Cadono “fiocchi di neve”. Ma non è maltempo, sono tempi malati
Feb 01, 2023di Roberto Pecchioli
L’esercito americano ha dovuto abbassare i criteri fisici di reclutamento. Le prestazioni degli aspiranti peggiorano costantemente. Non è dato sapere quali siano le condizioni psicologiche e mentali, la tempra morale delle reclute. Uguale situazione in Francia, dove il confronto tra i test fisici attuali e quelli del passato sono sconfortanti: l’ultima generazione ha perduto un quarto della capacità polmonare a causa di uno stile di vita sedentario, esito delle molte ore trascorse davanti agli schermi. Conseguenza: i giovani francesi impiegano un minuto in più dei loro padri per percorrere un chilometro.
La prognosi è severa: tra dipendenze (alcool, droghe, farmaci e psicofarmaci, sballo, apparati elettronici) decadenza fisica e fragilità provocata dal disastro familiare, dalle follie gender e politicamente corrette, narcisismo, mistica dei diritti senza doveri, il destino delle generazioni è preoccupante. Ancora più disastrosa è la condizione dei giovani maschi. Devirilizzati, educati prevalentemente da donne, privi di modelli, indotti a colpevolizzare i loro istinti, sono l’anello più debole di una catena decadente. Maschi e femmine – compresi i “non binari” – sono la generazione “fiocchi di neve”. L’indebolimento progressivo delle menti e dei corpi, la confusione alimentata ad arte sino alla disidentificazione personale e intima, non è responsabilità dei giovani.
Questi diventano vittime di un gigantesco esperimento di ingegneria e antropologia sociale. Sono come il potere vuole che siano: flaccidi, deboli, conformisti, impauriti, ignoranti (a parte l’addestramento strumentale) diseducati alla discussione, incapaci di immaginare il cambiamento. Il contrario del passato, in cui i giovani sono stati sempre motori di rinnovamento, diversità, novità. Sudditi ideali perché inconsapevoli, addirittura sinceramente convinti di fare le proprie scelte in autonomia, scimmie ammaestrate convinte che la vita sia una successione di vacanze, diritti, desideri e capricci. Il sistema vigente – il globalismo capitalista fintamente libertario – li ha resi fiocchi di neve, freddi, liquidi, destinati a sciogliersi al primo calore, vestiti di costosi stracci, con vistosi tatuaggi, anelli tribali e bizzarre acconciature. Fragili, centrati nell’attimo, destano grande preoccupazione.
Sbalordisce la loro sottomissione indifferente di anonimi soldatini, di cui abbiamo avuto prova nel triennio epidemico: il trionfo del potere subdolo, seduttivo, ipnotico e narcotico. Sono pietre le parole di Byung Chul Han, lucido osservatore del presente: “il soggetto sottomesso non sa nemmeno di esserlo, e anzi crede di essere libero; non esiste una moltitudine collaborativa ed interconnessa in grado di elevarsi a protesta globale, a massa dedita alla rivoluzione”. In una massa di individui esausti, che si autosfruttano nell’illusione di realizzarsi, fino a collassare depressi e isolati, non può sorgere alcuna scintilla antagonista. “Come accade nella Corea del Sud (Han è coreano) che ha il più alto tasso di suicidi al mondo: si fa violenza a se stessi invece di cercare il cambiamento nella società. Io non vengo sfruttato, dal mio padrone, mi sfrutto da solo. Sono al contempo servo e padrone. Il regime neoliberista così isola le persone: nella società della prestazione, non si può mai formare un collettivo, un Noi capace di ribellarsi al sistema”.
È evidente che la fragilità, la decostruzione di ogni identità e principio condiviso, unita alla debolezza psicofisica delle generazioni- processo iniziato negli anni Sessanta giunto a maturazione con moto accelerato- è volontà precisa delle oligarchie al potere. Un’analisi impressionante proviene dallo psicologo americano Jonathan Haidt, ne La trasformazione della mente moderna. La sua tesi è che alcune pessime idee stanno condannando un’intera generazione al fallimento. Persino statistiche che sembrerebbero confortanti possono essere interpretate come segnali di introversione, di insicurezza generazionale.
La percentuale di chi ha provato l’alcool, il fumo e il sesso prima dei sedici è scesa in America di alcuni punti. Nessun vero sospiro di sollievo: anziché imparare ad assumere rischi senza la rete protettiva degli adulti, troppi vivono rinserrati in casa, attaccati agli apparati informatici. La catastrofe è che nessuno li educa alla vita reale, malgrado le “buone” intenzioni dei genitori (quando ci sono…). La tendenza è proteggere da qualsiasi trauma, reale o immaginato, a costo di convincere i giovani di vivere in una giungla inestricabile.
Le cattive idee sono i pensieri instillati dal sistema. Haidt ne elenca tre: ciò che non ti uccide ti rende più debole (la menzogna della fragilità); fìdati sempre dei tuoi sentimenti (la menzogna del ragionamento emotivo); la vita è una battaglia tra buoni e cattivi (la menzogna di “noi contro loro”). Questa combinazione letale di buone intenzioni e cattive idee condanna al fallimento una generazione, avvelenando l’insieme della società. L’ ansia, la depressione, la paura, il suicidio sono saliti alle stelle, la cultura è diventata uniforme, ciò che impedisce di apprendere, confrontare, formarsi un’opinione. I social network e i nuovi media consentono di rifugiarsi in bolle dove si semina il nulla e impera la polarizzazione.
Preoccupa che i disturbi psicologici si stiano moltiplicando con picchi per gli atti di autolesionismo. Manca la preparazione ad affrontare la realtà, gli inevitabili insuccessi, di elaborare i no ascoltati per la prima volta dopo i sì dei genitori e del blando sistema educativo. La data cruciale, per Haidt, è stato il 2010, la anno dello smartphone, parallelo al fulmineo sviluppo dei nuovi media. “La vita sociale degli adolescenti cambiò radicalmente. Nel 2008 i ragazzini andavano a casa degli amici o stavano all’aria aperta. Nel 2010, divenne normale che si rinchiudessero nelle loro stanzette con il telefono cellulare”. Bambini e ragazzi hanno bisogno del gioco per completare il processo di sviluppo neuronale. Se si limita la fase ludica, arrivano meno forti all’età adulta, fisicamente e socialmente, meno resistenti al rischio e più vulnerabili. “Se sei un giovane che si è agganciato alle reti sociali dal 2010, il tuo cervello funziona diversamente dal mio”, conclude amaramente Haidt.
L’alternativa è smontare le tre grandi menzogne indicate. La debolezza è maggioritaria tra i nati dopo il 1995, la iGen, i nativi digitali ossessionati dalla sicurezza, fisica ed emotiva. Il dramma è che “credono di doversi mettere in salvo dagli incidenti automobilistici o dagli attacchi sessuali nei campus universitari, ma anche della gente che ha idee diverse dalle loro”. È la chiusura della mente prodotta dal politicamente corretto, che si rivela sempre più un potente fattore di guerra cognitiva contro la persona, espropriata delle parole e separata dalla realtà.
La seconda menzogna è emozionale: confida sempre nei tuoi sentimenti. Si insegna che se qualcosa dà fastidio, si tratta di un male. Di qui nasce la pratica dei boicottaggi a coloro che sostengono “idee erronee”, nonché l’assurdo concetto che le università debbano proteggere gli studenti dal confronto. L’attuale deriva è la prova della facilità con cui attecchiscono le pessime idee. Ciò vale anche per l’apparente scontro buoni/cattivi, che finisce nel pregiudizio e nella violenza, fisica o morale, per togliere la parola a chi non piace, “offende” in quanto dissenziente, non conformista.
La vita, piaccia o no ai fiocchi di neve, è una cosa seria. Il futuro è nero non solo per la fragilità, l’assenza di passione e il senso malinteso della libertà delle ultime generazioni, ma perché si estenderanno l’impreparazione e la bassezza morale delle classi dirigenti, l’infantilismo di massa, la sindrome di Peter Pan che annega nella futilità, nel vuoto, nell’impero dell’effimero.
Si vive in una sorta di assenza protratta all’infinito. Abbondano i titoli accademici ma mancano i colti e i preparati. Molti frequentano l’università come un gregge addormentato senza capacità critica né franchezza nella discussione. La vita va affrontata a viso aperto, allenati alla fatica del fare e della conoscenza, lontani dalla pomata emolliente dell’iperprotezione, alieni al frastuono della discoteca emozionale. Si deve tornare a crescere scegliendo tra tesi contrastanti, sostenute da principi saldi, premessa della capacità di decisione. I giovani trascorrono in una Disneyland virtuale l’età più importante della vita. Ragazzi che non diventano uomini e ragazze che senza l’approvazione dei “mi piace” piangono sperdute. Serve ripristinare la forza delle idee e l’idea della forza, intesa come tenuta morale, resistenza alle avversità. Basta con l’enfatizzazione confusa delle emozioni di bambole e burattini manipolabili, preda di ogni timore, facili obiettivi di propaganda e falsità.
La maggioranza dei Millennials è debole, ipersensibile, manichea. Non è preparata a guardare in faccia la vita, che è conflitto, né la democrazia tanto esaltata, che è dibattito. Corre verso il fallimento a testa in giù. Generazioni che temono il linguaggio, impauriti da parole o significati, ignari della realtà: è la neocultura dell’ultra sicurezza (safetysm) che rende gregge docile, cieco, felice nella sequela del pastore.
I cuscinetti protettivi dinanzi a ogni disagio creano fragilità esistenziale: di qui l’ansia e la depressione di ragazzi che traferiscono alle reti sociali le loro emozioni e interazioni vivendo nel paragone dell’aspetto fisico, dello status sociale, nella sindrome “fomo”, fear of missing out, la paura di essere esclusi da eventi o contesti collettivi. Il carnevale perenne ha pesanti conseguenze: si desidera il gruppo, la moda. Chi non utilizza certi termini o non partecipa a determinati riti e abitudini, è deriso, bullizzato, isolato come deviante.
I giovani cercano seguaci, non amici, mancano di vera libertà e non saprebbero utilizzarla; i superstiti genitori e nonni fanno da supervisori permanenti a soggetti che non arriveranno alla condizione di adulti. La carota è la condiscendenza permissiva, ma anche il videogioco stupido o violento offerto a navigli portati dal vento che il mare dell’esistenza farà naufragare.
La fragilità è il primo passo, poi arrivano insicurezza, ansia, irritazione, debolezza fisica. Finiranno per diventare pessimi cittadini. Senza colpa, non sanno che cosa siano la vocazione, la passione. Si limitano a muovere compulsivamente le dita sullo schermo come sonnambuli senza capire che cosa leggono o vedono. Li dispensiamo dalla burrasca, ma se proteggiamo i giovani da ogni esperienza potenzialmente perturbatrice, li rendiamo incapaci di combattere, quando usciranno dal cono protettivo.
Non c’è autorevolezza, autocontrollo, tenuta interiore, tensione a migliorarsi. La protezione amniotica genera depressione, insicurezza, sino ai disturbi psichici e alla piaga dei suicidi. Troppi sono incoscienti della violenza che vivono e qualche volta praticano. Attraversare esperienze difficili e traumi rafforza il carattere. La dinamica dell’ipersicurezza, l’incultura della bambagia si basa su errori fondamentali: la saggezza popolare sapeva che “quel che non strozza, campa”, tempra e permette di separare la sfera emozionale dalla reazione matura, dalla presa di distanza, premessa dell’equilibrio personale.
I nati dopo il 1982 mostrano tassi di suicidio via via più elevati in base all’anno di nascita. Troppi cervelli in formazione sono occupati solo dai social network, il cui rumore in cui tutti cercano approvazione manca di profondità oltreché di motivazioni personali: così fan tutti. Sono scomparsi i giochi esterni, fisici, c’è meno tempo per uscire, socializzare, presi dalla febbre degli schermi, dalla dipendenza da ciò che gli altri dicono attraverso lo schermo. Tutti giudicano tutto in una babilonia superficiale intrisa di perfidia. Non ci sono idee proprie, ma si trema dinanzi alla disapprovazione o al temuto “non mi piace”, il pollice verso nel nuovo Colosseo.
L’osservazione dei più giovani, privi di filtri culturali ed esperienze consolidate, convince che la società occidentale vive in tempo sospeso, irreale, dove il presente è un attimo inerziale, freddo, entropico. Il mondo che offriamo a chi sta entrando nella vita è un falso paradiso farmaco-pornografico di individui incomunicabili che trascinano esistenze fantasmatiche.
Lo sguardo sulle generazioni degli evanescenti, precocemente estenuati fiocchi di neve, ci porta a un sentimento autunnale, la malinconia. Cadono le foglie, non solo sul capo della generazione “fiocchi di neve “.
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