i modernisti travestiti fraudolentemente da cattolici hanno fatto e seguitano a fare, all’interno della Chiesa e della cultura cattolica, a partire dal Concilio Vaticano II. Si pensi alla nota affermazione del cardinale Carlo Maria Martini, secondo il quale la Chiesa ha accumulato un ritardo storico (rispetto a che cosa?) di almeno duecento anni, e che adesso lo deve recuperare a tappe accelerate, se non vuole perdere il treno del “dialogo” col mondo.
Tornando al nostro testo, apprendiamo in buona sostanza, o meglio apprendono i nostri studenti liceali, che la società italiana degli anni ’30 era “arretrata”. Vale a dire che viene emesso un giudizio di tipo relativo (arretrata rispetto alle società industriali più moderne e tecnologicamente evolute) e che dunque anche la sua cultura e la sua letteratura non potevano che essere del pari arretrate (accettando implicitamente la tesi marxista della struttura economica che determina la sovrastruttura ideologica). Pertanto, si possono riconoscere due tendenze principali all’interno della cultura progressista che prende atto di tale arretratezza e s’ispira ai modelli angloamericani; mentre quella chiusa nel proprio ottuso provincialismo, ha l’ardire di cercare nella stessa società italiana le proprie fonti d’ispirazione. E dunque si constata che esistono due possibili atteggiamenti: quello che cala i modelli anglo-americani nella realtà contadina italiana, e quello che rifiuta quei modelli e che pertanto è arretrato, chiuso e bigotto per definizione, specie se fa riferimento alla tradizione cattolica (Lisi, Giuliotti, Casini). Nel primo caso abbiano romanzi come Paesi tuoi di Cesare Pavese, nei quali il modello americano della società rurale profonda viene calato nei contadini piemontesi della Langhe, col risultato di stravolgerne completamente la fisionomia, sino a renderli irriconoscibili: dei bestini “primitivi”, violenti, incestuosi e omicidi (vedi la tragica morte di Gisella, assassinata dal fratello Talino che a suo tempo l‘aveva posseduta e la considerava cosa propria: insomma, Verga più Faulkner più Freud). Il tutto per la gioia dei professori comunisti torinesi come Augusto Monti e di tutta l’area culturale liberalsocialista di ascendenza gobettiana e radical-chic che si stava coagulando attorno all’editore Giulio Einaudi. Per la quale, nondimeno, l’operazione di Pavese non era stata condotta sino in fondo, o con tutto il necessario rigore, per cui essa continuò a rimproverargli dei residui di sentimentalismo e d’individualismo “borghese” e una non adeguata adozione del modello gramsciano dell’intellettuale organico. Un circolo vizioso nel quale il povero Pavese finirà per rimanere stritolato, grazie anche ai sensi di colpa suscitati in lui dalla solerte psico-polizia orwelliana per le sue derive verso il mondo del mito, equiparabili ad altrettante evasioni, o meglio diserzioni, dal terreno concreto della storia, e naturalmente della lotta di classe, esplicitamente o implicitamente assunta come il vero motore della storia e delle azioni umane (cfr. il nostro articolo. Fino a che punto un Maestro può spingersi per conformare a sé la personalità del discepolo? pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 21/10/08 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 08/08/17).
Un’altra cosa apprendiamo, abbastanza sorprendente, dalla lettura della pagina sopra citata: che di fronte ad opere come Il podere di Federigo Tozzi (e a maggior ragione come Paesi tuoi di Pavese) è necessario interpellare il dottor Freud: la figura del padrone, che si è arricchito in maniera cinicamente spregiudicata, coincide in Tozzi con quella del padre, coinvolgendo più complesse e profonde radici autobiografiche. Di qui il valore simbolico che assumono episodi e situazioni, in un contesto di repressioni e crudeltà che riguarda la società e l’individuo, e che solo la psicoanalisi consente di interpretare, anche se non può offrire speranze di una facile guarigione. Insomma, o ci si affida alla psicoanalisi, o si è tagliati fuori dalla comprensione della realtà, sia quella interiore dell’uomo, sia quella sociale. Siamo sempre lì: Marx e Freud; Marx più Freud; altre guide non vi sono, né altri strumenti di lettura del reale. Per decenni questa è stata, ed è tuttora, la minestra che viene servita ai nostri studenti: psicoanalisi e marxismo, marxismo e psicoanalisi. Avete mai assistito ad un esame di stato liceale? Il professore di storia, quello di filosofia e quello di psicologia portano sempre il discorso su queste due infallibili fonti di verità, e sempre con l’atteggiamento devoto, anzi adorante, di chi si prostra innanzi a due divinità: l’una che vuol cambiare il mondo (anche se ovunque ci ha provato ha fallito miseramente, regalando agli uomini sofferenze inaudite e amarissime delusioni), l’altra che, purtroppo, non può offrire speranze di una facile guarigione, ma resta un oracolo irrinunciabile. L’importante è negare e nascondere ogni altra strada e ogni possibile terza via; inculcare l’idea che fuori di questo orizzonte costituito non c’è alcuna speranza di salvezza.
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