Aveva ragione Schopenhauer?
Jul 08, 2022di Francesco Lamendola
Di fronte allo spettacolo cupo, monotono, esasperante, dell’immensa, inesauribile, inguaribile stupidità umana, al ripetersi ossessivo delle stesse futili dinamiche dell’ego, delle sue brame e dei suoi timori, con tutte le follie, le ingiustizie e le crudeltà che esse incessantemente riproducono, senza che l’uomo impari mai nulla, senza che mai si porti su d’un piano più elevato, senza che mai giunga ad inspirare una boccata d’aria pura che ristori lo spirito dall’afa insopportabile delle bassure malsane nelle quali perennemente dimora, abbrutito e sempre più deluso, viene talvolta da chiedersi; e se Schonpenhauer, per caso, e tutti quelli simili a lui, non avessero avuto e non abbiano, per caso, ragione?
E se per caso non sia fatica vana quella di voler aspirare, per l’uomo, di aiutarlo ad arrivare a una visione più alta e più nobile dell’esistenza, dei suoi doveri, del suo fine e della sua meta? Se davvero la vita umana, la condizione umana, fossero un male in se stesse, e nessun ragionamento, per quanto sottile, e nessuno sforzo, per quanto generoso, potrebbero mai cambiare tale fondamentale dato di fatto, ma attestano solo una difficoltà ad accettare ciò che pure si mostra in tutta la sua evidenza, a dispetto di ogni tentativo di abbellire la realtà e di edulcorare la nostra condizione esistenziale?
Questo spiacevole interrogativo sorge proprio constatando la reazione di una parte non trascurabile di coloro che si vorrebbe ridestare, che si vorrebbe richiamare ad una visione più nobile dell’esistenza, aiutandoli a liberarsi da quella sorta di paraocchi che li fa vivere von il pilota automatico inserito, non cogliendo tutta la bontà, la verità e la bellezza del reale, ma ripetendo senza riflettere i solito comportamenti, le solite reazioni, anche i più banali e i più autolesionistici, solo perché «tutti fanno così», e in fondo, essi dicono, non ci sono significati ulteriori, bisogna adattarsi alle cose così come sono e cercar di sfruttare al meglio le situazioni e le possibili occasioni che si presentano per strappare qualche vantaggio, qualche piacere, qualche emozione che permetta di sfuggire alla noia, la grande nemica che se ne sta in agguato sullo sfondo, ancora più temibile del dolore stesso.
Per cui ci si chiede se gli uomini vogliano davvero uscire dal circolo vizioso di un’esistenza insensata e ripetitiva, assurda e monotona, o se in fin dei conti la maggior parte di loro non si adatti facilmente a starsene rincantucciata più o meno comodamente, più o meno pigramente, come gli schiavi volontari nella caverna di Platone: quelli ai quali è stato annunciato che c’è tutto un mondo, bellissimo e luminoso, fuori di essa, ma non vogliono prestar fede a una simile notizia e rivolgono anzi la loro rabbia e la loro disperata amarezza contro il latore di buone novelle, pensando che, dopo aver messo a tacere costui, anche le loro inquietudini troveranno pace nel ritorno alla condizione di sempre.
Scrive Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione (titolo originale: Die Welt as Wille und Vorstellung, 1819; traduzione dal tedesco di Paolo Savj-Lopez, Bari, Editori Laterza, 1997, pp. 424-425):
È davvero incredibile, come insignificante e priva di senso, vista dal di fuori, e come opaca e irriflessiva sentita dal di dentro, trascorra la vita di quasi tutta l’umanità. è un languido aspirare e soffrire, un traballante sognare attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con accompagnamento d’una fila di pensieri triviali. Gli uomini somigliano a orologi, che vengono caricati e camminano, sena sapere il perché; ed ogni volta, che un uomo viene generato e partorito, è l’orologio della vita di nuovo caricato, per ancora una volta ripetere, frase per frase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata. Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita non è che un nuovo breve sogno dell’infinito spirito naturale, della permanente volontà di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà traccia per gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, lasciandola durare un attimo appena percettibile di fronte all’immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad altre, Nondimeno, e in ciò è l’aspetto grave della vita, ognuna di tali immagini fugaci, ognuno di tali insipidi capricci dev’essere pagato dalla intera volontà di vivere, in tutta la sua violenza, con molti e profondi dolori, e in ultimo con un’amara morte, a lungo temuta, finalmente venuta. Per questo ci fa così subitamente malinconici la vista d’un cadavere.
La vita d’ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia. Imperocché l’agitazione e il tormento della giornata, l’incessante ironia dell’attimo, il volere e il temere della settimana, gli accidenti sgradevoli d’ogni ora, per virtù del caso ognora intento a brutti tiri, sono vere scene di commedia. Ma i desideri sempre inappagati, il vano aspirare, le speranze calpestate sena pietà dal destino, i funesti errori di tutta a vita, con accrescimento di dolore e con morte alla fine, costituiscono ognora una tragedia. Così, quasi il destino avesse voluto aggiungere lo scherno al travaglio della nostra esistenza, deve la vita nostra contenere tutti i mali della tragedia, mentre noi non riusciamo neppure a conservar la gravità di personaggi tragici, e siamo invece inevitabilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipi da commedia.
Ma per quanto i grossi e piccoli tormenti riempiano ogni vita umana, tenendola in perenne inquietudine e moto, non possono tuttavia coprir l’insufficienza della vita rispetto alla soddisfazione dello spirito, e il vuoto e l’insulsaggine dell’esistenza, né bandire la noia, ch’è sempre pronta a empire ogni pausa lasciata dall’angoscia. Di là è venuto, che lo spirito umano, non ancora contenuto delle angosce, amarezze e occupazioni impostegli dal mondo reale, si crea per di più, in forma di mille variate superstizioni, un mondo immaginario, col quale si affatica in tutti i modi, dissipandovi e tempo e forze, non appena il mondo reale gli lasci un riposo ch’egli non sa gustare.
È un quadro desolante, non molto strutturato sul piano filosofico, piuttosto costruito in funzione psicologica: nulla di buono si salva della condizione umana, e l’insieme della storia non è che il ricorrere ossessivo, e al tempo stesso terribilmente stupido, dello stesso logoro e prevedibile copione, dal quale nessuno impara mai nulla; né del resto vi sono possibili vie d’uscita, perché la condizione umana è quella e non esistono alternative tranne quella di spegnere in se stessi la volontà di vivere. Di qui il giudizio scoraggiato e del tutto negativo su qualunque idea di progresso: per cui la visione di Schopenhauer, a ben guardare, non è diretta contro questa o quella particolare ideologia progressista, e in fondo neppure contro il progressismo in quanto tale, ma contro la condizione umana in se stessa, e naturalmente contro chi cerca di abbellirla e di coprirne il lato oscuro.
In ciò Schopenhauer si pone idealmente sulla stessa linea del Leopardi de La ginestra, o il fiore del deserto, specie dell’aspra rampogna che il poeta di Recanati rivolge al secolo superbo e sciocco, l’Ottocento, che si ostina a indicare all’umanità ignara e sofferente chissà quali mete straordinarie ed esaltanti (vv. 52-86):
Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco, / che il calle insino allora / dal risorto pensier segnato innanti / abbandonasti, e vòlti addietro i passi, / del ritornar ti vanti, / e procedere il chiami. / A tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti, / di cui loro sorte rea padre ti fece, / vanno adulando, ancora / ch0a ludibrio talora / t’abbian fra sé. Non io / con tal vergogna scenderò sotterra; ma il disprezzo piuttosto che si serra / di te nel petto mio, / mostrato avrò quanto si possa aperto; bench’io sappia che obblio / preme chi troppo all’età propria increbbe. / Di questo mal, che teco / mi fia comune, assai finor mi rido. / Libertà vai sognando, e servo a un tempo / vuoi di novo il pensiero, / sol per cui risorgemmo/ della barbarie in parte, che sola in meglio / guida i pubblici fati. / Così ti spiacque il vero / dell’aspra sorte e del depresso loco / che natura ci die’. Per questo il tergo / vigliaccamente rivolgesti al lume / che il fe’ palese; e, fuggitivo, appelli / vil chi lui segue, e solo / magnanimo colui / che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, / fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Tanto che Cesare Vasoli, il curatore dell’edizione italiana da noi sopra utilizzata, non può non osservare che il radicale pessimismo di Schopenhauer va contro tutto il filone principale della filosofia moderna e in particolare contro ogni idea illuminista di progresso inteso come accrescimento della civiltà (cit., XLII-XLIII):
La volontà non può mai esaurirsi, perché il suo esaurirsi sarebbe la fine, oil totale annientamento di tutto; né il dolore può quindi mai aver termine, perché vita e dolore sono la stessa cosa, così come s’identificano volontà e male. Anzi, quanto più la vita si sviluppa e si complica, e più complesse si fanno le sue forme e le sue manifestazioni, tanto più cresce il dolore e la consapevolezza di esso. La cultura, la civiltà, lo sviluppo e il raffinamento dei sentimenti e della coscienza umana sono, quindi, solo dei mezzi per acuire la sofferenza, per render sempre più aspra e intollerabile la sorte degli individui. Schopenhauer che ama ripetere le parole bibliche «Qui auget scientiam, auget dolorem», può così affermare decisamente la superiorità di quelle culture o esperienze etico-religiose che hanno scelto valori e ideali di vita del tutto opposti a quelli propri delle civiltà dell’Occidente, che hanno, insomma, rifiutato l’illusione del progresso e la via della scienza e della tecnica. (…)
Ma Schopenhauer non doveva limitarsi soltanto a pronunciare una condanna che colpiva l’intero corso della civiltà occidentale e, in particolare, proprio quel tipo di società borghese, industriale e mercantile da cui egli stesso proveniva; egli svolge, invece, una sottile analisi del “male” dell’esistenza fondata sulla denuncia del carattere del tutto negativo del piacere, motore assurdo della vita dell’uomo. Proprio quel principio che una lunga tradizione dell’etica illuministica aveva indicato come scopo essenziale dell’agire umano e come la forza che permette alla società di persistere e di progredire, è adesso considerato come la prova più evidente dell’assoluta vanità della prassi. Ed è molto significativo che egli si serva delle osservazioni dei suoi prediletti autori settecenteschi (ma anche di un tema platonico, mirabilmente svolto nel “Fedone”) per mostrare che il cosiddetto “piacere” non è in realtà che la soddisfazione di un bisogno e, dunque, la cessazione di un dolore. Non solo: lo stesso oggetto del desiderio una volta raggiunto non ha più quell’attrazione, quel fascino che possedeva, per noi, prima che lo possedessimo. E se poi alla soddisfazione di un desiderio non segue subito l’insorgere di un altro bisogno, se la nostra volontà non è sempre volta a qualcosa che sia nuovo e diverso, subito la vita è schiacciata dalla noia, ci opprime l’orribile vuoto del tedio, peggiore dello stesso dolore. Eppure, scrive Schopenhauer – toccando lo stesso tema che domina nelle prime pagine ‘filosofiche’ dello “Zibaldone”, stese quasi negli stessi anni – la nostra esistenza continua; e nonostante tutto l’uomo, ogni uomo, desidera e si sforza di vivere, lotta per mantenere e accrescere la propria piccola vita, anche se ha coscienza della vanità dei suoi sforzi e sa di essere destinato al nulla.
Per cui si torna sempre allo sdegnato e quasi incredulo denique vivunt di lucreziana memoria (De Rerum Natura, III, 48-50):
48 questi medesimi, cacciati dalla patria ed esiliati lontano
49 dal cospetto degli uomini, disonorati da un’accusa
50 vergognosa, afflitti da ogni sorta di pena, nonostante tutto vivono…
concetto da noi già sviluppato in altro luogo (cfr. Rileggendo Lucrezio: l’uomo è un assurdo gettato a caso in attesa del nulla?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 09/07/08, cfr. anche: Lucrezio vuol liberare l’uomo dalla paura della morte: ma ci riesce?, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 04/01/20).
Abbiamo detto che il pessimismo di Schopenhauer non è molto ben strutturato sul piano filosofico, ma sempre piuttosto il frutto di un atteggiamento emotivo. Espressioni come l’insufficienza della vita rispetto alla soddisfazione dello spirito sono filosoficamente troppo vaghe e generiche: che cosa si deve intendere per «insufficienza della vita»? La vita, considerata in se stessa, non può essere giudicata ”sufficiente” o “insufficiente”, tanto più che bisognerebbe specificare rispetto a che cosa si stabilisce tale implicita comparazione; e comunque la vita non è un soggetto autonomo, come se avesse una mente, una volontà, un indirizzo proprio: san Tommaso direbbe, giustamente, che nella realtà esistono gli esseri viventi, non una cosa chiamata ‘vita’ che esiste per conto proprio. Ad ogni modo, la vita dell’anima razionale è una cosa, la vita dell’anima sensitiva è un’altra, e quella dell’anima vegetativa, un’altra ancora: a quale di codeste ‘vite’ è più attaccato l’essere umano? Probabilmente a quella vegetativa, perché è la più cieca e originaria, quindi la più ‘naturale’. Alla luce della ragione e della volontà, invece, un uomo può anche decidere di sacrificare la propria vita per qualcun altro o qualcos’altro, andando contro l’istinto primario, quello dell’auto-conservazione.
Ora, tornando alle domande che ci eravamo poste all’inizio, e lasciando da parte la questione – di per sé terribilmente astratta e soggettiva – se la vita sia un bene o un male, proprio l’esperienza concreta – e contra factum non valet argumentum – ci mostra che molte persone non soltanto avvertono la tristezza e lo squallore di vivere in maniera cieca e irriflessiva, dominate da un ottuso egoismo che le sottrae freschezza e sapore, ma si mostrano grate se qualcuno le aiuta ad uscire dal vicolo cieco e si sforzano di farlo, impegnandosi per quanto le loro forze lo consentono. E dunque se vi fosse anche un solo essere umano che manifesta una simile disposizione d’animo; se vi fosse anche un solo essere umano che scuote le catene dell’io e desidera ardentemente che qualcuno lo aiuto a spezzarle, ecco che tutte quelle domande perdono significato e appaiono ciò che realmente sono: espressione d’uno stato d’animo di stanchezza, comprensibile ma transitorio e non ponderato a sufficienza alla luce dei valori – un cristiano direbbe: alla luce della grazia - per il quale esiste una sola risposta possibile: il rinnovato impegno verso la verità, la bontà e la bellezza, che si completa naturalmente con l’impegno ad aiutare anche gli altri, beninteso quelli che lo vogliono sinceramente, a mettersi sulla stessa strada.
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