Al cinema la fabbrica di bambini e del cambio di sesso nel cuore di Milano
Mar 28, 2025
di Raffaella Frullone
«Sedici o diassette anni, femmina che vuole diventare maschio, è il prodotto più venduto del momento». Sono le parole pronunciate nel film “GEN_” di Gianluca Matarrese, proiettato in anteprima il 15 marzo al cinema Beltrade di Milano, dal protagonista, il medico Maurizio Bini. Il “prodotto più venduto del momento” è il tipo di “transizione di genere” che oggi va per la maggiore.
Bini non è un personaggio di fantasia, è una figura di grande rilievo professionale dell’Ospedale Niguarda di Milano, uno dei più grandi e famosi nosocomi della città. Già responsabile della struttura complessa di Ostetricia e ginecologia, attualmente è responsabile del Dipartimento di sterilità e crioconservazione gametica, della Banca dei gameti regionale per fecondazioni da donazione e del Settore adeguamento di genere. Medico con inusuali competenze e titoli umanistici: una laurea in filosofia, un diploma universitario triennale in Lingua e letteratura cinese, anche una certa padronanza dell’arabo. Il film ha una struttura semplice: una telecamera segue l’attività professionale di Bini, soprattutto i colloqui con i pazienti, in cerca di una gravidanza con la fecodazione artificiale o di una via farmacologica per apparire di un altro sesso.
Nel film se ne parla en passant, ma dell’attività di Bini, ha fatto parte anche l’aborto. Una vecchia intervista fattagli dal Corriere della Sera, nel 2006, portava questo titolo: «La mia vita in corsia come unico non obiettore, tra vacanze interrotte e ostacoli alla carriera». Nell’articolo si raccontava il rammarico del medico che «non aveva potuto esser presente alla morte del padre perché “era programmata una seduta di interruzioni di gravidanza quel giorno. Quale scelta avevo?”» si chiedeva facendo riferimento a un ospedale, sempre il Niguarda, definito dall’intervistatore «culla di Comunione e Liberazione».
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e ora che la pensione si avvicina al cinema arriva un film che appare come la celebrazione di un personaggio e di quella che nella locandina viene chiamata una vera e propria «missione», ossia produrre vite in laboratorio per chi lo desidera, modificare il corpo come lo si desidera a chi rifiuta il proprio sesso.
Quello che si vede passare sul grande schermo è una carrellata di volti, storie, dolori e bisogni. Innanzitutto ci sono le persone che vorrebbero un figlio con la fecondazione in vitro, omologa o eterologa nelle loro varie declinazioni. E opzioni. «Allora come tipo di carnagione possiamo scegliere tra ispanica o caucasica, come preferisce», spiega il dottore ad una coppia. Nulla è lasciato al caso, si analizzano i cataologhi delle fornitrici di ovuli o di quelli di seme, si passano in rassegna altezza, colore della pelle, provenienza. Non ci sono limiti, se non quelli legali, tenendo presente però, spiega il protagonista nel film, che «certe volte in sanità le cose sono giuste e devi forzare perché siano legali». Anche l’età non è obiezione vengono accompagnate nel percorso di procreazione assistita ragazze di 23 anni che stanno provando ad avere un figlio da 8 (!) così come donne che di anni ne hanno 47 o anche 49 e si stanno preparando ormai a lasciare il proprio periodo fertile alle spalle. Non c’è garanzia di successo, chiaramente, ma a tutte è offerta una speranza. «Non è normale essere in menopausa – afferma Bini – siamo solo noi e le balene che sopravviviamo all’età in cui possiamo aver figli e non è normale». Bini non nega la possibilità di concepire in laboratorio nemmeno di fronte al parere negativo di uno psicologo: «Se iniziamo a pensare che delle persone non debbano riprodursi, finiremo per pensarlo per troppa gente. Molte più persone alle quali noi non daremmo mai il permesso di riprodursi, si riproduce». E quindi, con che diritto dire no?
E poi c’è il filone in enorme crescita della cosiddetta transizione di genere. Altri volti, altre storie, altri dolori. «Sto prendendo psicofarmaci», dice un ragazzo sedendosi in ambulatorio. Bini chiede se è per la questione dell’idenità di genere o per altro, il ragazzo risponde che è altro. Si procede. Qui arrivano da tutta la Lombardia ragazzi che vivono con un fortissimo disagio psicologico verso il corpo sessuato e sono sinceramente convinti che la soluzione sia cambiare sesso. Come se fosse davvero possibile. Molti sono già stati confortati in questa strada da psicologi o altri medici, qualcuno è già anche stato operato, ossia privato di parte del corredo genitale, mutilato. Bini accoglie, ascolta, valuta, chiama già i suoi giovani pazienti col nome d’elezione e si rivolge loro con i pronomi del sesso richiesto. Spesso nel docu film lo si vede consegnare scatole, confezioni contenitori. Sono ormoni. Servono per mascolinizzare corpi femminili e viceversa. Non c’è da pagare nulla, è tutto a carico del Servizio sanitario nazionale.
Arriva Bodgana. Da bambina è stata adottata in Bulgaria, ora i suoi genitori adottivi rifiutano il suo “cambio di sesso” quindi si sente di nuovo abbandonata, vuole diventare Bogdan. Entrano due gemelle, sono giovanissime, entrambe si definiscono queer, una spiega di voler cambiare sesso e di volersi chiamare Charlie, l’altra racconta di essere bisessuale e di stare insieme ad un trans. C’è una donna egiziana che sta scontando una pena in carcere, si presenta in ambulatorio accompagnata da un agente di polizia penitenziaria, dice che vuole amputarsi i seni, che si sente maschio, vorrebbe cambiare sesso e anche sezione carceraria, non vuole più avere le mestruazioni. C’è un ragazzo che ha già fatto la cosiddetta transizione sociale e prende ormoni da un pezzo, ha l’aspetto di una ragazza molto bella ma quel disagio col suo corpo resta, dice che vorrebbe intervenire sulle ossa. E poi una coppia, in cui lui sta facendo il percorso di transizione per diventare una femmina, lei sta facendo la transizione per diventare un maschio. Vorrebbero un bambino con la procreazione assistita.
«Quando sono arrivata qui mi ha stupito entrare in un ambulatorio di transizione in un ambiente in cui si fa procreazione assistita. Mi ha stupito questa fusione tra fertilità e transizione»: stavolta a parlare, seduta sulla sedia del paziente, è un altro medico, che si prepara ad ereditare il lavoro di Bini, il quale ne ha parlato così in un’intervista rilasciata a Libero ha spiegato scherzando: «Adesso c’è una giovane dottoressa, Chiara, che finalmente sembra avere le perversioni giuste per fare per fare questo tipo di lavoro». E poi ha proseguito: «Faccio un mestiere che fino a pochi anni fa era attribuito alle divinità, cioè fare esseri umani, creare embrioni che fanno esseri umani; e da adulti facendogli cominciare una nuova vita. Quindi è un lavoro difficile e sono brividi. È venuta una donna sterile, ho fatto la fecondazione artificiale ed è nata questa bambina. Io ero in sala parto e ho attribuito il sesso alla nascita di carattere femminile. Poi la persona ha transitato: l’ha aiutata a diventare maschio e si è sposato con una donna. Sempre io ho fatto la fecondazione artificiale su sua moglie». Tout se tient. Tutto è collegato. Dalla culla a una nuova culla. Anzi da prima della culla, da quel laboratorio dell’ospedale Niguarda in cui si lavora ai “prodotti”.
La scienza dice che è possibile, la psicologia adotta l’approccio affermativo, il sistema sanitario paga. Che male c’è? O forse dovremmo piuttosto chiederci: «Che bene c’è?»
(Fonte foto: Youtube)
FONTE : IL TIMONE
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